Ilaria de Seta
KU Leuven

Prigionia vs libertà sub specie animalis in Svevo, Tozzi e Pirandello

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
Svevo - le favole
Tozzi - le prose liriche
Pirandello - le novelle
Riflessioni finali: influssi reciproci di un'immagine archetipica

 

 

Gran bella cosa un cervellino privo di paura in un organismo in fuga!

I. Svevo, Una burla riuscita

 

Ma un'allodola è rimasta chiusa dentro l'anima, e la sento svolazzare per escire.

F. Tozzi, Bestie

 

O aspetta un invito per spiccarsi di là?

L. Pirandello, Spunta un giorno

 

§ I. Svevo - le favole

 

Nei testi narrativi di tre autori oggi riconosciuti come i più grandi della loro epoca compare una stessa immagine: un uccellino indeciso tra la libertà degli spazi aperti e la sicurezza della propria cattività. Italo Svevo, triestino, è il più vecchio e ne redige varie versioni (1911-1923-1928); Federigo Tozzi, senese, il più giovane, ne crea alcune (1915-1917 ca.); infine Luigi Pirandello, girgentino, il più longevo, pubblica la sua nel 1926. Tra le elaborazioni selezionate, redatte e pubblicate tra il 1911 e il 1928, la più puntuale è senz'altro quella sveviana (nelle sue tre principali declinazioni) a cui si affiancano con variazioni Pirandello e Tozzi. Per Italo Svevo doveva essere una ossessione questa immagine di cui fornisce innumerevoli varianti nelle sue opere e in particolare nel racconto di auto-finzione, Una burla riuscita, in cui mette in scena un alter ego a lui molto prossimo, uno scrittore dalle ambizioni di gloria frustrate. La favola ne è la formulazione compiuta e perfetta. Federigo Tozzi ne presenta alcune nella sua raccolta di prose narrative, Bestie, ma diverse dalla matrice sveviana. Pirandello, infine, nelle Novelle per un anno, offre svariati casi di questa immagine e, in una novella in particolare, presenta elementi comuni agli altri due autori.
Domandiamoci cosa vogliono dire i tre autori, se le immagini hanno qualcosa in comune e come mai. Per porre queste domande, che lasceremo aperte - «Starà a chi legge effettuare e sviluppare collegamenti, tracciare parabole e costellazioni»1 - partiamo dall'elaborazione più compiuta (e anche la prima in ordine cronologico) per passare alle varianti, con principio centrifugo. Si considera qui principalmente la versione comune ai tre autori ovvero in presenza della gabbia; le varianti includono la razza dell'uccellino, una figura umana, e il cibo come fattore determinante per la sopravvivenza.

 

§ II. Tozzi - le prose liriche Torna al sommario dell'articolo

 

I. Svevo - le favole

Con l'aiuto di Eduardo Saccone2 che ha selezionato alcune favole, e un'unica nella selva di versioni di Una burla riuscita, consideriamo di Svevo innanzitutto tre versioni inserite in generi narrativi diversi: la vera e propria favola autonoma e prima, poi parte di un piccolo corpus di favole o fiabe, la favola nel romanzo La coscienza di Zeno e appunto una nel racconto Una burla riuscita. Per capire il senso che l'autore vuole veicolare bisogna considerarne il raccordo presente o assente con il testo che la include. La Favola per Letizia, il cui manoscritto recava il titolo Fiaba e la data 18/10/1911 è stata pubblicata postuma nel 1931 con le altre favole poi in ulteriori successive edizioni. La coscienza di Zeno è del 1923. Il racconto Una burla riuscita fu pubblicato su «Solaria» nel 1928,3 firmato Italo Svevo e con in calce la data «14 ottobre 1926».

