Stefania Basilisco
|
Margherita e il senso della vita L'omega di via dei Peligni Policandro e il vento |
Margherita e il senso della vita
Margherita non aveva mai amato i tatuaggi. Diceva che se c'era una cosa di cui era sicura nella vita era che non si sarebbe mai fatta fare un tatuaggio, mai, per tutta la vita. Margherita aveva una pelle bellissima, bianca, lunare. Era la pelle più bella che si fosse mai vista, lei diceva che era la sua parte migliore.
Margherita amava la superficie delle cose, perché è profonda e ricca di una densità in cui si può restare intrappolati per sempre. Degli uomini guardava soprattutto la pelle e sapeva leggerla, la pelle, come se fosse stata la pagina di un fumetto. I tatuaggi la incantavano, si fermava per esaminarli attentamente come uno scienziato guarda i batteri dentro una provetta, anche quando spuntavano appena dal collo della camicia o dalla tuta acetata tirata su fino al collo e con la zip chiusa fino all'ultimo dente. Lei sapeva che lì c'era una storia, in quei centimetri di pelle si poteva leggere un sogno che quasi mai era diventato realtà.
Margherita lavorava in un carcere, passava lì dentro molte ore al giorno; è strano lavorare in un posto così, anche se fai di tutto per farlo sembrare normale, dentro di te lo sai che stare in un posto così non è affatto "normale". Lei non trovava il suo lavoro romantico, né eroico e neppure avventuroso. Sentiva la fatica di varcare ogni giorno, con il suo passo leggero e qualche volta incerto, la soglia di un confine nettamente tracciato, da una parte loro e dall'altra tutti gli altri e sulla linea di confine lei che non stava né di qua né di là.
Questa sensazione aveva per lei un sapore denso e le rendeva pesante lo sguardo che si sentiva addosso, che le cercava gli occhi; per non sentirne il peso, abbassava il viso e diventava seria mentre guardava verso le sue scarpe.
Il suo lavoro consisteva nel produrre qualcosa di immateriale, che come tutti i non oggetti, è difficile da definire. La sera ricordava solo una parte dei pensieri che faceva mentre era dall'altra parte. Però qualche volta quello che viveva dentro le restava addosso, attaccato alla pelle e continuava a parlarle nella testa, a volte con un finale diverso da quello che aveva avuto nella realtà.
Margherita aveva scoperto che quella gente assuefatta a vivere fuori dalle regole, che non conosceva i fondamentali e non aveva nessuna idea della bellezza, quella gente amava la magia di una storia raccontata bene e sapeva apprezzare la ricerca di un simbolo che desse significato alle azioni insignificanti, ripetitive e a volte anche un po' squallide delle loro vite da stronzi.
Dal canto loro, loro credevano che quelle storie fossero immutabili, che non si potesse tornare indietro, scrivere un altro finale, rifare la stessa parte più volte, fino a quando fosse venuta meglio. Quella gente non era disposta a rinunciare a quelle vite luride, perché credevano fermamente che gli fossero state affidate dal Signore, come un'eredità infame ma rispettabile, e se la portavano addosso come si porta una croce, il segno di un destino inesorabile, la cui trama era svelata da disegni vistosi e disordinati.
Era ottobre quando Margherita decise di iniziare il laboratorio sui tatuaggi. Ottobre è un mese di passaggio, il mese giusto per raccontare quelle storie.
Scrivere sulla pelle e volerci lasciare un segno per sempre, è una cosa tipica dei narcisisti, pensava Margherita sorridendo tra sé, è come avere uno specchio in mano che riflette perennemente l'immagine magnifica, grandiosa, immensa di sé. È un gesto primordiale che non ha più nulla di naturale.
Margherita voleva rendere quelle storie normali, voleva che diventassero vere, cancellarne l'alone mitico di gloria che era nella testa di chi si portava addosso quella rosa con il gambo troppo corto, il cuore spaccato con sopra scritto "Melaniaforever", il tribale di un lottatore senza aver mai combattuto una sola battaglia.
Se lo sarà mai chiesto quell'idiota di C. cosa ci fa quell'indiano sul suo polpaccio? No, C. non se l'è chiesto a giudicare da come cammina in sezione. Eppure c'ha quegli occhi buoni che... che non lo diresti mai che è quello che è, C.
Da quando aveva iniziato a progettare il laboratorio, Margherita vedeva tatuaggi dappertutto e mentre ascoltava le storie di quella gente guardava fisso quei disegni sulla pelle e non sapeva più chi fosse davvero a parlare, se la persona che aveva davanti o il suo disegno e quando incrociava lo sguardo di quegli occhi ignoranti e profondamente vuoti, le veniva il sospetto che l'arroganza dei gesti fosse solo apparenza, che potesse essere il segno di una saggezza involontaria e immeritata, di chi si è misurato senza coraggio con la vita e con la morte e alla fine è rimasto in piedi, inspiegabilmente in piedi. Quella gente era tornata dall'inferno e adesso pretendeva di sapere qualcosa anche sul paradiso.
