Epifanio Ajello
Università degli Studi di Salerno

Il demoniaco ne Gli indifferenti. «L'infezione», un altro romanzo?

 

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Sommario
I.
II.
III.
I precedenti
«Gli indifferenti» (i due romanzi)
«L'infezione» (il secondo romanzo)


 

 

Lo scritto è immutabile, e spesso le interpretazioni non sono che un riflesso della disperazione che ne deriva.

F. Kafka, Il processo

 

 

L'operazione di scoperta di una storia parallela all'interno di una storia è alimentata dalla convinzione che il testo sia da considerare come un luogo fondo, penetrando nel quale noi siamo inseguiti dagli echi delle parole pronunciate all'entrata.

G. Manganelli, Pinocchio, un libro parallelo

 

 

Ogni romanzo deve avere per fondamento un equivoco.

U. Eco, L'isola del giorno prima

 

§ II. «Gli indifferenti» (i due romanzi)

 

I. I precedenti

Se si potesse, con una formula ad effetto, raffigurare il romanzo degli Indifferenti di Alberto Moravia con un quadro pittorico, ebbene il romanzo potrebbe apparire come una sorta di quadro cubista o espressionista alla Grosz, alla Otto Dix, oppure alla Max Ernest; se si potessero proiettare su uno schermo gli ambienti del romanzo, forse si assisterebbe ad un film alla Hermann Warm, alla Theodor Dreyer o alla Fritz Lang, tutto ombre, angoli puntuti o ondulati piegamenti.
Sì, perché il romanzo lascia l'impressione che le azioni, i personaggi, i rapporti, frutti di un rigoroso comportamento quotidiano, siano nel contempo ammantati di forme e atmosfere surreali, in un costante compromesso tra le istanze opposte del reale e dell'irreale. Per questa via il romanzo sembra subire evidenti influssi che gli arrivano da certo espressionismo (per lo più fatto in casa), ovvero dal contesto socio-culturale della Roma degli anni Venti del Novecento.1 Moravia poté conoscere il teatro di Bragaglia, l'onirico di marca freudiana, il realismo magico bontempelliano, i circoli cinematografici blasettiani, i «Bolscevichi immaginisti» Umberto Barbaro e Vinicio Palladini (con la sua «Estetica del sogno), le esperienze avanguardistiche del Novecento europeo,2 il razionalismo architettonico, finendo, quasi tutto ben assorbito e attraversato, sulle pagine delle riviste «I Lupi», «900», «L'interplanetario».3 E proprio su «Interplanetario» il giovane «redattore» Moravia, lettore onnivoro, già provava gli utensili magico-surreali con i suoi cartoni-racconti, come, ad esempio, ad ammobiliare Villa Mercedes (vero racconto espressionista) con le cui mobilie (e angosce) avrebbe poi arredato Villa Ardengo. Ma tutto questo lo ha già dimostrato Umberto Curi («in un 1928 pullulante di iniziative mi sono imbattuto in un esordiente [Moravia], che operava nel folto delle avanguardie»),4 come poi dichiarato dallo scrittore: «mi interessava e sentivo vicina l'avanguardia di quel tempo»,5 e «mi hanno influenzato assai di più i surrealisti: Apollinaire, Tristan Tzara, Breton, Cocteau perfino. E poi i surrealisti pittori, a cominciare da Marx Ernest: molti miei racconti traggono ispirazione da Une semaine de bonté. Mi piaceva l'avanguardia. Non mi piaceva ciò che i francesi chiamavano l'appel à l'ordre: il neoclassicismo, l'art déco».6 Cui seguiranno le letture del tempo: i romanzi Paludes (1895) di André Gide (da cui forse uno dei possibili primigeni titoli per Gli Indifferenti), Thomas l'imposteur (1923) di J. Cocteau, e soprattutto le illustrazioni surreali di Max Ernest in Une semaine de bonté (1934)). E confesserà Moravia ricordando gli anni giovanili: «Avevo una sensibilità morbosa. E vivevo chiuso dentro la mia sensibilità come dentro un involucro di cristallo deformante. Vedevo tutto più grande, più strano, più intenso del naturale, come sotto l'azione di un allucinante. Le cose mi riempivano di stupore».7

