Tommaso Meozzi
Racconti

 

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Abisso
Nenni


 

§ Nenni

Abisso

La sabbia era calda, si appiccicava ai corpi. Erano arrivati la mattina tardi, verso le dieci, dopo aver fatto colazione con calma. Giacomo aveva preso il fine settimana libero, a Federico si era illuminato il viso quando aveva saputo che avrebbe passato la domenica al mare con suo padre. Si vedevano poco, la scuola era iniziata e Federico aveva lezione anche il pomeriggio. Suo padre come sempre era molto impegnato con i viaggi di lavoro. Quella domenica libera era così, per entrambi, un grande giorno.
Stavano sdraiati, il sole abbronzava la pelle di Federico e scottava quella più bianca di suo padre. Ogni tanto si alzavano per fare qualcosa insieme: una partita a racchettoni, o un bagno. Federico piano piano aveva acquistato dimestichezza con l'acqua. Non come all'inizio, che si allontanava dalle braccia di suo padre ed iniziava ad annaspare. Aveva però ancora molta paura delle meduse. Era così splendente il giorno, fuori, e così cupo e misterioso, nell'acqua. Mentre facevano il bagno Giacomo raccontava a Federico di quando era ragazzo e usciva in mare con il pattino che aveva costruito da solo. Federico si sentiva allora piccolo piccolo, lui che passava lunghe ore a scuola a fare divisioni e moltiplicazioni, temi e riassunti, ma che non sapeva nemmeno attaccare un chiodo al muro. Immaginava le braccia forti di suo padre che guidavano i remi, la sua figura corpulenta e giovane stagliarsi sul tramonto marittimo. A volte, quando il mare era mosso e c'era perfino la bandiera rossa, suo padre si tuffava in acqua come un delfino, penetrando dentro le onde e uscendo a largo, molti metri lontano, dove ormai non si toccava più. Sulla spiaggia, Federico aveva freddo e si sentiva solo. Sperava ogni secondo che suo padre tornasse presto.
Quella domenica, Giacomo era sereno, rilassato. Quando non parlava con suo figlio, si lasciava cullare dai racconti dei suoi ultimi affari, che gli attraversavano la testa come le onde l'orizzonte. L'ultimo mese era andato bene. Avevano venduto software a ditte di tutto il mondo. Si trattava di programmi super specializzati, che permettevano di creare, con stampanti tridimensionali di ultima generazione, oggetti di ogni tipo. Da tavoli, a protesi, a componenti di automobili. Certo, il suo lavoro era diventato più noioso da quando non era più nel reparto programmazione, ma in quello gestione dei profitti. Però lavorare con il denaro in fondo gli piaceva. Qualcosa di consistente, che gli permetteva di dividere con chiarezza la vita tra vantaggi e svantaggi.
Federico aveva sete, una grande sete, ma non se la sentiva di allontanarsi e di andare al bar. Pensò che buttarsi in acqua avrebbe sortito lo stesso effetto, come se quel ventre stracolmo di liquido avesse potuto spegnere l'origine stessa della sete.
«Vai - gli disse Giacomo - io sto qui e ti guardo».
Federico si era alzato, aveva sistemato come sempre il costume, avendo paura che fosse troppo basso o troppo alto. Una volta i suoi amici lo avevano preso in giro dicendogli che sembrava un pupazzo con quell'elastico fino alle ascelle. Un'altra volta però Sonia lo aveva guardato insistentemente, e lui si era accorto che l'inguine era quasi scoperto, e che l'acqua faceva un effetto strano alla stoffa, attaccandola alla pelle...
Entrò in acqua trattenendo il respiro nel petto magro, scoprendo le costole come un uccello. Piano piano prese coraggio, via via che il fastidio spariva e diventava una cosa sola con l'acqua. Alla fine si ritrovò immerso fino al collo, con le punte dei piedi che penetravano la sabbia del fondale. Era tutto così sereno attorno... Poco distante alcuni corpi uscivano dall'acqua per metà, inseguendo nell'aria una palla di molti colori, ora gialla, ora rossa, a seconda di come ruotava. Ora tutti i colori fusi insieme. Qualcuno aveva preso sulle spalle il corpo esile di una ragazza, il profilo si alzava negli schizzi, mentre le risa arrivavano ovattate dal rumore delle onde sulla riva. Poi quel rumore sparì. Federico piegò la testa all'indietro, sentendo ovunque la presenza rassicurante del sole che gli asciugava le gocce sui capelli. Lontano intravedeva le montagne, con la cupola bianca di marmo, il loro concatenarsi in una linea gigantesca che chiudeva lo sguardo. Si sentiva come dentro un gioco per bambini, un'enorme bolla come quelle di cristallo che si vendono a Natale, dentro cui volteggia una neve finta e eterna.
Poi sentì una fitta tra lo sterno e le costole. All'inizio non ci fece caso, pensò che bastava ignorarla, e che non valeva la pena farsi prendere dalla paura. Spesso faceva così, quando improvvisamente a scuola o a casa gli mancava il respiro, mentre i suoi genitori litigavano, o mentre l'insegnante guardava sul registro per interrogare. Purtroppo la fitta continuò, e Federico allora si avvinghiò con le punte dei piedi al fondale. A un tratto si rese conto che il suo corpo si stava immobilizzando per il dolore, e che quell'immobilità era incompatibile con l'atto del tutto naturale di respirare. Ma... cosa stava succedendo? Forse la colazione? Sua madre gli diceva sempre di non fare il bagno prima delle undici. Oddio, perché aveva voluto gettarsi in acqua? Perché non era rimasto accanto a suo padre, magari leggendo la rivista di scienze che avevano comprato sulla strada, prima di arrivare alla spiaggia? C'erano sempre consigli intelligenti tra quelle pagine, e lui invece si lasciava vincere dalla pigrizia. Il dolore assunse una dimensione assoluta, cancellando gli altri pensieri. Per un secondo, Federico si sentì fuori dal piacere e dal dolore, poi la mente gli si annebbiò e lui cessò di esistere.
