Alessandra Grandelis
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I. II. III. |
Il romanzo e il suo tempo Due oggetti funzionali: l'automobile e la pistola Gli oggetti non funzionali, tra tradizione e innovazione |
Meridiani e paralleli si intitola una poesia scritta da Moravia negli anni Settanta: al centro del testo vi è un paralume sferico di carta con la sua struttura in fil di ferro che all'autore pare imitare i meridiani e i paralleli di un mondo insondabile.1 Questo paralume ricorda le tante lampade e gli altrettanti paralume che affollano Gli Indifferenti, fin dalla prima e ben nota pagina del romanzo dove Carla, dopo aver rifiutato di avvicinarsi a Leo, fissa il proprio sguardo nel «cerchio di luce» che illumina gingilli e altri oggetti, tra cui il celebre «Budda campagnuolo» dalla testa mobile, in groppa a un asino, con le sembianze di «un contadino grasso dal ventre avvolto in un kimono a fiorami».2 È una descrizione che consente più di un rilievo sul piano critico. Il paralume, che è il primo oggetto incontrato dai lettori insieme agli abiti di Carla, determina un'illuminazione non sottovalutabile nell'atto interpretativo; la si potrebbe definire selettiva, qui e lungo l'intero romanzo.3 In questo caso mette in risalto un oggetto che entra subito in relazione con il personaggio della ragazza; la deformazione del Budda anticipa di poche righe il ritratto della giovane donna, fatto di dettagli deformati di matrice espressionista: anche altrove ha «polpacci storti», «grossi seni, braccia e spalle fragili, e quella testa rotonda così pesante sul collo sottile».4 Inoltre lo stesso oggetto di dubbio gusto, kitsch, si fa spia fenomenica sulla realtà borghese in cui le diverse cose, lontane dal trovare un'armonia, piuttosto concretizzano un rapporto problematico tra l'io e il mondo messo in luce dall'analisi che segue.
Sono, questi, rilievi preliminari che vanno considerati una dichiarazione di intenti per un lavoro interessato a mostrare come tale rapporto problematico sia riscontrabile in più direzioni, di seguito esplicitate, e in più punti del romanzo di Moravia, che si è sempre definito uno scrittore di cose e in veste di critico d'arte ha ammirato quegli artisti che nelle loro opere rispondono all'«appello degli oggetti», in primis Renato Guttuso.5 In quest'ottica qualche verifica sulla narrativa moraviana è stata fatta da studi importanti, a cominciare da quello di Bruno Basile,6 dedicato allo specchio e alla pervasività della finestra nel romanzo e nell'opera in generale - finestre per la maggior parte chiuse, addirittura «serrate» fin dal terzo capitolo, e comunque mai aperte, senza che venga stabilito un contatto con il reale - e in quello più recente di Alessandra Sarchi,7 in cui si indaga la presenza di alcuni espedienti tipicamente pittorici (ancora lo specchio e la finestra, ma anche la maschera e l'ombra) per amplificare, in senso pirandelliano, la dicotomia tra forma e vita dei personaggi.
Si può parlare di una vera e propria poetica dell'oggetto destinata a caratterizzare tutta la produzione e a intensificarsi nella stagione del miracolo economico e del trionfo delle merci. Basti ricordare che in un romanzo importante del canone, La noia (1960), al centro fin dalla zona soglia del titolo, è definita «una malattia degli oggetti»,8 e nella raccolta L'automa (1962) due racconti significativi, Il feticcio e Gli oggetti, mettono in forma letteraria la fragilità dell'individuo in una realtà ingombra di «mobili, suppellettili, ninnoli e pitture».9
I. Il romanzo e il suo tempo
Questa poetica ha un'origine biografica prima che letteraria. Nel rispondere a una domanda sul personale «feticismo per gli oggetti», è lo stesso Moravia a metterlo in relazione con la propria «sensibilità morbosa» che lo fa sentire «dentro un involucro deformante» da cui guardare le cose, dilatandole.10 È dunque a partire dalla fascinazione per ciò che lo circonda, familiare e borghese, che Moravia impegna in più direzioni la realtà oggettuale, anche come medium per rappresentare la dimensione interiore senza inciampare in un eccesso di psicologismo in grado di mettere in crisi il romanzo. Lo sostiene nel giovanile saggio C'è una crisi del romanzo? del 1927 dove si oppone alla «gran fiera psicologica» degli sterili imitatori di Pirandello, Joyce e Proust, «stelle di prima grandezza»11 che devono essere discusse e soppesate nella ricerca di un realismo personale, in un equilibrio tra oggettivo e soggettivo, tra tradizione e innovazione. Anche a posteriori, nel 1985, in occasione di un congresso parigino in memoria dell'incontro tra intellettuali contro i totalitarismi avvenuto cinquant'anni prima nella capitale francese, ribadisce che allora bisognava «reagire» perché Joyce e Proust avevano detto «tutto ciò che era possibile dire sulla realtà».12 Moravia non è uno sterile imitatore. Accoglie questi e altri modelli, accoglie «il dialogo teatrale, il monologo, l'analisi integrale, la materializzazione del pensiero»13 per poi rielaborarli in maniera anche contrappuntistica rispetto a quanto accade attorno alla rivista «900» che, lo si sa, vede nascere Gli indifferenti:14 mentre sul secondo numero del periodico Bontempelli invita a creare oggetti per poter modificare il mondo e negare programmaticamente la dimensione psicologica, Moravia, oltre a non negarla, la fa filtrare dall'oggetto stesso.