 

§ III. Citazioni o riferimenti al romanzo Torna al sommario dell'articolo

 

II. «Gli indifferenti» (i due romanzi)

Infatti, qualcosa di «allucinante» aleggia negli Indifferenti. Non c'è soltanto, come il giovane Moravia scriveva, una «rappresentazione vera e soprattutto convincente della vita»,8 ma sembra esserci dell'altro. Sembra, per dirla con Francesco Orlando, negli Indifferenti «aprirsi uno spazio immaginario fondato sulla sospensione o neutralizzazione della differenza tra vero e falso, uno spazio in cui vige il diritto di rispondere al piacere dell'immaginario»9. Ci troveremmo in quello che sempre Orlando definisce il «soprannaturale da ignoranza» (ovvero quello di cui non si è mai certi di quanto sia concreto), «sempre caratterizzato per un'ambientazione nella vita di tutti i giorni e nel contemporaneo». E qui non avviene come nel «soprannaturale da imposizione» che diventa «consustanziale al prodigioso» e dal quale non si può sfuggire (vedi quanto accade al Gregor Samsa di Kafka), mentre nel soprannaturale degli Indifferenti ci troveremmo di fronte ad un prodigioso non onnivoro, non dirompente, ma latamente infiltrato nelle maglie della scrittura e impegnato ad aprire «faglie più o meno grandi [di soprannaturale] nel mondo dominato dalla ragione».10
L'incipit del romanzo («Entrò Carla») ci immette subito in una condizione di realtà, poi man mano, però, la norma quotidiana dei rapporti inizia a sfilacciarsi. La «ambientazione» prevedibile sembra come a tratti neutralizzarsi per far posto ad una atmosfera che potremmo definire spettrale; e i personaggi in carne ed ossa sembrano soffrire un'inquieta metamorfosi deformante, assumere l'aspetto di fantocci che sorridono e digrignano i denti.
Il romanzo, insomma, dà l'impressione di nascondere al suo interno una sorta di doppio o secondo romanzo: il primo ben fatto, completo, "ufficiale", pieno del comune senso della realtà, il racconto della due giorni di una famiglia della media-borghesia romana di inizio secolo, ma dentro di esso è come se covasse (senza volere?) un altro, come una propaggine, una "malformazione" o un surrogato del primo. Un potenziale racconto soprannaturale, senza costrutto, senza trama, fatto solo di figure, luci, atmosfere disponibili ad essere rimontate in un'altra trama, e lasciando presagire che qualcosa di differente, di allucinante, sarebbe potuto accadere in quell'interno borghese, ma soprattutto in quella trama.
E, allora, ci si chiede: è possibile leggere Gli Indifferenti di Alberto Moravia, non in maniera unitaria, ma duale? Se si pratica questa imprudente modalità si potrebbe subire l'impressione che dentro Gli Indifferenti (un titolo possibile del romanzo, secondo Moravia, poteva essere: I dannati)11 possa essere (agire), come diffuso, un secondo possibile romanzo fantastico, surreale, pronto ad animarsi e, beninteso, tutto da scrivere. Insomma, un testo suddiviso in due narrazioni, e non ordinariamente precluse l'una all'altra, ma conviventi.12 A questo punto non possiamo non conoscere quanto Moravia consapevolmente abbia governato questi due registri del narrativo.
La grammatica, i lessemi, la sintassi del romanzo restano gli stessi, ma è un differente modo di leggere (un diverso piegamento di senso) a insinuare l'innesco di una rapsodica atmosfera terrifica, di personaggi inquietanti nella struttura del romanzo principe. È un cambio prospettico a mutare non l'ordine del discorso ma i suoi effetti, a mutare il genere del racconto, ad addensare spettri nelle pieghe della norma, lasciando ondeggiare una variante dentro l'invarianza della storia.
Non è certo un commento quanto nasce nel romanzo, né può essere considerata una parafrasi, né una trascrizione, tantomeno una critica (sia pure del tutto letteraria), ma una nuova narrazione (forse una semplice palinodia). Uno spostamento di genere, una trasposizione di atmosfere e di condizioni tematiche. Insomma, un romanzo che nasce per partenogenesi utilizzando le matrici di sé stesso. Se vogliamo si crea una sorta di intertestualità interna, un connubio, e si forma, per citare il Pinocchio di Manganelli, un «libro parallelo» invisibile all'interno del romanzo che si fa «cubico» e che contiene dentro di sé, appunto le potenzialità di altri libri da inscriversi (o da leggervisi):