La mattina in cui iniziarono, il primo a scendere fu proprio C.; quello che normalmente gira in sezione con il petto in avanti e le braccia leggermente allargate intorno ai fianchi, con i pugni chiusi e abbassati, che non ha mai, non ha mai detto una cosa decente in vita sua, che non gliene frega niente di tutto quello che ha fatto prima di finire qui, che qui c'è già stato mille volte e ci tornerebbe se avesse altre mille vite, che non ha rimorsi, non ha pensieri, non ha rimpianti e la mattina, quando lo vedi passare, c'ha proprio la faccia di uno che ha dormito bene, di un sonno tranquillo, come quello dei bambini. Forse nel sonno dimentica persino chi è.
In ogni caso, la mattina che è iniziato il laboratorio sui tatuaggi, C. era lì ed era il primo. Ha sistemato la stanza per tutti, ha spostato le sedie e le ha messe in circolo come fanno con la psicologa bionda che viene due pomeriggi a settimana. Ha messo davanti una serie di disegni che ha fatto Schizzo, che sta nella sezione dei mostri per sempre (adesso non voglio parlare dei mostri per sempre... sono una storia molto brutta, forse più brutta delle altre... per cui lasciamo stare).
Aveva portato anche una macchinetta per fare i tatuaggi C., di quelle che lì dentro si usano di contrabbando e si tengono nascoste nelle celle, sotto le brande, nelle intercapedini delle bilancette (che sono una specie di pensili che quelli di Ikea sembrano fatti di oro e di polvere di stelle al confronto) o in qualunque buco tu riesca a trovare in un posto maleodorante e affollato che è la camera di un delinquente dichiarato, quando dorme in un posto immutabile e complicato.
C. diceva che l'aveva portata tanto per fare sentire un'emozione… tanto per aiutare tutti ad entrare meglio nella parte. In fondo anche C. era un brav'uomo mancato o forse solo un uomo mancato, una categoria peggiore. Margherita non aveva voglia di scoraggiarlo, per cui restava in silenzio e si diceva tra sé che non c'era niente di male se non l'avevano trovata e requisita quella macchinetta allentata.
Dopo un po' arrivarono gli altri. C'era Gimmy il palestrato, Piero lo sbronzone, Oscar il guastafeste, Gianluca lo spillo e Mario il presidente; loro erano quelli conosciuti da tutti, quelli che decidono se un laboratorio vale la pena farlo, oppure no. Gli altri, quelli ignoti, venivano dietro, seguivano a ruota come il rimorchio del tir.
Margherita li guardava e quello che vedeva era un gruppo di gente brutta, che non aveva grazia, né ordine, né misura e soprattutto non aveva idea di chi fosse, di dove fosse e del perché ci fosse finito.
A guardarli tutti insieme non avresti detto né che fossero dei criminali né che fossero brave persone. Sembravano piuttosto gente scappata di casa nel cuore della notte e senza un motivo preciso, avventori occasionali di un bar periferico e malfrequentato, che era diventato casa loro.
Stanza 7, 5, 4, 9, stanza 20, 17, 25, ecco la 3, la 1, la 5 bis... insomma, c'erano quasi tutti. C'era gente in piedi che restava sul bordo della porta, aperta sul corridoio della sezione. Solo in fondo si vedevano le sbarre, che chiudevano tutto, come a scrivere la parola fine.
Sottofondo si sentiva il rumore dei passi, qualcuno camminava ancora su e giù nella sezione, buttava un occhio dentro la stanza, era un modo per prendere tempo prima di decidere e fare la scelta sbagliata, come sempre.
Ma C. invece quella mattina era deciso, si sentiva potente, si sentiva grande... voleva raccontare la sua storia a tutti, in versione integrale. Voleva far vedere i suoi tatuaggi, svelare come, quando, chi e soprattutto perché, secondo lui, quelle storie erano finite lì, sulla sua pelle.
C. chiese a Margherita se era il momento di iniziare e se lei voleva registrare o filmare o tutte e due le cose insieme. Lei rispose «nessuna delle due C., prendo solo qualche appunto per oggi, li scrivo su questo quadernone verde» e mentre gli rispondeva pensava che era proprio malato dentro C., un esibizionista sconfinato e impenitente.
Margherita non stava bene quella mattina. Le veniva da vomitare, aveva la nausea e un tappo come ovatta nelle orecchie che le dava la sensazione di poter cadere, da un momento all'altro. Mi sa che stavolta svengo, qui, mi accascio sul pavimento freddo, sporco, ci passano i topi la notte lo sanno tutti. La gonna si alzerà, mi lascerà scoperta... Davanti a tutti, davanti a tutti questi stronzi, imbecilli.
Cercava di resistere alla nausea, di ammorbidire i muscoli, di lasciar andare le spalle... giù, tienile lontane dalle orecchie... Margherita sapeva come allentare la tensione e distendere i nervi tesi. Si diceva che era solo questione di secondi, si trattava di una sensazione passeggera, sarebbe finita presto. Doveva solo trovare la forza di aprire la bocca e parlare, dire qualcosa per ricordare a tutti che era lei che conduceva il gioco, e non loro, anche se poteva sembrare il contrario a guardarli tutti insieme, tutti di loro e Margherita, sola e da un'altra parte, nonostante fosse lì con loro.