Per verificare questa e altre funzioni del dato materiale è possibile procedere a quella che Francesco Orlando definisce una «scomposizione paradigmatica» del testo e al successivo rimontaggio secondo «una logica di affinità e di opposizioni»15 che in questo studio necessariamente circoscritto riguardano, in ordine di esposizione, un campione esemplare di oggetti funzionali (l'automobile e la pistola) e di quelli non funzionali (diversi e presenti negli interni delle abitazioni di Lisa e degli Ardengo), con riferimento allo studio orlandiano Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura.16 Ne sono stati selezionali alcuni che hanno valore nella definizione del personaggio, nella struttura narrativa e nel dibattito sulla posizione del romanzo moraviano dentro il Novecento, come anticipato in apertura: proprio perché l'oggetto è un frammento di mondo trascinato dentro la pagina, sia esso funzionale o non, consente soprattutto di discutere in modo pluriprospettico il realismo del giovane Moravia che durante la stesura degli Indifferenti si avvale della descrizione - la prima modalità formale che accompagna la comparsa degli oggetti - come codificazione che rinvia ad altro, che non si limita al semplice dato materiale: «La descrizione per la descrizione è una schiccheria inutile e sempre un dannunzianesimo»,17 scrive in una lettera del 1927.
Se ne accorge presto Benjamin Crémieux che accompagna con una prefazione la prima traduzione francese del romanzo uscita nel 1931. Oltre a riconoscere i modelli di Gide e Proust, di Pirandello e di altri narratori inglesi, Crémieux si sofferma su Cortigiana stanca - l'esordio narrativo di Moravia - che per Laura Desideri può essere considerato un racconto espunto degli Indifferenti, al pari dei Cinque sogni apparsi su «L'Interplanetario».18 Il racconto serve al critico francese per mostrare nella misura breve un tratto distintivo moraviano che si amplifica nel romanzo: Moravia non offre una trance de vie sul modello di Zola bensì una tranche de durée, un frammento di vita che non può essere raccontata nel suo intero svolgersi, e in tale ottica va interpretata anche la contrazione del tempo della narrazione negli Indifferenti. In questa porzione di esistenza Moravia eccelle nello «scoprire i momenti più banali, più anodini della vita, il gesto, l'abitudine, la parola»,19 e si potrebbe aggiungere a questo elenco «la cosa» poiché, continua Crémieux, lo scrittore si differenzia da altri esempi nel passaggio continuo «dal dettaglio materiale a quello psicologico».20 Ciò accade a partire dagli oggetti funzionali, e in particolare dall'automobile.
II. Due oggetti funzionali: l'automobile e la pistola
Questo mezzo di locomozione potrebbe figurare tra le molte Automobili di carta considerate nel suo libro da Emanuele Zinato, il quale, sempre in dialogo con lo studio orlandiano, definisce questo oggetto «un'icona transepocale»21 che si impone del Novecento. Non è solamente un prodotto dell'homo faber; si fa «sistema di percezione»,22 e lo dimostra anche un romanzo come Gli indifferenti, scritto in un'epoca in cui aumenta sensibilmente la produzione delle automobili dopo la fine della prima guerra mondiale.