«esso è percorribile non solo secondo il sentiero delle parole sula pagina, coatto e grammaticalmente garantito, ma secondo altri itinerari, diversamente usando i modi per collegare parole e interpunzioni, lacune e "a capo". Non solo: ma le parole come così usate saranno simili a indizi - tra delittuoso e criptico - che il libro si è lasciato alle spalle, o che si trovano sparsi nel suo alloggio cubico».13

Ma dove si configura questa secondaria matrice di questo secondo racconto? Non è semplice, infatti, tenere fermo il registro del demoniaco, metterlo in luce; e sebbene faccia capolino un po' dappertutto nel romanzo, non si mostra mai a chiare lettere. Imprendibile, si affaccia repentinamente e si dissolve per vie del tutto rapsodiche. Sostanzialmente è un effetto di rifrazione, come quando si guarda in uno smeriglio di luce, o in quei giochini enigmistici per cui soffermandosi su alcuni dettagli appaiono contemporaneamente due figure sovrapposte. E qui sono il verosimile e il soprannaturale a mettersi l'uno sull'altro.
Accade, in qualche maniera, quanto indicato per Petrolio da Pasolini, ovvero la convivenza di una «scena Reale» in competizione con una «Scena della Visione»: una «leggera sfasatura» che coniuga uno dentro l'altro un duplice vedere, senza mai poterlo scindere e separare.14 Insomma, il romanzo è leggibile anche secondo un'attività duale. Come ha notato Armando La Torre per il Moravia degli Indifferenti la sua figura è l'allegoria: «Moravia scrive una cosa e pensa ad un'altra. In superfice, il procedimento è lineare, cristallino, rassicurante; in profondità, impulsivo, enigmatico, inquietante».15 Ed è proprio questa scrittura stregata che in un gioco di diffrazione ottica si confonde nel descrittivo, nei dialoghi, nel fare quotidiano dei personaggi. Notava Giorgio De Chirico nel saggio Sull'arte metafisica (1919) che le cose possiedono sempre «due aspetti: uno corrente quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l'altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica».16
Faccio un esempio. Se giriamo l'asse (del reale) del romanzo conducendolo nell'"altrove",17 lasciandolo procedere proprio lungo la strada dell'allegoria, si potrebbe avere, per un attimo, la sensazione di aver messo piede distrattamente, proprio leggendo Gli indifferenti, in una di quelle camere dei racconti di Henry James quali Il giro di vite o La cifra nel tappeto, abitate da personaggi in esatte proporzioni reali quanto fantasmatici, in un perfetto amalgama tra quotidianità e soprannaturale, tra verosimiglianze e lemuri. E Moravia - non dimentichiamolo - già conosceva molto bene i racconti dello scrittore americano, più volte citato, come frequentava quelli di Edgard Allan Poe (altro superbo mescitore di vero e fantastico), quando confidava, nel '27, a Umberto Morra di Lavriano: «intanto leggo Poe».18
«Che cosa, in assenza di spettri veri e propri, - si chiede allora Stefano Lazzarin - suscita l'impressione dello spettrale?».19 Difatti, negli Indifferenti non ci sono fantasmi di professione (sebbene ne appaia uno in sogno a Carla nel letto di Leo: «è molto dritto, è vestito trasandatamente e la guarda con meravigliata attenzione»). Non ci sono scandalose apparizioni finte o vere - per tornare a James - irruzioni di spettri nel mondo reale, però tutti i personaggi hanno quasi sempre "da fare" con qualcosa d'insolito, con un ché di tenebroso, di freddo, di violento, di ripugnante, come se restasse appunto - come scrive Enzo Siciliano - «fra le loro mani la spoglia morta della loro anima, condannati a vivere in simile funebre compagnia, becchini a loro stessi».20 Ma questo l'aveva già notato subito Arnaldo Frateili, il primo recensore degli Indifferenti all'uscita del libro, il 13 agosto 1929, quando scriveva che nel romanzo «tutto appare preordinato ad un fine di rappresentare in un certo modo quella realtà che dia nell'incubo e nell'allucinazione attraverso particolari puramente descrittivi».21