Quando succedeva così, quando sentiva quel vuoto dentro lo stomaco e il ronzio assordante nelle orecchie, il corpo che diventava di legno e sembrava fermarsi nel vuoto più nero, Margherita ricordava la prima volta che era stata con loro, nella stessa stanza, quanti anni erano passati? Dieci? Dodici anni? Sembrava una vita fa, un'altra Margherita con un'altra vita. Ma la stanza invece era rimasta uguale, come allora, solo di dieci, dodici anni più vecchia. C'era un lato del muro interamente ricoperto di muffa, un odore stagnante che dava la nausea e la luce che arrivava da finestre che stavano troppo in alto o forse era tutto il resto ad essere troppo in basso, così la distanza tra il cielo e la terra sembrava infinita, incolmabile e vuota, fatta di tutte le cose più tristi.
Margherita allora non avrebbe detto che tutto questo, un giorno, sarebbe diventato il suo ognisanto giorno, la sua vita quotidiana, una parte consistente e ingombrante di essa. Allora Margherita era pura, era eccitata e curiosa di quelle vite e di quelle storie. Le registrava e quando tornava a casa le ascoltava e ri-ascoltava e non aveva la nausea, ma solo la tristezza agghiacciata che le faceva venire un sudore freddo dietro la nuca mentre dentro di sé cresceva la sensazione di non riuscire a capirle quelle storie, di non comprenderne il significato. Comprendeva le parole, ma aveva il sospetto che fossero solo ombre, quelle parole, che nascondevano qualcos'altro, forse il niente.
Raccontavano quasi tutti storie noiose, uguali le une alle altre, prive di motivazioni; le loro teste, i loro cuori sembravano dei congelatori, dove le cose si fermano per sempre e perdono consistenza e sapore a poco a poco. Chi non ha mai conosciuto questa gente forse immagina intrecci avvincenti, tormenti feroci, cicatrici profonde. Margherita aveva scoperto con il tempo che spesso era più banale di così e, qualche volta, non c'era nessun dramma dietro la storia. Ma Cristo santo, grazie! Pensava Margherita, grazie a dio di aver avuto quella sete allora, quella voglia di sapere, quella certezza di poter trovare il santo graal nelle loro storie, nella vita di chi vive a dispetto della normalità logorante e pulita delle persone perbene.
La normalità uccide, ribellati... Il murales misterioso davanti scuola di Margherita, più o meno 30 anni prima. Le parole a volte sembrano tessere di un mosaico che si intrecciano intorno al collo come un cappio... avanti, vai avanti Margherita non pensarci adesso, devo risalire in superficie... Devo cominciare, da qualche parte devo cominciare questo maledetto gruppo...
«Allora, avete mai sentito dire, c'era una volta? Qualcuno vi ha mai letto una storia che cominciava così? O forse siete stati voi a leggerne una a qualcuno che iniziava in questo modo?».
La profondità è in superficie, la profondità è in superficie. Margherita se lo ricordava bene. Se lo ripeteva tra le labbra serrate, in silenzio, nella testa che esplodeva. Ogni tanto questa voce le affiorava sulle labbra, veniva da dentro e risaliva in superficie… lei l'ascoltava immobile senza muovere un muscolo. Ci si era abituata, da quando l'aveva letta nel retro di copertina di un libro sottile e giallino, non l'aveva mai più dimenticata e le tornava in mente nei momenti più indesiderati, saltando fuori con il peso di una piuma.
«Ecco possiamo immaginare che ogni disegno sulla vostra pelle, inizi a parlare e dica così, dica: c'era una volta una rosa rossa con i petali grandi che non aveva le spine... e allora l'altro disegno inizia anche lui a raccontare la sua storia, ma con un tono diverso, forse ha una voce più cupa o più vivace o più profonda... E poi da un altro corpo si fa avanti un altro disegno, sì, va bene, facciamo da quello di Schizzo, che non si offende e praticamente non ha più pelle libera dai disegni... Quindi possiamo immaginare che da uno dei suoi fiori esotici, ecco, diciamo dal loto, venga fuori un altro inizio di storia che dice così: c'era una volta uno stagno con una pietra bianca al centro. Il fiore aveva foglie larghe e verdi che si allargavano piatte per fare spazio al fiore di loto. Ero nel giardino delle suore di clausura, in un'abbazia fatta di pietra bianca luminosa e il rosa striato del mio fiore si riempiva del bianco della pietra e le suore lo ammiravano da dietro le grate di legno pesante e scuro da cui guardavano il mondo, pensando a com'era il mondo fuori da lì. Da lì le suore immaginavano la vita che loro non vivevano...».
C'era una volta dio... C'era una volta.
L'omega di via dei Peligni
Chiara non si era mai veramente accorta di quella via, che pure era proprio dietro casa sua. Da quando l'aveva scoperta le piaceva quella strada tranquilla, con le palazzine basse allineate, ognuna con un giardino che era venuto su pezzo dopo pezzo, verde dopo verde, strappando di continuo un pugno di terra dalla strada asfaltata.