L'automobile, la cui velocità insieme ai giochi di luce sui vetri e alle carrozzerie rinviano alle scomposizioni futuriste e cubiste,23 è una presenza costante fin dal primo capitolo, per esempio nei pettegolezzi di Mariagrazia che soppesa e giudica il prestigio sociale della famiglia Ricci attraverso l'acquisto di una nuova Fiat;24 e Leo, l'unico a essere connotato, non a caso, da «oggetti utili»,25 afferma il suo potere anche con l'automobile: «"L'automobile" ripeté l'uomo scrollandosi, "sicuro... ho l'automobile"».26 Tra i tanti, meritano l'attenzione due passi estrapolati dal settimo capitolo, quello in cui Leo e Carla si appartano in giardino e poi si recano a un ballo al Ritz, insieme agli altri della famiglia. A questo punto si colloca il seguente frammento:
«Leo guidava con abilità la grossa macchina tra la confusione delle strade congestionate; Carla immobile guardava trasognata il movimento della via, laggiù, oltre il cofano lucido, dove, tre due nere processioni di ombrelli, sotto la pioggia, i veicoli coi loro rossi lumi guizzavano da ogni parte come impazzati. Anche la madre guardava attraverso il finestrino, ma piuttosto che vedere, per farsi vedere: quella grande e lussuosa macchina le dava un senso di felicità e di ricchezza [...]. Soltanto Michele non guardava la strada, quello che l'automobile portava nella sua scatola suntuosa l'interessava di più [...] ogni volta che la macchina passava sotto un fanale, una luce vivida illuminava per un istante quelle persone sedute e immobili: apparivano allora il volto della madre [...]; quello di Carla [...]; e quello di Leo, di profilo rosso, regolare, un po' duro, come quegli oggetti inspiegabili e paurosi che i lampi delle tempeste rivelano per un istante. [...] ogni scossa dell'automobile li faceva urtare tra di loro come fantocci inerti [...]».27
Carla ha anticipato a Leo che al ballo saprà dirgli se di notte lo raggiungerà nella sua casa: lo spostamento in automobile marca un passaggio importante all'interno del romanzo, così come ha una forte valenza simbolica sul piano erotico la scena in cui l'automobile con Carla entra, successivamente, nel garage di Leo. Se l'auto si fa sistema percettivo, qui lo si coglie in una doppia direzione, dall'interno dell'abitacolo verso l'esterno, e viceversa. Mentre Leo è perfettamente integrato alla macchina, ne è quasi un'appendice, Carla è sedotta dalla modernità e dalla nuova vita che si configura oltre il cofano, fatta, come si legge nella pagina precedente, di cappelli parigini, di un'automobile per sé, di una casa, e di gioielli su cui proiettare i propri desideri;28 e intanto la madre fa del finestrino una finestra, da cui esibire gli autoinganni del proprio mondo. In entrambi i casi il momento esperienziale è limitato e mediato dalla «scatola ovattata», all'interno della quale Michele disloca l'attenzione per guardare gli altri che si fanno oggetti al pari dell'automobile, in un processo di reificazione dentro l'involucro di vetro, lamiera e gomma, ridotti a fantocci che ostentano l'artificialità dell'esistenza.
Il secondo passo vede Michele uscire dal Ritz dopo l'ennesimo scontro con Merumeci:
«I marciapiedi erano affollati, la strada rigurgitava di veicoli, era il momento del massimo traffico; senza ombrello sotto la pioggia, Michele camminava con lentezza [...]. Gli venne il desiderio di entrare nel cinematografo; ce n'era uno su quella strada, assai lussuoso, il quale sulla porta di marmo ostentava una girandola luminosa in continuo movimento. [...]
Quel giorno, mentre se ne andava passo dopo passo lungo i marciapiedi affollati, lo colpì, guardando in terra alle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota, la vanità del suo movimento: 'Tutta questa gente' pensò, 'sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo s'affretta, si tormenta, è triste, allegra, vive, io... io invece nulla... nessuno scopo... se non cammino sto seduto: fa lo stesso'. [...]
[...] le stupide girandole erano là, in quella nera oscurità superiore; una raccomandava una pasta dentifricia, un'altra una vernice per le scarpe... Riabbassò la testa; i piedi non cessavano il loro movimento, il fango schizzava da sotto i tacchi, la folla camminava. 'E io dove vado?' si domandò ancora; si passò un dito nel colletto: 'cosa sono? perché non correre, non affrettarmi come tutta questa gente? perché non essere un uomo istintivo, sincero? perché non aver fede?' L'angoscia l'opprimeva: avrebbe voluto fermare uno di questi passanti, prenderlo per il bavero, domandargli dove andasse, perché corresse in quel modo; avrebbe voluto avere uno scopo qualsiasi, anche ingannevole, e non scalpicciare così, di strada in strada, tra la gente che ne aveva uno. 'Dove vado?'; un tempo, a quel che pareva, gli uomini conoscevano il loro cammino dai primi fino agli ultimi passi; ora no [...].