(S1) «La porticina della gabbia era rimasta aperta. L'uccellino con lieve balzo fu sull'uscio e da lì guardò il vasto mondo prima con un occhio e poi con l'altro. Passò per il suo corpicino il fremito del desiderio dei vasti spazii per cui le sue ali erano fatte. Ma poi pensò: "Se esco potrebbero chiudere la gabbia ed io resterei fuori, prigioniero". La bestiola rientrò e poco dopo, con soddisfazione, vide rinchiudersi la porticina che suggellava la sua libertà».4

Questa la celebre favola scritta per la figlia Letizia, in cui l'«uccellino»/«bestiola» trovando la porticina della gabbia aperta ne esce fuori e guarda, un occhio alla volta, i vasti spazi e il vasto mondo (l'aggettivo è ripetuto due volte) per cui il suo "corpicino" è fatto (le ali hanno una funzione che in gabbia non esercitano). Giunge inaspettata la riflessione in discorso diretto: l'uccellino considera che se esce rischia di restare prigioniero fuori della gabbia. Il paradosso sta nella parola "prigioniero" attribuita all'uso dei vasti spazi rispetto alla gabbia. La brevissima e caustica favola si conclude senza lasciare margini di dubbio. L'uccellino, ora chiamato «bestiola», rientra e reagisce con soddisfazione alla chiusura della porticina. Questi i primi quesiti che la favola suscita nel lettore: cosa rappresentano la gabbia e la vita al suo interno? Che cosa avrebbe perso l'uccellino perdendo l'uso della gabbia? Il suo habitat? Che cosa rappresentano i vasti spazi del mondo? Chi incarna l'uccellino? Come mai è solo? Perché riflette e cambia idea su un istinto così primordiale? Come mai prova soddisfazione anche dopo aver commesso un evidente errore?

(S2) «La prima favola diceva di un uccelletto al quale avvenne d'accorgersi che lo sportellino della sua gabbia era rimasto aperto. Dapprima pensò di approfittarne per volar via, ma poi si ricredette temendo che se, durante la sua assenza, lo sportellino fosse stato rinchiuso egli avrebbe perduta la sua libertà. [...] Rise poi anche per compiacenza quando gli fu spiegato che l'uccellino temeva di essere privato della libertà di ritornare in gabbia».5

Questa è la versione contenuta ne La coscienza di Zeno: la favola è la stessa, un uccelletto/uccellino (con suffisso vezzeggiativo e diminutivo), accortosi che lo sportellino è aperto, pensa di approfittare (dell'occasione) ma poi cambia idea temendo (è qui da notare la scelta lessicale del verbo 'temere') che se lo sportellino fosse stato chiuso egli avrebbe perso la libertà. Che cosa si intende allora per libertà? Libertà di tornare nel proprio habitat (lo pseudonimo Italo Svevo allude a un'identità geografica bipolare e molto sentita nella sua ubiquità), o di scegliere il proprio destino anche se il peggiore? La cornice testuale aumenta il senso perché a un personaggio viene spiegato in che cosa consiste il timore, ovvero di perdere la libertà di tornare in gabbia; lo stesso personaggio reagisce ridendo ma compiaciuto. Perché è compiaciuto?

(S3) «Un uccellino accecato dall'appetito si lasciò impaniare. Fu posto in una gabbiuccia ove le sue ali non potevano neppure stendersi. Sofferse orribilmente, finché un giorno la sua gabbia non fu lasciata aperta, ed esso poté riavere la sua libertà. Ma non ne godette a lungo. Reso troppo diffidente dall'esperienza, dove vedeva cibo sospettava l'insidia, e fuggiva. Perciò in breve tempo morì di fame».6

Cambia (direi quasi radicalmente) la versione della favola in Una burla riuscita. Innanzitutto l'inizio della cattività è parte della vicenda e attribuita all'ingordigia dell'uccellino a causa della quale si fa catturare. Poi il soggiorno nella gabbia (che ha quindi un inizio) è descritto con dettagli sulla sofferenza, dovuta al fatto che le ali non possono aprirsi nella gabbiuccia; abbiamo un'indicazione delle dimensioni, le ali grandi e la gabbia piccola. Quando la gabbia viene lasciata aperta, l'uccellino ne esce, è detto senza lasciare il minimo dubbio su questa scelta, ma (c'è un enorme "ma") il piacere dura poco perché l'esperienza dell'impaniatura lo aveva reso diffidente al punto che temeva il cibo come fosse un inganno, nel quale, pur di non cadere, muore di fame. Epilogo, improvviso inaspettato e tragico a causa di un eccesso di consapevolezza che inibisce totalmente all'azione, ovvero alla vita. L'inettitudine porta alle estreme conseguenze.
Ricapitolando, nella favola per la figlia Letizia l'uccellino non esce per non restare prigioniero fuori, rientra e vede richiudersi la porticina che suggellava la sua libertà; ne La coscienza di Zeno l'uccellino teme che lo sportellino venga chiuso durante la sua assenza, teme di essere privato della libertà di tornare in gabbia; e infine in Una burla riuscita l'uccellino uscito, assaporata la libertà, muore di fame. Prima di passare a Tozzi e Pirandello, restiamo ancora su Una burla riuscita in cui l'ultima considerata è, a detta della voce narrante, la terza di tre favole su uccellini scritte dal protagonista, lo scrittore Mario Samigli.7 Esaminiamo ora anche le altre due, di cui la prima è la seguente:

(S4) «E nasceva la favola: "Un uccellino fu strozzato da uno sparviero. Non gli fu lasciato il tempo sufficiente ad una protesta molto breve, un solo altissimo grido d'indignazione. All'uccellino parve di aver fatto tutto il suo dovere, e la sua animuccia se ne vantò, e volò superba verso il sole per perdersi nell'azzurro". Quale conforto! Mario si fermò ad ammirare quell'azzurro cui l'anima degli uccellini appartiene come la nostra al paradiso».8

Essendo molto diversa dalle altre versioni fin qui considerate, è più opportuno adesso, invece che rimarcare le differenze, evidenziarne i punti di contatto con la versione principale originaria. La favola è incastonata nel testo, come produzione del protagonista Mario che osserva l'azzurro (metonimia) e paragona l'anima degli uccellini a quella umana, evocando cielo e paradiso, dunque istituendo un parallelo. L'uccellino è infatti in fin di vita e il suo è un canto del cigno, gode del volo e del cielo (lasciandoci immaginare che prima non lo ha fatto) dopo aver ricevuto il colpo di grazia da un altro volatile (un suo pari).9 La presa di coscienza della burla, di essere vittima di un "pari" ispira questa amarissima versione della favola.

(S5) «Un uccellino fu colpito da un colpo di fucile. L'ultimo suo sforzo fu dedicato a involarsi dal luogo ove era stato colpito con tanto fragore. Riuscì a ficcarsi nell'oscurità del bosco ove spirò mormorando: - Son salvo».10

Molto simile alla precedente, la seconda delle tre favole di Mario Samigli esprime un ulteriore paradosso, ma questa volta il carnefice dell'uccellino non è un suo pari ma un'arma da fuoco (sineddoche per uomo). Anche qui, dopo il colpo letale, vola via da quel luogo e si precisa che con sforzo va «a ficcarsi» (la scelta lessicale è molto interessante), non nell'azzurro ma nell'oscurità del bosco dove muore dicendo di essere salvo. Ma salvo da che cosa? Da una vita in fuga dai predatori? Dall'essere mangiato dall'uomo? (vuole andare via dal luogo in cui era stato colpito). Come vediamo, il paradosso si sposta di volta in volta verso un nuovo aspetto della libertà negata e della consapevolezza, ironicamente amara, di non saper godere dei piaceri.
Il punto di vista del protagonista è molto forte e fa da raccordo tra le favole; nell'explicit la parola passa al narratore che spiega che se non ci fossero queste incomprensioni non ci sarebbe nemmeno più la letteratura. Possiamo intendere, se non ci fosse la vita, che è fatta di frustrazioni e di difficoltà interpersonali, non ci sarebbe più la letteratura - di cui la favola è metonimia?
In tutto il lungo racconto ci sono rielaborazioni della stessa favola pensate dal protagonista che è uno scrittore; un'anafora ossessiva, da parte dell'alter ego dell'autore, scrittore inetto con altissimo autocontrollo e autoconsapevolezza. Che vorrà dire? Una prima risposta viene formulata dallo stesso Svevo: «Spesso la sua favola fu dedicata alla delusione che segue ad ogni opera umana. Pareva volesse consolarsi della propria assenza dalla vita dicendosi: Sto bene io che non faccio, perché non fallo». La prima lunga riflessione del racconto, che contiene anche una vera e propria favola composta dal personaggio Mario, messa tra virgolette, mostra che quello degli uccelli è il motivo dominante della scrittura del protagonista.11 L'interesse nasce dalla sensibilità del personaggio, dalla sua vita reale: tutto il racconto è imbastito di riferimenti alle osservazioni di Mario sugli uccelli che poi vengono puntualizzate in forma di favola, e ogni volta il narratore mette in discussione il punto di vista del personaggio, anche a confronto con il fratello, (uno complementare all'altro: uno vecchio e uno giovane, uno sano e l'altro malato)12 commentando il legame tra esperienza e rappresentazione nella favola. Autocritica sulla hubris? desiderio di successo inappagato? Frustrazione? consapevolezza dell'errore insito nell'inerzia?
Eduardo Saccone nel suo studio ha dichiarato che il sospetto del soggetto desiderante (l'uccellino) con preoccupazione della propria libertà (che si trova fuori della gabbia), è una rappresentazione del desiderio. Notiamo che "sospetto" è concetto e categoria che Saccone utilizza anche per Tozzi,13 suffragando implicitamente la bontà di questo tentativo di mettere in dialogo le immagini della libertà negata in Tozzi e in Svevo.14