Suo padre intanto si era alzato dalla sedia a sdraio e ora correva verso la riva. Si era accorto che la testa di suo figlio affiorava dall'acqua, per poi sprofondare su un lato come un corpo morto. Corse, senza vedere nessuno, con un silenzio di pietra che gli aveva riempito le orecchie. Percepiva appena le silhouette dei bagnanti mentre ormai era fino al petto nell'acqua e si lanciava in avanti per nuotare. Pensava solo a quella testa, che per un attimo aveva visto sul filo dell'acqua, capendo subito che non c'era tempo, che ogni istante poteva mettere un divario incolmabile tra la vita e la morte di suo figlio. Consumò quasi tutto il fiato per l'ansia di quelle bracciate, dei metri che sembravano non finire più. Poi con un braccio circondò il corpo di Federico, che per fortuna non era ancora stato trascinato sul fondo. Il contatto con la pelle di suo figlio lo rinfrancò, quasi gli mise le lacrime agli occhi. Fu solo un attimo di gioia, poi sentì una morsa al collo, forte. Federico lo stringeva, con gli occhi pallidi e la bocca semiaperta. Gli gridò di lasciare, che ormai era in salvo. Di stare tranquillo, affidandosi senza stringere così. Non aveva mai pensato che suo figlio potesse avere tanta forza. Certo, si era accorto che fare la lotta non era più come prima, che non riusciva più a sollevarlo e che doveva stare attento a parare i colpi. Quella stretta lo colse però del tutto impreparato. In poco tempo iniziò a sprofondare. Ormai non sapeva più qual era la vita per cui lottava, se la sua o quella di suo figlio, e non sapeva più chi era il nemico, se il mare, o quella bocca semiaperta che annaspava cercando di guadagnare l'aria. Pensò un'ultima volta ai capelli castani di Federico, e ai suoi, già grigi. Poi fu sepolto da un cielo denso, azzurro, che si faceva sempre più scuro. Furono quelli gli attimi peggiori. Capire, in un punto distante di se stesso, che non avrebbe più visto la luce del sole, che quell'oscurità sarebbe stata il suo ultimo ricordo. La mancanza d'aria si fece dolorosa, d'improvviso gli squarciò il petto. Poi si trasformò in un piacevole sopore, fino a svanire.
Quando riaprì gli occhi, vide sotto di sé la marina e, attorno, la catena delle montagne. Era in un luogo nuovo, che poteva dirsi il cielo, ma che cielo non era. Giacomo sentiva nei capelli, sopra le orecchie le correnti d'aria che frusciavano, ora fresche, ora tiepide. Con stupore si accorse che sentiva anche il riso dei bambini sulla spiaggia, e il frangersi delle onde. Ma dov'era finito? Capė che gli bastava concentrare lo sguardo su qualcosa per essere subito, delicatamente, la cosa stessa. Anche il tempo non scorreva in modo normale, come il fiume degli eventi verso la morte. Tutto si stendeva dentro di lui, tanto che ora poteva vedere il momento in cui era arrivato con Federico sulla spiaggia. Contava i singoli granelli di sabbia che si attaccavano al sudore della pelle. Ricordava di aver provato fastidio sentendo addosso quelle particelle ruvide, e la pelle scottarsi sotto il sole della tarda mattinata. Ora però era diverso: sentiva qualcosa come "fastidio", o come lo "scottare", ma senza dispiacere. Ogni cosa era evento: il fastidio non era tale rispetto a una comoda poltrona, ma un qualcosa che splendeva meraviglioso sull'abisso del niente. Tutto manifestava la grazia dell'esistere, rispetto a un niente indesiderabile.
Giovanni si vide parlare tranquillamente con suo figlio. Poi si vide sdraiato, distratto nei suoi pensieri, mentre Federico si alzava e guadagnava metri verso l'acqua. «Ecco - pensò - qui avrei dovuto trattenerlo, chiedergli qualcosa. "Come stai?". Magari sarebbe bastato. Oppure avrei potuto seguirlo, fare il bagno insieme a lui». Così continuava ad osservare, e si indispettiva per la propria distrazione. Ora, con lo sguardo finanziario a cui era abituato, sempre alle prese con bonifici, interessi, assicurazioni, considerava come si era gettato in acqua per raggiungere Federico, senza neanche prendere fiato. Calcolava mentalmente la distanza che cresceva dalla riva, e l'aria che si consumava nei polmoni. «Ecco, qui ero già spacciato», rifletté. Poi vide Federico che si arrampicava sul suo corpo, sul corpo del padre, cercando di bere aria con le labbra tumefatte. Gli sfuggì un sorriso: «Lo sapevo che eri forte», disse. Restò così, a guardare il sacrificio della propria vita, senza capire, anche adesso che il suo corpo era leggero e le correnti lo sostenevano. Sentiva sulla pelle il calore di ogni granello di sabbia, e il riso di ogni bagnante sulla riva e le voci: le voci dei bagnanti, come un'orchestra di strumenti inauditi.