[...] la strada rigurgitava di veicoli, i quali, troppo numerosi avanzavano lentamente lungo i marciapiedi; impossibile attraversare [...]. Allora tra le altre osservò una macchina più grande e più lussuosa; nell'interno di essa sedeva un uomo che si appoggiava rigidamente contro il fondo e aveva la testa nell'ombra; un braccio gli attraversava il petto, un braccio di donna, e si capiva che ella, sedutagli al lato, gli si era accasciata sulle ginocchia [...] poi il veicolo avanzò scivolando come un cetaceo tra le altre automobili; egli non vide più che un lumettino rosso fissato sopra la targa dei numeri; pareva un richiamo; e anche questo segno sparì».29
Il cronotopo è la strada della Roma cinematografica. Michele, un anonimo nella massa, si immerge nello «spettacolo della strada»; è un flâneur che si incontra e scontra con la folla, non sa dove andare, osserva le merci, la pubblicità, il traffico. L'automobile si impone nello spazio e lo trasforma, obbligando a viverlo diversamente, fino a regolare il movimento sui marciapiedi, là dove Michele guarda lo scalpicciare degli altri uomini. L'urto con questa vertigine cittadina - attraente e disorientante - restituisce l'immagine più profonda dell'uomo moderno. La lentezza di Michele è una lentezza prima di tutto morale a cui corrisponde un rallentamento della narrazione, condotta da un narratore apparentemente onnisciente che invece vacilla nel suo essere portatore di una verità solo parziale e per di più frammentata dallo sguardo dei personaggi: gli insistiti puntini di sospensione e il proliferare delle interrogative contribuiscono a dilatare il tempo interiore. Michele si interessa a un'unica scena dentro lo spettacolo cittadino, quella che si svolge all'interno di una macchina e che ha due misteriosi protagonisti, un uomo e una donna. Scorge un segno che poi sparisce. Similmente all'Ulrich di Musil, anche Michele, un anonimo nel flusso della massa, è un insetto che non conosce nemmeno i più banali colori del «richiamo».
È sempre Michele a impugnare il secondo oggetto funzionale qui considerato, la pistola degli Indifferenti, che si deve annoverare tra le armi più celebri del Novecento letterario:
«Prima non capì che bottega fosse: il lustro del vetro, di sbieco, confondeva gli oggetti; ancora un passo: allora gli apparvero 'armeria' scritto in lettere bianche, e, sopra, un fondo marrone, una rastrelliera di fucili da caccia. 'E qui ci compro la rivoltella' pensò; ma non tirò innanzi; davanti alla porta esitò, fece una giravolta ed entrò. [...] Ora il venditore [...] disponeva sul vetro, una per volta, delle differenti rivoltelle [...]; alcune erano piatte e nere, altre panciute e lucide; automatiche le prime, a tamburo girante le seconde».30
Ci sono diversi punti nel romanzo in cui i personaggi, afflitti dai dubbi e soffocati dalle contraddizioni, non agiscono oppure si muovono senza che vi sia un rapporto chiaro tra le cause e gli effetti delle loro azioni. Anche in questo caso, nell'unico momento in cui Michele sceglie di fare qualcosa, fatica a riconoscere il negozio e gli oggetti si confondono sotto la spinta emotiva. L'esitazione anticipa l'atto mancato che ha il suo centro in un oggetto che condensa la tragedia moderna, cercata ossessivamente da Moravia, come dichiara nella corrispondenza e nelle interviste rilasciate nel tempo. È la pistola a colpire e frantumare la struttura apparentemente classica, e comunque teatrale, del romanzo. Durante la sua stesura Moravia è convinto che «da storico e narrativo deve diventare drammatico»31 e la pistola attua quello che Raffaele Donnarumma ha definito un «disinvestimento sulla trama».32 Quest'ultima osservazione ha valore se collocata dentro il più recente dibattito sul modernismo che per convenzione fa cominciare nel 1929, e dunque dalla pubblicazione degli Indifferenti, una nuova stagione narrativa all'insegna del realismo e di forme romanzesche più tradizionali. Non si discute il fatto che dentro il canone Moravia abbia una posizione differente da quella di Svevo, Pirandello e Tozzi, autori che per ragioni anagrafiche può metabolizzare senza però che vi sia una restaurazione, per riprendere le parole di Stefano Guerriero.33 Tuttavia c'è ancora da chiedersi e da discutere se il Moravia degli Indifferenti, pur da moderato, stia dentro o fuori quel limite convenzionale, se stia dentro o fuori la prima stagione modernista.34 Allora, nella via che sta percorrendo verso il romanzo drammatico, non si può sottovalutare il ricorso al teatro che serve a Moravia per esibire, pur senza eccessive sperimentazioni, le convenzioni e gli artifici di una narrazione in cui si muovono maschere, automi, manichini, termini non a caso ridondanti negli Indifferenti.35 In quest'ottica Moravia va a vedere, e ne parla nelle sue lettere, il teatro psicologico di Leonid Nikolaevič Andreev, il teatro di Pier Maria Rosso di San Secondo e di Antonelli, gli innovatori di quel teatro borghese tanto di moda tra Otto e Novecento poi da declinare secondo un'unica certezza, quella dell'illeggibilità del mondo.