Non sappiamo quanto Moravia abbia controllato, nel flusso ininterrotto di segni senza interpunzioni della stesura degli Indifferenti, i fatti che gli si snodavano sulla pagina come su un proscenio teatrale; a tu per tu con la «noia» quotidiana, col buon senso borghese, l'inautenticità, il conformismo dei rapporti, l'ipocrisia amorale della sua classe sociale assieme a quella dei suoi personaggi, ovvero il «sentimento puro del male» (Moravia) da valersi, come sottolineava Edoardo Sanguineti, anche e soprattutto come critica sul piano ideologico.22
«Il perturbante - scriveva Freud - è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare».23 E qui tutto lo «spaventoso» sale per davvero in superficie "familiarmente" in allegoria con la logica dell'utile e del profitto, come ancora osservava Sanguineti nel suo puntuale catalogo dei rapporti di alienazione e coazioni a ripetere disseminati nel libro. Ma qui non è che non si voglia accogliere la classica lettura politica del romanzo, si azzarda solo che il tenebroso del romanzo non ne sia l'unico effetto; o meglio, che sia proprio allegoricamente più spendibile; la seconda modalità di lettura conduce di fatto ai medesimi esiti, ma per altre vie ad un «perpetuo tragico scompenso tra l'immaginazione e la realtà».24
Esemplare, a proposito, il ruolo assegnato ai temibili oggetti degli Indifferenti che non soltanto sceneggiano il romanzo, ma lo recitano. Dove Moravia per davvero - come scriveva Borgese - «tenta bravure cubico-espressionistiche sceneggiando gli spigoli dei mobili o inseguendo le ombre dei personaggi sulle pareti».25
Gli oggetti (d'uso) perdono la loro funzione decorativa, «morti e inconsistenti e sparsi nell'ombra del salotto», e si animano come al servizio di una forza sovrannaturale, divengono oggetti inquietanti (di scambio); istruiscono un'accorta regia degli snodi narrativi del romanzo. I personaggi ne sono sopraffatti, ne subiscono il lugubre, l'ostilità, mentre ne assecondano l'opera: «l'ombra del salotto aumentava, ingoiava pareti e mobili [...] e curve in quest'alone moribondo, le due figure nere vegliavano la bara (ovvero il pianoforte) sulla quale i ceri palpitavano, si arrossavano, si oscuravano...», e allora «ombre gigantesche balzarono. Contro il soffitto alternate a sprazzi di luce vivida».
E così: le tende prendono vita, il corridoio quasi abbraccia chi l'attraversa; i tappeti fanno inciampare; le ombre, «oblique e vaghe», inseguono sulle pareti i personaggi mentre i ninnoli li adocchiano; «il cristallo dei calici tintinnano dolorosamente ad ogni urto», e il «vecchio specchio dissolve «il latte della carne di Carla, assieme a «tutti quegli oggetti inanimati che si erano nutriti di lei e le avevano succhiato giorno per giorno la sua vitalità con una tenacia più forte dei suoi vani tentativi di liberazione: nel legno cupo delle credenze panciute fluiva il suo miglior sangue» (e così anche l'allegoria politica (per riprendere la lettura di Sanguineti) degli oggetti-merci funziona; esplode proprio nella loro caratterizzazione di classe, di perdita del loro valore di uso, in un clima soffocante e debitamente angoscioso e alienato).
Per citare Bachelard, si compone una sorta di rêverie, ma debitamente rovesciata, una «dimensione soprannaturale degli spazi», come nel gioco terrifico che accade nel capitolo ottavo, dove, emblematicamente, il Male irrompe per tutte le camere di casa Ardengo e va ad animare le cose. La folata di vento sembra un inno di gioia del male che s'impossessa fisicamente della villa: vi entra, la violenta e la percorre:

«tutti guardavano stupiti quella violenza fatta di nulla che ruggiva, gemeva, scricchiolava e lagrimava sulla soglia vuota; e finalmente anche l'altro uscio del vestibolo si spalancò. Si formò allora una specie di vortice che dopo aver percorso il corridoio s'ingolfò nella casa; si udirono tutte le porte sbattere ora vicine ora lontane, con uno strano fracasso che non era quello sbatacchiato da una mano irata o distratta; un fracasso nel quale si mescolavano le voci del vento e quegli urti e quelle esitazioni che sembrano preparare l'ultimo e più forte colpo; le stanze vuote e alte echeggiarono; la villa tutta ne tremò come se avesse dovuto ad un certo momento staccarsi dal suolo».

Anche la pioggia sembra un oggetto che batte con le nocche, per tutto il tempo, sui vetri delle finestre (e qui si permetta un rinvio, ma il discorso potrebbe allargarsi, alla camera, alla finestra e alla pioggia nella Metamorfosi di Kafka), una pioggia «marcescente» che accompagna dall'esterno e isola non solo la casa ma l'intero racconto.26 Un'acqua viscida capace da sola di disegnare agli occhi di Michele un quadro espressionista, ad esempio, mentre va ad assassinare Leo, e dove gli appaiono deformate «le case, di sei piani» nel loro «torcersi, piegarsi flessibilmente con tutte le loro finestre».
Ora, se questo è quanto inscenano le cose, i personaggi non sono da meno. I loro corpi presentano deformità, sono appassiti, decomponibili, grotteschi. E ci chiediamo: ma sono sempre gli stessi? Oppure sono attori che recitano differenti parti del copione, a seconda del dramma da rappresentare? Sembra si siano camuffati con atroci maschere e stanno come in una pantomima quasi ferma a sipario sollevato:

«Sedettero tutti e tre nella fredda sala da pranzo, intorno alla tavola tropo grande; mangiarono senza guardarsi con gesti gelidi e deferenti di sacerdoti celebranti un rito; non parlarono; questo silenzio appena interrotto dall'urto leggero dei cucchiai nelle scodelle, che in quel bagliore del giorno, riflesso sui paramenti, bianchi, ricordava il rumore agghiacciante dei ferri chirurgici; "e poi gli stessi, in un esterno, in auto": sedettero l'uno a fianco dell'altro, nell'oscurità; non si guardarono, non si parlarono; i sobbalzi della corsa li facevano saltare e urtarsi come due fantocci senza vita, dalle membra di legno, dagli occhi spalancati ed estatici»

Chi sono, allora, costoro? Sono gli stessi che abbiamo visto agire un attimo prima nella normalità del quotidiano? O sono altri? Questi non hanno nulla di umano; sono come manichini vivi, spettri; a chi appartengono questi volti diventati quasi oggetti «duri, plastici, incomprensivi», «truccati e riflessi» e messi un po' dappertutto? «l'oscurità della casa li aveva raggiunti: non si vedevano che le facce scavate, divorate, e le mani posate sulla tavola». È come se la metamorfosi di alcuni personaggi fosse restata a metà, che qualcosa di inespresso, o quasi incompiuto, sia rimasto in loro. Dirà Moravia: «l 'idea di morte e di disfacimento era intorno a me. Era in atto una decomposizione sociale». E qui a differenza del racconto dei Cinque sogni, espunto da Moravia dal romanzo, è la realtà a farsi, a tratti, onirica, non l'inverso.