 



 

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Nenni

Così, un pomeriggio, l'ho presa per una spalla e gliel'ho detto: «Nenni, e se provassimo a parlargli?». Lei si è tirata giù il cappellino e ha continuato a camminare sbilenca, con quell'atteggiamento da maschiaccio. «Guarda che dico sul serio. Cos'è, te la fai sotto?».
A quel punto Nenni si è girata, ha sbuffato e poi mi ha dato contro: «Cazzo, ma è possibile che devi sempre provocarmi? Andiamo se vuoi, come no. Cosa ci troverai poi di tanto divertente in quattro barboni alcolizzati me lo spieghi un giorno, vero?».
Sapevo che non si sarebbe rifiutata. Nenni è così sensibile, soprattutto non può ammettere di aver paura. Fa tanto la bulla, ma in realtà se distendesse appena quella fronte sporgente e le sopracciglia bionde, scoppierebbe a piangere.
Parlo di Nenni al presente, anche se non so che fine abbia fatto. Non si tratta di una storia tragica, solo di un'amicizia infantile che come tante altre nel mondo è andata perduta, ma che per sempre si è impressa nella mia memoria. Dunque Nenni accettò di venire con me nel gruppetto dei barboni alcolizzati. Tutti li chiamavano così nel quartiere, a partire dai miei genitori. Con il mio passo strascicato da quattordicenne aprii la strada, certo che saremmo stati accolti come fra buoni amici, e che non ci sarebbe successo nulla. All'epoca avevo la stravagante convinzione che gli alcolizzati, i ladri, i violenti, facessero così solo perché non avevano ricevuto una buona educazione, e che sarebbe stato sufficiente rivolgersi a loro con modi gentili per riportarli all'ordine. Nenni mi seguiva, io continuavo ad avvicinarmi. Oltre tutto, sebbene lei fosse ancora incerta nei suoi orientamenti sessuali, mi piaceva, e cercavo in ogni modo di conquistarla. Facevamo spesso la lotta. Una volta mi era riuscito metterle la mano sotto la maglietta, sentendole il seno duro e appuntito come una gemma. Lei era rimasta in silenzio, arrossendo senza ribellarsi, con il seno piccolo e caldo nel palmo della mia mano. Poi aveva iniziato a ridere e si era liberata.
Ci avvicinammo dunque al gruppo di barboni che, come quasi ogni pomeriggio, sedevano sul ping-pong dei giardini pubblici. C'erano il Secco, "Ce l'hai una sigaretta" e il Gerontofilo. Ognuno di loro portava nel nome le proprie caratteristiche. Non come i nomi delle altre persone nel quartiere, tipo Marco, Giulio, Maria, che erano del tutto fuorvianti. Maria, per esempio, a me faceva pensare a una ragazza magra in atteggiamento compassionevole, e invece era la fruttivendola che spesso appoggiava la sua enorme pancia sulle casse di legno della frutta. Invece lì sentivo di entrare nel regno delle presenze magiche, in cui ad ogni nome corrisponde la cosa, con chiarezza. Anche se ancora non sapevo cosa voleva dire "gerontofilo".
I tre avevano iniziato a guardarci. Avevamo infatti superato la distanza di sicurezza che separa di solito i normali abitanti dal gruppo dei barboni alcolizzati. Fu il Secco a parlare per primo: «Ehi vi siete persi?». Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere qualcosa, ma al tempo stesso ormai non si poteva più tornare indietro. Così il Secco continuò a rincarare la dose: «E che ci fate voi soli da queste parti? Andate a nanna che è meglio».
"Ce l'hai una sigaretta", che forse aveva subodorato la possibilità di spillarci qualche soldo, però si intromise: «Eh Secco, e lasciali fare, magari ci fanno solo un po' di compagnia».
A questo punto io trovai il coraggio di parlare: «Infatti. Ci stavamo annoiando».