 

§ III. Pirandello - le novelle Torna al sommario dell'articolo

 

II. Tozzi - le prose liriche

Nelle opere di Tozzi c'è una marcata presenza di volatili. In Bestie si trovano tre occorrenze molto diverse tra loro, ognuna delle quali ha qualcosa in comune con La favola per Letizia. Nelle prose del senese dedicate agli animali compaiono tra gli altri un canarino, una tortora e un'allodola. Il primo (non in ordine di occorrenza) presenta delle affinità con la versione (S4) della Burla riuscita. Nello studio del prete (che il protagonista, voce narrante in prima persona, detesta):

(T1) «Ma, tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c'era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell'uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l'osservavo sempre, quando il prete m'interrogava, prima di rispondere!
Un giorno glielo portai via; e piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe».15

Tozzi non vede e non lascia scampo. Si è parlato molte volte per Tozzi di (messa in scena della) "crudeltà" e questo passo mi pare esemplifichi piuttosto bene la brutalità come reazione dovuta all'ipersensibilità emotiva non spiegata ma resa attraverso i gesti - «Tozzi narra in quanto non può spiegare»16 - che il lettore di Tozzi conosce bene. La fine è senza esitazione nel dramma. L'ambientazione conferisce un senso di oppressione, il movente per un'azione scellerata, e l'esito rinforza tale aspetto. Se in Svevo ci sono paradossi che stupiscono il lettore, qui lo stupore si unisce all'effetto generato dalla crudeltà immotivata e inaspettata, una reazione violenta (contro l'innocente bestiola - in questo caso un canarino giallo) da parte dell'io narrante ultrasensibile e senza freni a una situazione non spiegata ma solo abbozzata. Se nelle ultime due versioni di Svevo (S4 e S5) l'uccellino è ucciso rispettivamente da un altro volatile e da un uomo (un anonimo cacciatore), qui è il protagonista e voce narrante che lo schiaccia con il tacco delle scarpe. Il motivo sta nel fatto che si sente osservato dall'uccellino in una situazione in cui non è a suo agio, nella stanza del prete; l'uccellino è un occhio che osserva, incarna la società che giudica, la sua presenza risveglia complessi, manie persecutorie; la sindrome della vittima che diventa carnefice e sfoga le sue frustrazioni contro la creatura più debole e innocente. Dunque l'accento è spostato sulla crudeltà dell'io che si accanisce contro l'uccellino in cattività e indifeso.

(T2) «La febbre gli aveva seccato le labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue tortore. Prima ch'io facessi in tempo a rimandarla in dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale molle di sudore. Allora perché non si mettesse a svolazzare, buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé, come credevo che avrebbe fatto.
Gli montò su la fronte, che s'increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere di bocca i chicchi di granoturco o di granella.
Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all'ultimo respiro».17

In questo caso l'uccello è una tortora che entra da fuori (non c'è quindi una gabbia) nella stanza del moribondo, amico del protagonista. Come nel caso precedente si tratta di una situazione vissuta con disagio dall'io protagonista in un interno domestico altrui. L'habitat soffocante non è una gabbia ma una stanza (nel caso precedente di un prete, in questo caso di un amico in agonia). La tortora (di cui si dice fosse del moribondo) entrata da fuori, con un gesto che il narratore suppone abitudinario, becca il grano dalla bocca, ferisce il labbro dell'agonizzante, un risvolto macabro, al quale il personaggio in visita cerca di porre rimedio, il sangue invece si ferma solo con la morte. Questo ultimo passo da Bestie ricorda molto la traduzione di Tozzi, Il lume da notte, della novella di Frichet, La veilleuse, dove però la vittima dell'uccello che ferisce con il becco e in modo assai più violento e macabro è una donna lussuriosa; come vedremo questi due testi hanno molto in comune anche con una novella di Pirandello.18