Faceva jogging quella mattina, sentiva il suo cuore andare appena un po' più veloce, il respiro solo lievemente più accelerato del normale. In uno dei giardini di quella via c'erano due sdraio, una rossa e una blu, erano di dimensioni più piccole di quelle che si trovano solitamente nei grandi magazzini. Intorno c'erano alberi e piante con le foglie lunghe, trasmettevano un senso di pace, di riposo dal traffico delle strade intorno. Un tavolino tondo era posizionato davanti alle sdraio e Chiara immaginava che quelli di casa si sedessero a bere una bibita fresca proprio lì, mentre si raccontavano la giornata guardando distrattamente al di là della recinzione. Adesso però non c'era nessuno, solo l'ombra delle piante alte lasciava immaginare il piacere che si godeva in quell'angolo esterno di casa.
Quel giorno era uscita nell'ora più calda, aveva fatto la strada del porto vecchio rammaricandosi che nessuna amministrazione in tutti quegli anni avesse costruito un percorso pedonale che partisse da lì. Il percorso per arrivare a quella via meritava il passaggio lento, per accarezzare con lo sguardo i suoi colori tenui e percepire che l'armonia silenziosa e dimessa delle cose era quasi perfetta. Dietro le case si vedeva il mare, era un mare di città, con la sabbia color miele scuro, l'azzurro innaturale rigato dal bianco asimmetrico della schiuma delle onde, procurata dall'infrangersi contro gli scogli che stavano a circa venti metri dalla riva e rendevano più dolce l'arrivo del mare sulla sabbia. Era stata bandiera blu qualche anno prima quella spiaggia; ora non lo era più ma l'acqua di quel mare a Chiara sembrava sempre la stessa. Quello per lei era il mare di casa.
Chiara pensava a queste cose con leggerezza, mentre continuava a correre sull'asfalto molle; i pensieri in quei momenti ti vengono in testa senza diventare seri e se ne vanno via così, altrettanto veloci e innocenti.
«Certo, se dipendesse da me farei un nuovo piano urbanistico, e partirei da questa strada. La gente all'inizio non lo capisce, ma poi si abitua ed è pure contenta! Che strano però come vedi le cose diverse quando corri, diventano più grandi, più importanti. Anche il suono diventa più intenso, come un respiro profondo. Anche questa via diventa più lunga e se fosse una lettera sarebbe un'omega, oooomega...».
I centimetri che calpesti ogni giorno senza intenzione, spariscono a poco a poco, diventano come la nebbia, che c'è ma non si vede.
Mentre Chiara correva su quella strada, non pensava a quella corsa di tanti anni prima, così diversa da quella di oggi, nonostante i centimetri di asfalto scuro fossero sempre gli stessi.
In quell'altro giorno d'estate, la sua andatura era stata pesante; anche allora lei faceva quella strada quasi ogni giorno per andare in quel condominio basso e lussuoso, dove l'aspettava un ragazzino magro, di statura normale, che aveva negli occhi una luce innaturale e di cui ora le sembrava di non ricordare più il nome.
Mentre continuava la sua corsa tra le case, come in un lampo, Chiara ebbe davanti agli occhi la prima volta che era andata in quella casa, dove aveva incontrato il padre del ragazzo. Chiara in quel periodo dava ripetizioni di greco agli studenti del ginnasio. Era rimasta a parlare con quel padre, come faceva ogni volta che iniziava con un nuovo studente, avevano concordato il prezzo ed i giorni delle ripetizioni. Non aveva fatto molte domande il padre, né lei aveva dato tante informazioni.
Il padre, o suo figlio, dovevano aver letto uno dei suoi annunci, Chiara li attaccava sui muri e nelle bacheche in vari punti della città. Non lo aveva chiesto al padre che sembrava un tipo di poche parole e lei si era sentita a disagio durante la conversazione con lui. Aveva aspettato di chiudere il discorso e conoscere il figlio, il suo nuovo studente.
Il ragazzo non era andato nel piccolo tinello attrezzato e pulito dove Chiara si era intrattenuta con il padre. Si percepiva però in casa una presenza impaziente. L'appartemento elegante era silenzioso e, nonostante ci fossero alcuni mobili antichi che sembravano costosi, si respirava un senso di vuoto pesante.
Il padre accompagnò Chiara nella stanza del figlio. Chiara rimase abbagliata dal sorriso del ragazzo.
Quando Chiara fece per entrare nella sua camera, il ragazzo si alzò dal letto e con uno scatto stese il braccio con la mano aperta in direzione di Chiara.
Chiara continuava a correre e piano piano la voce di quel ragazzo tornava nelle sue orecchie e sovrastava il rumore dei suoi passi sull'asfalto nero.
«Salve Chiara, io sono Piero», disse con lo stesso sorriso luminoso che ebbe durante tutti i loro incontri futuri.
Piero, ecco come si chiamava, Piero.
«Ciao Piero, piacere di conoscerti, ho parlato un po' con tuo padre e, se vuoi, possiamo iniziare subito, così mi fai vedere a che punto sei con il greco». Chiara aveva parlato con un tono calmo, più basso di quello che aveva usato poco prima con il padre del ragazzo. Le piaceva quel viso aperto di Piero, così diverso da quello del padre.
«Sì, va bene, anch'io sono pronto, possiamo iniziare», rispose il ragazzo.