Nenni si teneva accanto a me, un po' in disparte. Io vedevo lo spazio nero tra i denti davanti del Secco, e quella che mi era sembrata una buona avventura già prendeva lentamente tinte orride. Intanto "Ce l'hai una sigaretta" cercava di darci spago e coinvolgerci: «Eh sì, in questo quartiere non c'è proprio niente da fare. Meno male che almeno c'è il giardino, prima o poi ci cacceranno anche di qui».
«Roba da matti», intervenne il Gerontofilo che se ne stava piegato sulle ginocchia, cercando qualche cosa a terra. Poi fissò gli occhi piccoli e cattivi prima su me e poi su Nenni: «E voi chi sareste?».
A quel punto, preso nell'orgoglio detti la risposta più stupida che potevo dare: «Io sono Dario, il figlio dell'ingegnere, e lei è mia sorella».
Subito mi vergognai di essermi presentato attraverso mio padre, come se questa cosa avesse ribadito a tutti il mio essere ancora un bambino, un pupo privo di carattere. La bugia che Nenni fosse mia sorella mi gettò inoltre in uno stato di confusione e paura, come se avessi commesso un crimine che avrebbe avuto conseguenze inimmaginabili. I tre dovettero accorgersi che ero diventato rosso e guardavo fisso a terra, tanto che il Secco disse: «Ah, il figlio dell'ingegnere, gente perbene, gente perbene. Dì un po', ma tuo padre lo sa che esistono altri vestiti a parte la giacca e la borsetta nera?».
Nenni intanto scalciava nella polvere alle mie spalle non vedendo l'ora di andarsene. Ora che il Secco rideva, potevo vedere non solo che i denti mancavano, ma che anche le gengive erano nere, come se il marcio gli fosse sceso sui denti da qualche misteriosa fontana interiore. Intanto il Gerontofilo si era alzato da terra, dove aveva stappato due bottiglie di birra: «Tieni», disse, e me ne porse una. «E danne un po' anche alla tua amichetta, o vuoi che ti lasci?».
Evidentemente nessuno aveva creduto alla storia della sorella. Mentre afferravo la bottiglia, che mi sembrò enorme e pesante, cercavo di impedire al Gerontofilo, almeno con il pensiero, di avvicinarsi a Nenni. Lui però sembrava trovare la nostra storia interessante, tanto che chiese: «Di' la verità, te l'ha già messa la mano lì?». Nenni in risposta scosse la testa, poi si tolse il cappellino per sfogare la rabbia, fissò il Gerontofilo e disse: «Ma tu perché ci devi prendere per il culo?».
Quella risposta scatenò l'ilarità degli altri due. Il Secco si sganasciava, scuotendo il petto in modo esagerato e tossendo, "Ce l'hai una sigaretta" con gli occhi pallidi sorrideva di quella scenetta, contento che il suo triste pomeriggio fosse stato intervallato da un po' di brio. Solo il Gerontofilo sembrava non gradire l'ilarità generale, tanto che si voltò verso il Secco e, ad occhi stretti, gli urlò: «Ma tu che cazzo ridi?».
Quel pomeriggio bevvi la mia prima birra da mezzo litro. Nenni, ostinata, si rifiutò perfino di poggiare le labbra sul vetro della bottiglia. Quando ce ne andammo avevo la testa pesante e mi sembrava che un'intera vasca da bagno oscillasse nelle mie viscere. Nenni ora era tornata a sorridere. Anche se non lo aveva dato a vedere, era eccitata e adesso che eravamo soli non la smetteva di camminarmi davanti e poi di fianco, dicendo: «Eh, ormai sei anche tu uno dei barboni alcolizzati».
Non appena mi accorsi che accanto alla strada polverosa c'era uno spiazzo con un po' d'erba e delle panchine, me la tirai addosso e iniziammo a fare la lotta. Non c'era anima viva, sembrava che tutto il quartiere spazzato dall'aria fredda fosse per noi. Però non ebbi il coraggio di metterle la mano lì. Per vendicarmi contro me stesso le gridai: «Certo sei proprio un maschiaccio!».