(T3) «Che punto sarebbe quello dove s'è fermato l'azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me? Una mi ha proprio rasentato gli occhi, come se avesse avuto piacere d'impaurirsi così, fuggendo. [...] Ma un'allodola è rimasta chiusa dentro l'anima, e la sento svolazzare per escire. E la sento cantare.
Verso il settentrione; dov'è di notte l'orsa, dove la luna non va mai!
Ora, se anche io t'amo così, o allodoluccia, vuol dire che tu puoi restare dentro la mia anima quanto tu voglia; e che vi troverai tanta libertà quanta non ne hai vista dentro l'azzurro. E tu, certo, non te n'andrai mai più [...]. Lasciamola, qui, questa gente che metterebbe me al manicomio e te dentro una gabbia.
Sono le tue ali che tremano oppure è il mio cuore? Credo che sia passata la morte, in cerca non si sa di chi».19

Anche se più distante semanticamente, non vorrei tralasciare l'allodola della prosa incipitaria di Bestie, prosa altamente lirica e soggettiva; le allodole volano alto ma poi scendono in picchiata verso l'io narrante; una è rimasta imprigionata nell'anima della voce narrante e svolazza cercando di uscire e canta; ricambiando il suo amore, la rassicura che può restare lì dove troverà più libertà che nell'azzurro del cielo (non si fida del mondo, della società, la vede come costrittiva); una rappresentazione più soggettiva della libertà (nominata esplicitamente), dell'indipendenza e della gioia, in cui non manca il riferimento alla gabbia, come luogo di costrizione che imporrebbe la società, freno all'immaginazione del poeta, per il quale è evocato il manicomio. Poi c'è un tremore e l'io narrante non distingue più se sia l'allodola o il suo cuore. Siamo qui di fronte a una forma di panismo mistico20 con un'ombra di morte come nel precedente. Qui la prima gabbia è l'anima del protagonista scelta dall'uccello e dove vi sta in modo ambivalente, sbattendo le ali per uscire e cantando di gioia; poi però c'è la gabbia che imporrebbe la gente, tema tozziano dominante, quello nella precedente prosa incarnato dalla società conformista - che non capisce e non considera le emozioni. Siamo lontani dalla compiutezza del genere della favola, ma anche dal topos dell'uccellino in gabbia, che torna invece come (gabbia) anima ospitante, un ambiente protettivo di gioia, amore, condivisione e reciprocità a confronto con la vera gabbia ipotizzata come legge della società che classifica e categorizza in "sano" e "malato" (il pensiero corre a Svevo). La libertà qui consiste nel provare emozioni, nell'amare senza finzioni né limiti. Tozzi registra le emozioni, senza analisi né giudizio, i suoi personaggi ne sono portatori e vittime. Vi sono affinità quasi impalpabili con Svevo ma non è possibile, basandosi sullo stato degli studi ad oggi, stabilire filiazioni o intertestualità.21 Il canarino, la tortora e l'allodola di Tozzi sono in stretto rapporto con lo spazio circostante, gabbia, stanza, anima o cielo che sia.

 

§ IV. Riflessioni finali: influssi reciproci di un'immagine archetipica Torna al sommario dell'articolo

 