Chiara si guardò rapidamente intorno. Nella stanza c'era una sola scrivania ma, ad occhio e croce, sembrava che ci sarebbero stati comodi entrambi, seduti a fianco.
Il padre, che era rimasto sulla porta a monitorare in silenzio il loro incontro, si congedò salutandoli sbrigativamente.
«Chiara io sono di là. Se hai bisogno, chiamami pure. Buon lavoro».
«Grazie signore. A più tardi».
Il figlio non rispose al padre, come se non si fosse sentito chiamare in causa e a Chiara sembrò che volutamente non guardasse nella direzione del padre.
Chiara aveva conosciuto tanti genitori in quegli anni, ognuno aveva i suoi modi di presentarle il figlio. Alcuni erano in imbarazzo a lasciarla entrare nelle loro case e nella loro vita familiare. Perché anche solo per fare lezione di greco, ti trovi inevitabilmente coinvolto in un rapporto intimo tra parti in contrasto, che sentono la stessa pressione sul cuore la mattina presto sulla strada di scuola. Quasi sempre c'è qualcuno che pensa di avere qualcosa da spiegare all'altro, e aspetta in silenzio che lui faccia il primo errore.
Ma il padre di Piero non sembrava in attesa degli errori del figlio, sembrava solo stanco, come se qualcosa lo affaticasse da anni. Chiara pensò che quell'uomo si sentisse solo in quella casa, che era scura, come diventano le case nelle quali vivono solo uomini.
Chiara chiese a Piero cosa gli piacesse del greco. Piero fu colto di sorpresa e abbassò per qualche secondo lo sguardo come se ci volesse pensare su per un attimo. Poi rispose che gli piaceva quel suono intenso che avevano le vocali, che gli piaceva la forma delle lettere di tutto il suo alfabeto e la serietà composta delle sue frasi.
Chiara pensò che Piero la stesse prendendo in giro, non si aspettava quella risposta da un ragazzino che frequentava il quinto ginnasio. In fondo ancora non sapeva nulla del greco né della vita, e le aveva dato una risposta profonda e appassionata, come se fosse stato un uomo attempato.
Chiara allora gli chiese cosa gli fosse difficile comprendere di quella lingua. E Piero quasi infastidito dalla domanda che polesemente riteneva stupida, le disse:
«Chiara, tutto mi resta difficile di questa lingua. È ovvio... è una lingua talmente diversa dalla nostra, non solo nella forma ma nel pensiero che regola ogni sua espressione, non ti pare? Ogni parola, ogni frase è diversa da come la diremmo noi, da come la penseremmo noi. E questa diversità non è solo differenza è anche distanza... è come se dovessi pensare con la testa di un uomo di un milione di anni fa. È fantastico, ma semplicemente non ce la faccio... non mi viene naturale. Quando faccio le traduzioni do sempre il significato sbagliato alle parole. Le cerco sul dizionario, ma finisce che scelgo quella opposta a quella che aveva pensato l'autore... non ce l'ho nella testa il greco… Ecco cosa mi resta difficile».
Piero aveva pronunciato quelle parole misurandole con serietà ma gli era rimasto lo stesso sorriso luminoso sul viso. Diventarono amici, nonostante la differenza di età e nonostante le lezioni di greco, c'era qualcosa di forte che scorreva tra loro e li univa nel profondo.
Le settimane si aggiungevano alle settimane, Chiara era sempre puntuale, e Piero l'aspettava; era molto facile andare d'accordo.
Il padre stava in disparte, Chiara sentiva che era diffidente, come se temesse che lei potesse rubargli qualcosa di Piero. Mentre studiavano il greco qualche volta nominava suo padre e lo faceva senza acrimonia. Però quando lo guardava, diventava diverso, negli occhi gli veniva una luce triste. Chiara non voleva sapere di più della loro storia. I fardelli degli altri sono e devono restare degli altri, si diceva.
Quell'estate avevano studiato quasi ogni giorni; Piero era molto migliorato e sembrava acquisire fiducia. Ogni tanto sceglieva ancora le parole sbagliate sul grande dizionario verde, ma la maggior parte delle volte, adesso, trovava i significati giusti e affrontava la sua struttura imponente, le sue parole oscure con coraggio e pazienza, cercando il senso in ogni frase, in ogni parola.
Era fine agosto quel pomeriggio, l'aria era calda come oggi. Chiara si sentiva sollevata mentre saliva le poche scale di marmo nel cortile interno del piccolo condominio lussuoso, perché restava sempre fresco anche nelle giornate più infuocate. Quel pomeriggio però l'aria sembrava immobile. Chiara trovò la porta aperta. Diede comunque due colpi sul legno scuro, per farsi sentire. Si aspettava di vedere il padre di Piero che come sempre le offriva una bevanda fresca prima di iniziare. Invece il padre non c'era e neanche Piero c'era. Ma la casa era piena di gente. C'erano soprattutto donne questa volta eppure l'aria era rimasta pesante. Anzi, la loro presenza rendeva la casa persino più triste, era tutto in qualche modo tremendo.