Nenni mi guardò, con quegli occhioni azzurri, penetranti, circondati dalle sopracciglia bionde, e poi con aria di sfida disse: «Tu una passerina non l'hai neanche mai vista. Ora ti faccio vedere io che non sono un maschiaccio».
Mi prese per mano e mi portò dietro i cespugli. Lì tirò giù i pantaloni della tuta, poi le mutandine che avevano un elastico infantile, rosa, si accucciò e iniziò a fare pipì. Per farmi meglio vedere si alzò un po' sulle ginocchia. Ricordo quel getto sottile, bianco che mi parve acqua, ma che uscendo dal corpo rosa e caldo di Nenni mi sembrò un miracolo, la cosa più misteriosa al mondo. Poi Nenni si scrollò un po', tirò su tutto e senza fiatare si avviò verso la strada. Io ringraziai il cielo che non mi aveva guardato, perché sapevo di essere completamente rosso, e sentivo il mio coso che era diventato duro nelle mutande. Mi chiesi se Nenni non fosse veramente lesbica, visto che dopo avermi provocato se n'era andata così senza neanche un'allusione.
Il giorno dopo tornammo dai nostri amici barboni. Nenni non voleva, diceva che quelli non erano normali, sempre lì seduti sul ping-pong a bere birra. Io però pensavo che non erano neanche normali i miei genitori, che avevano comprato dieci sedie da un antiquario sulle quali non ci si poteva sedere. Mi sembrava cosė assurdo... mia madre le lucidava, mio padre tornava da lavoro. Allora si abbracciavano nell'ingresso e restavano a contemplare le sedie per alcuni minuti. Molto meglio sedersi su un ping-pong, insomma vivere la vita senza farsi problemi inutili. E poi c'era qualcosa di misterioso nel modo in cui passavano le ore, tutti insieme... cosa si raccontavano? Sembravano una vera e propria famiglia, ogni informazione che si scambiavano assumeva ai miei occhi grande importanza. Una volta avevo sentito il Secco dire: «Stamani c'era la brina sull'erba, il tempo cambia». Gli altri avevano annuito seriamente, come se quella notizia avesse delle implicazioni a me sconosciute. A casa avevo chiesto a mio padre, che divertito aveva risposto: «Forse hanno paura di dover passare la notte fuori. E tu come hai sentito una cosa simile?». Quella volta risposi vagamente che per tornare da scuola dovevo sempre passare dal giardino, e che quei tipi spesso urlavano come matti. La parola "matti" era bastata a convincere mio padre. Io invece iniziai a pensare al freddo che penetrava nelle fibre già deboli del Secco, bagnandolo tutto come la brina i fili dell'erba...
Insomma, il giorno dopo con Nenni tornammo dai barboni.
Questa volta però l'atmosfera era diversa. Quando ci videro arrivare non si voltarono nemmeno. Era strano, se ne stavano con le palpebre pesanti seduti chi per terra chi sul ping-pong e non parlavano. Sembrava che non ci riconoscessero. Presi coraggio e dissi: «Ragazzi che c'è? Siete un po' mosci oggi?».
Il Secco girò lo sguardo verso di me, e non disse niente. Solo allora mi accorsi che due ombre nere gli cerchiavano gli occhi, mentre la pupilla si era fatta piccola, di un azzurro grigio nella cornea lattiginosa. Nenni intanto aveva tirato fuori dalla mensola sotto il tavolo una racchetta di legno sbocconcellata, sottile, e faceva rimbalzare la pallina danzando sul posto. Iniziai a sentirmi a disagio, isolato da tutto. Così presi l'altra racchetta e dissi a "Ce l'hai una sigaretta": «Forza, facciamo una partita! Se perdo ti compro un pacchetto. Uno intero».