III. Pirandello - le novelle

Sappiamo che Pirandello e Tozzi erano sodali, Tozzi pubblicava nella rivista diretta da Pirandello22 e, come vedremo, c'è un'assonanza tra i due in una direzione diversa da Svevo, un aspetto lugubre, mortuario, che potrebbe anche derivare da Frichet di cui Tozzi aveva tradotto una novella, Il lume da notte (La veillieuse), testo del 1902, tradotto probabilmente nel 1903, in cui l'uccello è un rapace, più precisamente un corvo. Tozzi potrebbe aver ispirato il "maestro" anche parlandogli della traduzione di Frichet, dalla quale sembrerebbe mutuare alcuni aspetti, che poi sembrano tornare anche nella novella di Pirandello. Il possibile calco di Tozzi da Frichet è stato indicato da Marco Menicacci.23
Anche nella novella di Luigi Pirandello Spunta un giorno (poi in Novelle per un anno, vol. XII, Il viaggio, 1928) compare un uccellino che esita ad uscire dalla gabbia che ha lo sportellino aperto, esce ma poi rientra. Altro elemento in comune con Tozzi è che la gabbia si trova in un ambiente umano (che ha provocato la cattività della bestiola) e domestico: una camera in affitto. La situazione appare drammatica (come in Frichet e Tozzi) ma a ben guardare - o meglio, con lo svolgersi della trama molto oscura - si capisce che non lo è. La durata della vicenda è molto breve, narra della luce dell'alba che entra in una stanza e svela quello che vi è dentro, si rivolge con il tu a uno dei personaggi (che potrebbe essere un alter ego dell'autore) ma che compare solo in effige in una fotografia, contro la quale, si capisce solo molto a fatica e poco alla volta, si è accanita la protagonista, una donna che intendeva suicidarsi (per amore) ma poi si è addormentata. Il canarino guarda, poi esce dalla gabbia; che lo sportellino sia aperto è motivo di riflessione per il narratore che ipotizza che forse la donna lo lasciava aperto la sera per farla svegliare la mattina; pare inquieto perché la donna non si sveglia «O aspetta un invito per spiccarsi di là?», richiama alla mente Tozzi. «È troppo tempo che prendiamo la ricorsa senza mai fare il salto»;24 è lo stesso desiderio di libertà di intraprendenza, di coraggio. Poi è proprio l'uccellino a svegliare la donna svelando al lettore che non è morta. Il punto di vista dell'uccellino contribuisce a creare suspense perché non capisce cosa sia successo: il canarino séguita a guardare, scotendo il capino giallo e saltando irrequieto da un regoletto all'altro. Poi torna in gabbia: «curioso quel canarino che saltella tornato nella gabbia, e quella gabbia che ne traballa», il traballare della gabbia è altro elemento comune. Infine è proprio l'uccellino a sbloccare la situazione, prendere l'iniziativa svegliando la donna: «Quasi abbia preso una risoluzione, il canarino trilla forte come per chiamare ajuto: Allora, la testa di quella donna abbandonata tra le braccia sul tavolino, si scuote».

(P1) «Il canarino accoccolato sul ballatojo. [...]
A un tratto, il canarino si desta nella gabbiola; guarda verso il cielo piegando da un lato il capino giallo; si rigira sul saltatojo con un breve squittìo. [...]
Questa camera è troppo impregnata ora dal lezzo nauseante del sego della candela bruciata fino in fondo. Tu non lo senti e te ne ridi, perché sei qua soltanto in effigie. Non lo sente più neanche lei. Forse lo sentirà il canarino.
Guarda! Lo sportello della gabbiola è aperto. Lo avrà lasciato lei così aperto iersera, legato con un nastrino a una grétola per tenere lo scatto.
Il canarino séguita a guardare, scotendo il capino giallo e saltando irrequieto da un regoletto all'altro. Non s'è ancora accorto che lo sportellino è aperto.
Se n'è accorto; ecco che vi s'affaccia; allunga e ritira il capino. Pare che faccia le riverenze. O aspetta un invito per spiccarsi di là?
L'invito non viene e, perplesso, di tratto in tratto séguita a tentare, quasi a bezzicar l'aria, con brevi acuti squittìi.
Ah ecco, è volato verso il letto.
Sul punto di posarvisi si trattiene sulle ali, come sgomento: cade sulla rimboccatura del lenzuolo intatta e composta sul guanciale; saltella, cercando, gemendo; scende sul piano del letto, molleggiando; s'accosta alla borsetta di cuojo rosso; spia due e tre volte e poi le allunga una beccatina; un altro salto ed è sull'ombrello; guarda di là a lungo, smarrito; e via di nuovo alla gabbia.
Tu, dal ritratto, séguiti a ridere.
Forse sai che ella aveva la gentile abitudine di lasciare aperto così, ogni sera, lo sportellino della gabbia, perché poi la mattina quella cara bestiolina volasse a lei sul letto, a un richiamo, e le saltasse tra le dita o le cercasse il tepore del seno o le bazzicasse le labbra o il lobo dell'orecchio? [...]
Curiosa quella mosca che vola, curioso quel canarino che saltella tornato nella gabbia, e quella gabbia che ne traballa, in questa cameretta che si rischiara sempre più accogliendo la luce d'un giorno che qua, per il corpo di questa donna rovesciato sul tavolino, non è più nulla.
Quasi abbia preso una risoluzione, il canarino trilla forte come per chiamare ajuto. Allora, la testa di quella donna abbandonata tra le braccia sul tavolino, si scuote».25