Chiara restò ferma a metà strada tra il saolne e il tinello. Guardò verso la stanza di Piero. Era aperta anche quella. Una donna le venne incontro, con la faccia rigata dalle lacrime. Chiara aspettò incerta sulle gambe divenute pesanti, le teneva leggermente divaricate, in una posizione che si sarebbe detta di incasso o di estrema difesa. Aspettò le parole che non ascoltò. Poi quando riuscì a guardare nel fondo di quegli occhi, che le stavano davanti, vide il nero feroce della morte insensata di un ragazzo, di Piero. Non volle sapere perché, non aveva importanza. Neanche voleva incontrare il padre di Piero. Adesso però gli faceva una pena profonda, lo avrebbe abbracciato se solo fosse stata capace di questo. Invece sentì solo la paura del dolore e fece un passo indietro per sentirlo un po' meno; poi ne fece un altro e un altro ancora, e poi si girò di spalle e fece tutti i passi che le servivano per allontanarsi da lì, e trovare un respiro fatto di aria leggera.
Iniziò a correre, piano piano come se stesse cercando un ritmo qualsiasi pur di procedere in avanti e, mentre il cuore nel petto le urlava le parole più dure, tra le labbra sibilava il suono fermo di quella lingua forte, tragica, con le vocali lunghe anche quando sono troppo corte... kalos kai agazos..emerà, emerà... omega.
Policandro e il vento
L'aliscafo era rimasto fermo per quasi quattro ore nel mezzo del mare a causa di un guasto al motore. Andrea, sulla parte esterna dell'aliscafo, era rimasto a guardare il mare, mentre l'aliscafo collegava le isole sul tracciato di un filo, come una rete invisibile che unisce tutte le cose.
Andrea e Irene scesero nel porto di Policandro, in un pomeriggio dorato, Lheta li aspettava con un sorriso che sapeva di vento, era rimasta anche lei sospesa, in attesa, lei isolana a terra, ferma sul molo del porto e loro, gente del continente, in mare, mossi solo dal vento.
La strada per raggiungere il villaggio rurale nel nord dell'isola era in salita, il vento ormai basso sembrava l'alito di un fratello ritrovato. Il silenzio aveva il peso delle pietre del villaggio, che gli abitanti più vecchi avevano usato per tracciare i perimetri delle loro case e difendersi dal Meltemi. Qui tutto aveva un sapore di pace, di attesa tranquilla e della stoica, discreta certezza di chi sa che tanto nulla servirà a nulla quando verrà il momento.
Letha li portò nella casa che era stata dei suoi nonni, un piccolo rettangolo circondato dal mare, sapientemente in accordo con l'ira dei venti.
Guardando da lì verso la distesa immensa del mare, potevi distinguere Sikinos. Il contorno sfumato dell'isola, vista dalla casa dei nonni di Letha, era di una bellezza assoluta, adagiata nel mare sembrava invitare ad andare da lei, allungando il corpo nell'azzurro dell'acqua. A guardare di sera nella sua direzione, sembra di sentire il suono dei versi inventati da Omero.
Andrea aveva l'espressione soddisfatta di chi non desidera essere in nessun altro posto al di fuori di quello. «C'è un'aria con cui valga la pena riempirsi i polmoni se non questa?». Si diceva tra sé che quello era il posto perfetto per ricominciare. «Quanto tempo è che non dormo? Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho chiuso gli occhi e ho perso me stesso almeno per qualche ora?».
Andrea amava quella terra. Da ragazzo andava in surf nell'isola di Kos, c'era molta gente, l'isola era conosciuta e amata, il mare incantevole, il vento senza tregua era energico, affascinante; le spiagge esprimevano la sua vera natura. Erano passati molti anni da allora, sembrava un secolo prima. Ora Andrea voleva solo dormire, era venuto a cercare un posto dove chiudere gli occhi tornasse ad essere una cosa normale.
Andrea era un medico, quando aveva iniziato a non dormire, aveva consultato tutti i suoi colleghi. Nessuno aveva saputo risolvere il suo problema. E a nessuno lui aveva raccontato com'era cominciata la sua veglia. Quella storia la conosceva solo lui e, pur desiderando liberarsene, non era riuscito a parlarne con nessuno.
Irene era a fianco a lui, senza sapere. Lei era uguale al mare, i suoi gesti avevano la profondità dell'abisso di un fondale roccioso e l'impulso imprevisto dell'onda piena di spuma della superficie.
Andrea era solido, concreto, terreno e leale. Possedeva confini ben tracciati, le parti erano risolte al suo interno e quelle imperfette facevano di lui l'uomo amabile e maturo che era diventato negli anni.
Irene era dolce, fragile e sfumata. Aveva paura quasi di tutto, ogni cosa era per lei una minaccia. Metteva a fuuoco attraverso Andrea e solo così diventava ferma e stabile, diventava riparo.
Irene di notte gli stava vicino. Si svegliava perché sentiva che lui non dormiva.
Durante la notte Andrea pensava a quando dormiva, a quando da piccolo bagnava il cuscino nel sonno, sua madre l'indomani mattina chiamava quella macchia sul cuscino il gusto del sonno.
Irene appoggiata sui gomiti si tirava su nella notte, con il suo corpo snello e sottile. Lo guardava senza distinguere il suo viso nel sonno e nel buio della notte, ma non aveva bisogno della luce per guardare il viso dell'uomo che amava. Gli parlava con un sussurro dolce, che sembrava cantasse.