 

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III. «L'infezione» (il secondo romanzo)

Allora, giunti a questo punto - se si vuole - si può spingere l'immaginario letterario fino in fondo (e non solo), provando a far venir fuori dagli Indifferenti una possibile minima trama o congegno narrativo (come è stato ipotizzato e di cui mi assumo ogni responsabilità), e se per dovere del tutto editoriale dovremmo assegnargli un titolo/copertina, ebbene questo altro romanzo potrebbe intitolarsi L'infezione. Difatti, ad apertura di libro, in casa Ardengo, è in atto qualcosa di anomalo, una invisibile infezione sta ammalando, via via, tutti i personaggi, «quelle brutte bestie», di cui Moravia guardandole «sorrideva freddo», come notava Borgese. E se poi bisogna assegnare nuovi ruoli ai personaggi, e soprattutto all'eroe principale, certamente questi non è più Michele, ma Leo che, da creatura diabolica qual è, splendidamente impersona il Male. È una sorta di vampiro in doppio petto, insinuatosi in casa Ardengo, «figura oggettiva di destino» (dirà Sanguineti), e che si staglia subito sulla scena con la maschera di un «profilo rosso, regolare, un po' duro, come quegli oggetti inspiegabili e paurosi che i lampi delle tempeste rivelano per un istante», e ammanta tutta la scena di lugubre, mentre tutta l'oggettistica inquieta di casa sembra al suo servizio.
Il Mostro con una «grinta dura», da tempo, vaga nelle camere della villa in un'accurata regia di luci e penombre, in un tanfo di libidine, in «questo mondo deforme, falso da allegare i denti, amaramente grottesco». Se proviamo a rigirare il manichino di Leo, scopriamo, dietro la figura azzimata, gli ipocriti segni di cortesia e di buon senso della classe di appartenenza, una sorta di demonio (dostoevskiano), senz'anima, venuto qui per "succhiare il sangue" economico (da Casa Ardengo) e il piacere della libidine (da Carla) e finalmente impossessarsi dell'intera famiglia (sesso e denaro), come da programma (e qui davvero i due romanzi si confondono nelle allegorie di senso e in una comune lettura politica).
Il nostro Dracula, da tempo, si è già installato nelle camere della villa seducendo la padrona di casa (ma tra i suoi trofei c'è anche un'altra donna: Lisa), e ora non gli restano da infettare, possedere (mordere sul collo - se vogliamo) che Carla e Michele, gli unici in qualche modo che sono ancora restii a perdere la loro autenticità, a sottrarsi alle cupidigie dell'alienazione, a non divenire «manichini da esposizione». Ma, sebbene pieni di una sorta di ribellismo, essi sono già parzialmente preda del morbo (di classe) infiltratosi da tempo nelle loro carni.
Leo è il demone, è l'emblema tenebroso dell'ingordigia della roba, il portatore sano della tabe borghese, del desiderio di possesso di tutto ciò che è acquistabile, cedibile, appropriabile (la villa ipotecata), assieme alla padronanza dei corpi per mero piacere sessuale (la «bella bambina» Carla). Proprio Carla sarà la prima a lasciarsi "mordere sul collo", affascinata dalla "nuova vita" che il vampiro le fa balenare come un miraggio, pur intuendo che la futura nuova vita non sarà diversa e finirà coll'occupare il posto lasciato libero da Mariagrazia. Il Vampiro, rabbioso, non sarà gentile con la sua prima preda, sarà terribile lì nello sgabuzzino del giardiniere, quando con la faccia «piena di una maligna e senile lussuria», «curvo su Carla» come su un tavolo anatomico, «con gesti da chirurgo» tenterà di possederla con «una imperiosità irresistibile e minacciosa». Suadente, poi, la convincerà a sposarlo con la lusinga del lusso e di una tranquilla vita borghese, e lei si lascerà corrompere, preda infetta, quasi felice.