Questa novella presenta affinità con la prosa di Tozzi (T1) per i toni lugubri, il beccare il corpo umano, il riferimento al canarino e lo spiccare il volo, nonché a Svevo per il riferimento alla gabbia con sportellino aperto (S1 e S2). Ma nelle Novelle per un anno, oltre a Spunta un giorno ci sono altre occorrenze di uccellini in gabbia. In E due! c'è un cardellino in gabbia che viene mangiato da un gatto. In Dono della Vergine Maria c'è un uccellino in gabbia che poco alla volta esce e poi abbandona la gabbia e la casa. I personaggi umani non capiscono mai perché gli uccellini preferiscano la gabbia alla libertà. In Volare una passerina in una gabbietta sul davanzale di una finestra è morta perché non è voluta uscire dalla gabbia - è stata mangiata dalle formiche per non cedere alle lusinghe di un uccello. In Il gatto, un cardellino e le stelle, c'è un cardellino che vive con due vecchi nonni che hanno perso la nipotina già orfana e si occupano del cardellino come si occuperebbero di lei (che pure ha conosciuto il cardellino) finché il gatto della casa di fronte non uccide il cardellino e rompe tutti gli equilibri. Il tema di questa novella è lo stesso presentato in E due!; come in Svevo, una iniziale favola fa da matrice per una versione più distesa. Infine in Paura d'esser felice non c'è un uccellino ma una tartaruga che cerca di salire pochi gradini ma ruzzola sempre indietro e se l'uomo cerca di aiutarla ritrae il capo perché non vuole. Il titolo è chiave di lettura per questa novella e tutte le altre considerate.

 

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IV. Riflessioni finali: influssi reciproci di un'immagine archetipica