Policandro li cullava, teneva le braccia allargate per loro, come fossero due naufraghi, e il vento in quelle ore sembrava il respiro di una madre mentre accarezza il figlio quando non riesce a dormire. Andrea ricordava le notti buie di una volta, il cedimento del corpo che diventava pesante prima ancora di essere a letto e l'oblio che arrivava subito dopo e durava tutta la notte.
Le prime notti di veglia Andrea pensò alle notti seguenti, si disse che poi avrebbe dormito. Capì con il tempo che non sarebbe stato così. Gli occhi stanchi nella notte avevano davanti sempre la stessa scena, accompagnata da quella sensazione di amaro nella bocca, la veglia come un giorno prolungato e accecante continuava a calcare ogni dettaglio nella sua memoria, senza consentirgli pace né riposo.
La scena era questa: lui era di turno in ospedale, aveva il camice verde, entrava nella sala operatoria illuminata con la luce algida del neon, lanciava un'occhiata verso i ferri sterilizzati, in ordine sul vassoio. Tutto era come era di solito. Come era necessario che fosse. Era stato chiamato in sala operatoria per un'emergenza. Ma anche questo era un fatto ordinario. Andrea aveva camminato dalle corsie del reparto respirando tranquillo, organizzando i pensieri come faceva normalmente prima di un'operazione, misurava i suoi passi tranquilli e rapidi, sempre più rapidi fino alla sala operatoria.
La paziente arrivò adagiata sul lettino, anestetizzata, sembrava dormisse profondamente. Non era giovane, Andrea lo capì guardando i piedi lasciati scoperti dal lenzuolo quadrato appoggiato sulla parte centrale del corpo. La pelle era lucida e abbronzata. Sembrava la pelle di una donna che ama stendere il suo corpo sotto la luce calda del sole. Andrea continuò a guardare il corpo di quella donna, dai piedi salendo verso il viso bendato con garze macchiate di sangue. Il corpo era robusto, occupava solidamente il lettino, le mani e le braccia rotonde fuoriuscivano dal lenzuolo e proteggevano il corpo, restandogli a fianco. Guardò la mano sinistra. Un anello d'oro spesso con un brillante di media grandezza richiamò la sua attenzione.
Pensò all'improvviso a sua madre, anche lei aveva sempre portato un brillante intorno al dito destinato all'anello nuziale se fosse stata sposata. Andrea odiava quella sua abitudine, lo riteneva un gesto scomposto, come chi ribadisce una scelta legittima e personale.
Durante l'adolescenza, quando ogni cosa è un'occasione per la rivolta, Andrea protestava per quell'anello, la madre lo ascoltava in silenzio, sul viso un vago sorriso le curvava le rughe alla fine degli occhi, di un verde dolcissimo.
Andrea per qualche istante non seppe più su quale posto della terra stesse camminando, vedeva sua madre, il suo sguardo, il suo peso su quel letto. Si avvicinò a quel corpo sedato e iniziò a srotolare le garze che aveva sul viso. Non era sua madre, assomigliava a lei ma non era lei. Era una donna sconosciuta, senza nome, senza ricordi in comune. Una paziente come chiunque altra.
Era stata trasportata d'urgenza dal pronto soccorso dell'ospedale per una ferita da taglio sul corpo. Cadendo a terra per il colpo dell'arma, si era ferita anche sul volto. Il coltello l'aveva trafitta al torace, la ferita si allargava verso la parte sinistra del corpo. Il lenzuolo aveva una chiazza scura nel centro. L'equipe di andrea, in sala,stava in piedi, tesa, leggermente a distanza. Andrea con le mani sul lettino della donna, girò appena la testa verso di loro, come per dargli il segnale di inizio. Andrea conosceva a fondo gli infermieri e gli altri medici della squadra, di loro sapeva contare i secondi con cui passavani il bisturi e il tono con cui leggevano i segni sul monitor. Andrea amava lavorare con loro. Si capivano in un istante, a volte discutevano per pareri diversi, ma contavano l'uno sull'altro.
Quella notte dovevano intervenire in pochi minuti, il ritmo del respiro della donna si indeboliva, la ferita era profonda. Andrea aveva fatto altre volte un'operazione così, di difficoltà media si potrebbe considerare, la differenza in questi casi la fa la fortuna.
E quella sera la fortuna non era dalla parte della donna. In pochi minuti, Andrea si accorse che non c'era niente da fare. La partita si era chiusa prima di iniziare a giocare, seccamente.
Andrea si aspettava che ci fosse qualcuno con quella donna, che, senza respirare, aspettava tremante il responso. Ma non c'era nessuno. Cercò al pronto soccorso, chiese ai medici ed agli infermieri che l'avevano soccarsa per primi. Nessuno sapeva, tutti l'avevano vista quando era già dentro, seduta da sola, con i sensi già persi a metà. I vestiti sporchi di sangue avevano spaventato gli infermieri che l'avevasno portata subito in sala soccorso.