I personaggi di Moravia solcano un mondo che non è oggettivamente interpretabile, anche quando i caratteri sociali e antropologici della modernità vengono definiti seppure in pochi ma efficaci tratti. A questo concorre l'attenzione per le merci che vengono osservate, immaginate e desiderate, acquistate e promosse dalla pubblicità. A tal proposito è utile riprendere una delle pagine più conosciute degli Indifferenti:
«Nel mezzo della vetrina, che era quella di un profumiere, tra uno scintillio biondo di bottiglie di acqua di Colonia a buon mercato, in cima ad una catasta di saponette rosee e verdoline, un fantoccio réclame attirava l'attenzione dei passanti; dipinto a vivi colori, tagliato nel cartone, raffigurato secondo un modello più umano che fantastico, aveva un volto immobile, stupido e ilare e dei grandi occhi castani pieni di fede candida e incrollabile; [...] con un gesto dimostrativo passava e ripassava una lama di rasoio sopra una striscia di pelle; affilava. Non ci poteva essere alcun nesso tra la banale azione che compiva e la lieta soddisfazione della sua faccia rosea, ma appunto in questa assurdità stava l'efficacia della réclame [...]. Gli parve di vedere se stesso [...]».36
Michele sta andando da Lisa e di qui a poco scoprirà cosa accade tra la sorella e Leo. Il passo funge da cerniera tra gli oggetti funzionali e quelli defunzionalizzati che affollano gli interni borghesi, l'ambientazione privilegiata da Moravia a cui questo lavoro ha fatto riferimento nella parte preliminare. Le merci pubblicizzate sono il massimo della funzionalità ma la pubblicità non lo è nello studio di Francesco Orlando sugli Oggetti desueti nelle immagini della letteratura. All'interno dell'albero «né genealogico né vegetale» con il quale Orlando classifica le corporeità non funzionali di cui la letteratura si fa ricettacolo come ritorno del represso, il fantoccio-réclame rinvia al kitsch della pubblicità e si inserisce nella categoria orlandiana del pretenzioso-fittizio. Secondo Orlando, al pari della torta nuziale di Madame Bovary, un'eccessiva architettura a tre piani con portici, colonnati e in cima un Amorino in movimento su un'altalena di cioccolato, che nella pretesa di essere bella si rivela insopportabile, kitsch, come il matrimonio che confina la donna in campagna, anche la pubblicità va in direzione dell'inautenticità: è una «promessa interessata» e un «assaggio ineffabile».37 Il fantoccio è la perfetta proiezione di un «difetto d'identità»,38 in una formazione di compromesso tra il fascino seduttivo dello spettacolo e la volontà latente, ma subito soffocata, di distruggere il pupazzo; al contempo, indirettamente, si fa proiezione delle tensioni bovaristiche delle due donne, Mariagrazia e Carla.