Ricapitolando, La Favola per Letizia di Svevo, scritta nel 1911, come da annotazione manoscritta, dunque quando l'autore aveva 50 anni, è la prima di questo corpus; si tratta di un testo autonomo, ovvero slegato da altri e privo di contesto (se non poi la raccolta successiva di favole, un genere in cui il bestiario è protagonista). Seguono, in ordine cronologico, le prose di Tozzi, composte all'incirca a 35 anni, tra il 1915 e il 1917, data della pubblicazione di Bestie in cui compare. Poi l'occorrenza sveviana interna a La coscienza di Zeno, inserita nell'ampia trama di un romanzo, dunque prima del 1923, poi con innumerevoli varianti nel racconto Una burla riuscita del 1926. L'ultima appare nella novella Spunta un giorno di Pirandello pubblicata nel 1928 (probabilmente scritta nel '27, quando aveva 60 anni).26
Sulla base della bibliografia esistente possiamo verificare se e quali opere l'uno possedesse dell'altro, mentre se e quando avessero effettivamente letto è domanda a cui resta molto difficile rispondere.
Nella biblioteca di Tozzi,27 di Pirandello ci sono: Arte e scienza (Roma, Modes, 1908), Liolà (Roma, Formiggini, 1917), Il giuoco delle parti, Ma non è una cosa seria (Milano, Treves, 1919). Mentre di Svevo non c'è nulla. Se è poco verosimile che Tozzi avesse letto i primi due romanzi di Svevo, che ebbero una diffusione locale e furono un fiasco (Svevo era sconosciuto negli anni Dieci),28 sappiamo molto bene che con Pirandello si frequentavano a Roma (in particolare attorno al «Messaggero della domenica») condividendo per un certo periodo lo stesso zeitgeist;29 e va tenuto a mente che Spunta un giorno è una novella di gestazione tardiva. Ma resta da verificare nel registro della biblioteca di Siena che cosa Tozzi avesse letto.
Nella biblioteca di Svevo, di Tozzi c'è la raccolta Giovani. Novelle (Milano, Fratelli Treves Editori, 1920), e nelle pagine delle novelle di Tozzi «lo scrittore triestino si mostra colpito dai luoghi in cui è maggiormente espresso un senso di disperazione e di angoscia e traccia brevi tratti a lapis in corrispondenza di idee che gli sono familiari».30 Nel 1927 Svevo scrive a Crémieux una lettera con sorprendenti riferimenti a Tozzi: «L'altra settimana mi capitò in mano Moscardino di Pea (ed. Treves) ch'è un libro veramente strano e mirabile. È di un toscanaccio come il Tozzi. Certe sue pagine sono di una forza e di un'evidenza che fanno invidia. Suppongo che Lei conosca ambedue: Vociani. Già tutto quel poco di buono che abbiamo passò per di là».31Di Pirandello, non sono arrivati fino a noi volumi fisici, ma in un elenco dattiloscritto stilato da Anita Pittoni e incollato nelle pagine interne di un volume di disegni appartenuto a Livia, si trovano tre titoli che sarebbero appartenuti a Ettore: L'umorismo (Lanciano, Carabba, 1908), Sei personaggi in cerca d'autore (Firenze, Bemporad, 1921), e Uno, nessuno e centomila (Firenze, Bemporad, 1926).32 Svevo aveva dunque letto, masticato e probabilmente ben metabolizzato i testi degli altri due autori e nelle numerose rielaborazioni della favola in Una burla riuscita potrebbero esserci tracce di Tozzi (anche se Bestie non è tra le letture annotate). «Non di meno risulta intrigante sia il riferimento a Quaderni di Serafino Gubbio operatore (guarda caso la storia di Serafino, un cineoperatore della casa cinematografica Kosmograph con il nomignolo di "Si gira", che giornalmente annota in un diario gli avvenimenti che riguardano quelli che lavorano nel suo ambiente e soprattutto la storia di un'attrice russa, grande seduttrice di uomini, Varia Nestoroff) di Pirandello sia l'attenzione al capolavoro sempre di Tozzi, Tre croci».33 Dunque, se in ogni caso la Favola per Letizia è il prototipo, le versioni successive potrebbero essere portatrici, più o meno consapevoli, di un certo influsso, o fascinazione, dei testi degli altri due autori (e in particolare Tozzi) letti da Svevo.
Nella biblioteca di Pirandello34 c'è Italo Svevo, La coscienza di Zeno (Bologna, Cappelli, 1923), con dedica, e i seguenti libri di Federigo Tozzi: L'amore. Novelle (Milano, Vitagliano, 1919), Con gli occhi chiusi (Milano, Treves, 1919), con dedica, Il podere (Milano, Treves, 1921), con dedica, Gli egoisti (Milano, Mondadori, 1924), Tre croci (volume privo di copertina). Pirandello, l'ultimo in ordine cronologico, aveva letto La coscienza di Zeno, e basti qui ricordare La linea Svevo-Pirandello di Renato Barilli (1972 e 2003) per non dover giustificare il confronto tra i due; Pirandello aveva (letto) molto di Tozzi - e ne abbiamo già ricordato la prossimità romana degli anni Dieci; ma non possedeva Bestie.
Mi domando se quello dell'uccellino in gabbia sia, oltre che un tema, un vero e proprio topos (Curtius) o un archetipo (Jung). Se è indiscutibile la rappresentazione del desiderio e la paura della libertà, o dell'indipendenza, si potrebbe anche pensare all'attrazione della conoscenza, collegandolo al mito della caverna nella Repubblica di Platone; (esiste anche una versione recente della favola di un autore britannico che chiaramente accoglie l'eredità di un mito antico),35 nonché alla ricerca di equilibrio tra scrittura e vita, mondo interiore e vita reale, pensiero e azione. Parlerei, con la dovuta cautela, di un arcaico leitmotiv in una sua attualizzazione italiana primonovecentesca con autoriflessione sulla condizione dello scrittore - la gabbia è un'immagine più forte della biblioteca di cui i tre autori qui considerati usano l'immagine nei loro romanzi - diviso tra la vita vera, da cui l'intellettuale con eccesso di consapevolezza e sensibilità soffrendo si ritrae, e quella tutta mentale della scrittura, che (lo) segrega e isola.36
Non potendo presupporre, né tantomeno dimostrare un dialogo fra questi tre autori sul tema preso in esame, chiudo con tre citazioni, rispettivamente di Svevo, Tozzi e Pirandello che mi sembrano possibili chiavi di lettura (e che si aggiungono a quelle poste in esergo): 1 «Sto bene io che non faccio, perché non fallo», 2 «È troppo tempo che prendiamo la rincorsa senza mai fare il salto», 3 «Paura d'esser felice».

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2020

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gennaio-maggio 2020, n. 1-2