Nei giorni seguenti Andrea chiese se qualcuno l'avesse cercata. Nessuno. Forse era straniera, una turista, morta per caso mentre doveva solo fare le vacanze. Andrea chiamò la polizia per avere notizie. Gli risposero che la donna, sessantasettenne, era del posto, ma che nessuno ne aveva reclamato la sparizione, non ancora per lo meno. Ci vollero settimane prima che il comandante della stazione di polizia lo richiamasse per dargli qualche notizia aggiornata. Durante quelle settimane Andrea aveva vissuto come qualcuno che ha fatto qualcosa di cui vergognarsi, se fosse stato scoperto.
Il comandante al telefono gli disse che la donna non era sposata, che era stata una dirigente statale, viveva da sola in una bella casa centrale. Aveva un figlio, con cui non si vedeva da anni. Era stato lo stesso comandante ad avvisarlo di quanto fosse successo alla madre. Lui, il figlio, era arrivato da un paio di giorni in città ed aveva chiesto di vedere Andrea, il chirurgo che aveva operato la madre. Il comandante chiamava per questo, oltre che per dare notizie.
«Insomma dottore, mi ha chiesto se potevo fare qualcosa per metterlo in contatto con lei, se potevo organizzare un appuntamento. Io gli ho detto che l'avrei contattata e poi gli avrei fatto sapere qualcosa». Parlava in fretta il comandante, come chi si vuole liberare di una cosa scomoda da dire.
Andrea rimase pietrificato dalla richiesta, senti l'aria bloccarglisi nel torace e restare lì, ferma. Rispose con una voce che si era fatta metallica. Era come se fosse arrivato il verdetto e lui non volesse ascoltarlo. Niente di razionale, niente di reale. Andrea sapeva di non essere responsabile della morte della donna, sapeva che non era dipeso da un suo errore né da quello di nessun altro in ospedale, semplicemente non c'era stato nulla da fare, nessuno lì dentro avrebbe potuto far andare le cose diversamente da come erano andate. Lui era un chirurgo stimato ed apprezzato per la sua capacità professionale, aveva la mano ferma e la mente lucida anche quella sera in cui quella donna gli era morta tra le mani. Era solo arrivato secondo, chi aveva scritto il copione lo aveva messo in coda alla morte. Allora perché sentiva quello spasimo dentro?
«Comandante grazie per le informazioni, gli dia appuntamento per domani alle tre del pomeriggio, nel caffè di fronte all'ospedale. Ho il turno di mattina. Lo vedo subito, appena finisco in reparto».
Sarà meglio così, pensò tra sé. Gli dico come sono andate le cose, gli racconto quello che sappiamo. È chiaro, vorrà capire, vorrà sapere come è morta la madre senza essere malata, che per lui equivale a dire, senza una ragione.
Ritornò in sé e chiese al comandante se ci fossero notizie su chi l'avesse accoltellata e sul perché. Il Comandante gli rispose con una frase di rito, da cui Andrea capì che non c'era nessuna informazione su questo.
«Ma l'ipotesi più probabile a mio avviso dottore, se la vuole sapere, è che la donna sia capitata per sbaglio nel posto sbagliato. Un classico, il posto sbagliato nel momento sbagliato... chiusa la storia. Quello che mi fa strano dottore è che il figlio riferisce che non la sentiva né la vedeva, da anni. Fa paura pensare che ad un certo momento non ci sono più grazie... quello che è perso, è perso per sempre...».
Andrea chiuse il telefono con un saluto secco e ringraziò il comandante. Il giorno seguente non andò all'appuntamento.
Chiamò il comandante dopo una settimana da quella telefonata e gli disse che aveva fatto tardi, per questo non si era presentato. Il comandante conosceva Andrea da tanti anni, lo stimava molto anche lui. Il giorno dell'appuntamento, il comandante aveva risolto da solo con il figlio della donna, senza chiedere nulla ad Andrea. Il tono della sua voce durante la telefonata era calmo, quasi paterno, non aveva intenzione di far pesare la cosa ad Andrea.
Andrea non aveva raccontato quella storia a nessuno, neanche ad Irene. Sentiva che non lo avrebbe capito, lui stesso non capiva quello che sentiva. Cosa gli dispiaceva? Non era la morte di una paziente sconosciuta la causa della sua veglia e del suo inspiegabile rimorso. C'era qualcosa di quella donna che lo riportava a sua madre e c'era qualcosa di quel figlio che lo riportava a lui. Lui che non voleva essere rimproverato, neanche da sua madre, che non voleva qualcuno che dicesse l'ultima parola o che la aspettasse da lui.
Tirava il Meltemi a Policandro, l'aria calda era secca... Irene aveva gli occhi dello stesso colore dell'acqua del mare, lì, la pelle indurita dal sale era ancora più bella. Loro due insieme erano tutto il mondo che contava in quel cubo di terra lontano da tutto. Gli occhi di Andrea si facevano di giorno in giorno meno pungenti, iniziava a calare la sera.
Dalla casa dei nonni di Letha si vedeva Sikinos, il mare sembrava nero, come il colore del cielo di notte, quando è buio e puoi chiudere gli occhi e le stelle tracceranno la rotta.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2020
<http://www.boll900.it/2020-i/Basilisco.html>
gennaio-maggio 2020, n. 1-2