III. Gli oggetti non funzionali, tra tradizione e innovazione
Facendo sempre ricorso al lavoro di Orlando, utile per ragionare sulla posizione di Moravia tra realismo e modernismo, sulla necessità di mediare tra la rappresentazione della realtà esteriore, concreta, e quella della coscienza, va detto che nel romanzo d'esordio convivono due categorie di oggetti non funzionali che corrispondono all'affresco sociale e all'affresco interiore. In primo luogo la tradizione permane nella categoria ottocentesca del logoro-realistico che «comincia idealmente dal declassamento della classe dominante anteriore».39 Nella vicenda romanzesca Leo, che incarna lo speculatore di ultima generazione, approfitta senza scrupoli dell'altrui declassamento e il personaggio di Lisa, attraverso la realtà materiale del suo boudoir, manifesta tutta la decadenza morale e di classe:
«A prima vista tutto appariva puro e innocente [...]; ma se si guardava meglio si cambiava idea; [...] si osservava che la lacca dei mobili era incrostata e ingiallita, che la tappezzeria era scolorita e qua e là mostrava la trama, che una stoffa lacera e dei cuscini coprivano il divano d'angolo; [...] si rivelavano gli strappi delle tendine, i vetri spezzati degli acquerelli, i libri polverosi o sdruciti, le larghe screpolature del soffitto; e se poi alla fine era presente la padrona di casa, non c'era neppur bisogno di cercare, tutta questa corruzione saltava agli occhi come accusata dalla figura della donna».40
Gli oggetti descritti in questo frammento, un tempo prestigiosi e ora degradati, rappresentano la rimozione collettiva dello svuotamento sociale a cui il fascismo, che fa da sfondo silenzioso all'intera vicenda, sottopone la borghesia mentre promette di risarcirla dal fallimento della guerra; negli interni delle abitazioni permettono la messa a nudo della verità politica, filtrata dai corpi delle cose.
In secondo luogo, se si parla di innovazione letteraria, molti oggetti, tra cui il kitsch della pubblicità, appartengono a una delle categorie che Orlando documenta dopo la frattura storica del 1848:41 data assunta come una delle possibili cesure dentro l'attuale e vivace dibattito sui limiti cronologici del modernismo - guardando in particolare alla precocità della Francia42 - e legittimata dalla prospettiva di Moravia che sottolinea, nel 1940, come la ricerca di Joyce si serva dei mezzi letterari del naturalismo «spinti [...] ad un eccesso paradossale».43 Si tratta della categoria del desolato-sconnesso che implica aspetti allegorici, perturbanti. Esemplare è la rappresentazione della stanza di Carla che alla vigilia del ventiquattresimo compleanno sa già che l'indomani si donerà all'amante della madre, alla ricerca di una svolta alla propria esistenza intorpidita:
«Carla guardava queste cose [...]; osservava furtivamente intorno, vedeva ora una testa irsuta di bambola, ora l'attaccapanni carico di vestiti, ora la teletta, ora la lampada...e quella luce; quella luce speciale, tranquilla familiare che a forza d'illuminarli pareva essere negli oggetti stessi della stanza [...]».44
Gli oggetti sono straniati dagli occhi di Carla e rivelano tutta l'ambiguità della ragazza nel loro essere perturbanti e insieme falsamente rassicuranti proprio per quella luce che da loro si irradia dopo aver assorbito per lungo tempo la vitalità di Carla.45 Sono epifanie, epifanie negative, che svelano l'incapacità di desiderio del personaggio che, contrariamente alla bellezza ribadita da Leo, appartiene a quell'invasione dei brutti annunciata da Giacomo Debenedetti nel Romanzo del Novecento.46 Carla incarna un'iniziazione mancata, impossibile, codificata dalla vestizione dopo la notte trascorsa con Leo: non con abiti parigini, bensì cenci.47
Nella stanza di Carla si accumulano alcuni oggetti tra i tanti, banali e quotidiani, degli Indifferenti, che hanno importanza in rapporto al soggetto che li percepisce. Sono tra le tante cose del Novecento che silenziosamente fanno rumore e si rompono per parafrasare un noto saggio del 1924 di Virginia Woolf:48 curiosamente, nel suo diario di viaggio del 1935 scrive «posso ripetere a memoria Gli indifferenti stando distesa a letto».49 Come rileva Auerbach nel finale di Mimesis a proposito di Woolf, le cose sono quella realtà «esteriore obiettiva»,50 quel movente che ha valore rispetto a quanto accade nell'interiorità. Assorbono «i limiti della condizione umana metastorica» per conferire alla narrazione una validità universale.51
Dunque, per analizzare e interpretare la commistione tra mimesi e interiorità nella scrittura di Moravia, e dunque la sua posizione dentro il Novecento e la sua ricerca a cavallo tra realismo e modernismo, l'indagine tematica degli oggetti si rivela decisiva, se è vero che l'oggetto riguarda a un tempo il mondo e la sua rappresentazione, la bruta realtà fenomenica e la sua trasfigurazione psichica, perché le cose non sono mai da collocare fuori di noi.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2022
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gennaio-maggio 2022, n. 1-2