L'altro si mosse appena, oppresso da qualcosa che sembrava gravare nell'aria e che non potevo vedere. Poi iniziò a spingere il Secco, che cadde giù dal tavolo come un cadavere. Lo sentii borbottare qualcosa con la bocca impastata di saliva, mentre muoveva le gambe nella polvere. Iniziavo ad avere paura, ma non ci feci molto caso. Il tavolo, infatti, in un modo o nell'altro si era liberato. "Ce l'hai una sigaretta" era già in posizione, curvo, con la racchetta all'altezza delle tempie. Presi da Nenni l'altra racchetta e la pallina, respirai profondamente e feci una battuta in diagonale. La pallina risuonò legnosa e poi si infranse contro la rete di ferro che divideva il campo, fatta mettere da chissà quale consigliere comunale. Le reti morbide finivano infatti tutte sopra i rami degli alberi, o venivano distrutte dopo un paio di giorni. "Ce l'hai una sigaretta" bofonchiò qualcosa, io ripresi la pallina e tirai di nuovo.
Giocammo per cinque minuti. Ogni volta il mio avversario mancava la pallina, oppure la colpiva così forte che ero costretto a rincorrerla ai quattro angoli del giardino. A tratti guardavo Nenni, cercando di capire se apprezzava il mio coraggio per la sfida, o se sogghignava trovando l'intera scena "surreale", come diceva sempre lei. Non riuscivo però a vedere i suoi pensieri... Se ne stava appoggiata al tronco di un albero, con il cappellino ben piazzato sulla testa, gli occhi bassi e il piede che faceva disegni sulla terra.
Poi sentimmo una voce. Una specie di sbadiglio, fatto però a un volume altissimo, che mi fece trasalire. Il Gerontofilo si era alzato da terra, dove aveva aggeggiato per tutto il tempo. Teneva nella mano quello che mi sembrò una specie di budello di plastica, penzolante. «Ora basta, ragazzi - disse -, è tempo per le cose serie. Su, su, facciamo posto».
"Ce l'hai una sigaretta" smise subito di giocare, e diventō di una serietà mortale. «E dai, facci finire la partita!», provò a ribattere con la voce flebile e roca.
Il Gerontofilo, in uno dei suoi lampi di umorismo, gli urlò contro: «Certo! Tu ogni tiro mandi la pallina in orbita o non ti accorgi neanche di averla mancata, l'altro fa ancora la scuola media e non sa contare i punti. Vi ci vorrebbe l'eternità per finire la partita».
Intanto disponeva sul tavolo tutto un repertorio di strani oggetti, tra cui il budello di plastica che avevo visto all'inizio. Dopo essersi stropicciato con violenza la faccia, il Secco aveva iniziato a succhiare con le gengive, pregustando qualcosa. Poggiai la racchetta sul tavolo, appena in tempo per vedere il Secco che tirava fuori dalla tasca una busta trasparente. Ci mise un po' a trovare la coordinazione di dita e polsi, ma alla fine riuscì ad aprirla. Ne estrasse una siringa piccola e appuntita, come quelle che avevo visto all'ospedale quando mio nonno era stato operato al cuore. Il Secco fece saltare il cappuccio di plastica. Guardò l'ago, stendendo il volto scarno in un sorriso che non so descrivere. Gli occhi erano scomparsi. Poi disse: «Allora bimbi, volete anche voi un po' di vitamine?». Mi girai verso Nenni, pieno di paura. Ma lei già non c'era più. Correva, allontanandosi nella strada grigia, con il sole che si rifletteva uniforme nell'aria gelida. Rimasi a guardare la sua figura che scompariva. Poi, senza più pensare all'onore e alla sfida, alla gentilezza o alla curiosità, corsi via.
Sentivo il cuore saltare nel petto già chiuso per il terrore. Con la voce strozzata la chiamai: «Nenni! Nenni!». Ma Nenni non c'era più, e io già immaginavo il Secco e i suoi compagni all'inseguimento, venirmi dietro con le siringhe sguainate.

 

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gennaio-maggio 2020, n. 1-2