Ma per trionfare del tutto il vampiro/Leo deve soggiogare (mordere) soprattutto Michele, il più difficile da assuefare, in quanto è il solo ad essere «oscuramente cosciente» del pericolo che corre l'intera famiglia Ardengo e di aver compreso che l'origine del male morale, dell'infezione che circola per casa deriva tutta da lui. E, qui tutt'altro che personaggio indifferente, combatte l'intruso e tenta di scacciarlo fuori di casa, ma senza riuscirci, troppo evidente è la disparità delle forze con la creatura demoniaca. Si innesca una sorta di coazione a ripetere di aggressioni, del tutto fallite in anticipo sul Maligno che non si farà schiaffeggiare, né colpire col posacenere né tantomeno uccidere.
Ma lo stesso Michele è una sorta di Leo in divenire, avendo in sé tutti i primi sintomi della malattia di classe. Il vampiro lo sa, e in fondo lo affascina, lo lusinga con falsi complimenti. Michele ascolta, ad esempio, con interesse la sua greve lezione didattica per approfittare di Lisa e in uno scontro fisico è «sopraffatto dall'eleganza forte e sicura dell'uomo». Alla fine, crolla: gli bastano le promesse dell'«eccellente Leo», per disporsi ad assaporare, una volta divenuto suo amico e in suo possesso: il piacere di viaggi, la vita intensa, il denaro, le donne di lusso, le raccomandazioni per lucrosi affari.
E fin qui i due romanzi scivolano l'uno nell'altro. A seconda dello sguardo si passa, come in un gioco di specchi, dagli Indifferenti all'Infezione e viceversa, basta mutare la prospettiva, la lettura, modificare il genere, assecondare la storia possibile, senza che il sostrato di una lettura ideologica, politica, di classe, se si vuole, venga intaccata.
Ma è nella splendida scena finale dei travestimenti di Carla e Mariagrazia che il secondo romanzo si ricompone consustanzialmente col principale, diventando davvero un tutt'uno. I personaggi, Carla e Mariagrazia, ormai piene prede di Leo, finalmente si travestono in quelli che realmente sono, grotteschi e parodici commedianti, sorta di tragici clowns pronti ad una recita teatrale o ad apparire su un set cinematografico. E finalmente indossano i vestimenti giusti, quelli appunto di una patetica festa di carnevale, debitamente surreale, come appare ormai a loro, ed effettivamente è la vita. Un travestimento che ricorda quello del professore Rath, che invaghitosi della ballerina Lola Lola, si camuffa in un mostruoso gallo danzante nel film L'angelo azzurro (1930) di Josef Von Sternberg, recitando la splendida metafora di una lenta discesa nell'abiezione, piena di un'inquietante preveggenza.
Ma, qui non insisterei troppo, per concludere, nel classico finale del romanzo con le figure di Mariagrazia «vestita alla spagnuola», e Carla col costume di Pierrot. Opterei per un altro finale da prelevare nel capitolo dodicesimo, e questo sì davvero da sovrapporre ad un quadro di Dalì o al palcoscenico di un teatro espressionista, dove le due donne, Carla e Mariagrazia (le donne del vampiro), diversamente agghindate abbandonano la scena o chiudono con un cerchio di luce il finale di un film muto: «ambedue parlando, schiamazzando, agitando le braccia come due grandi uccelli spaventati, uscirono in un fracasso di porte sbattute».

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