Rosanna Maggiore
Université de Bourgogne

«Egli si ostina a disegnare una fiaba». L'Ariosto di Italo Calvino e il suo dialogo con Roberto Battaglia

 

Scheda bibliografica Torna all'indice completo del numero Stampa il frame corrente



Sommario
I.
II.

III.

IV.

V.
VI.
VII.
VIII.
La letteratura sulla Resistenza e il suo «sapore ariostesco»
Letteratura popolare e adesione alla realtà: l'Ariosto di Battaglia e il dialogo con Calvino
«Dietro Marx c'era l'Ariosto». Calvino, Battaglia e la «Storia della Resistenza italiana»
L'Ariosto di Calvino: l'«acuta intelligenza del negativo» e «la volontà limpida e attiva che muove i cavalieri»
Dopo il '56, ancora sulle orme di Ariosto
L'Orlando furioso e l'assennato Agilulfo
«È evasione il mio amore per l'Ariosto?»
«Egli si ostina a disegnare una fiaba»

 

§ I. La letteratura sulla Resistenza e il suo «sapore ariostesco»

 

Ludovico Ariosto è stato uno degli autori prediletti di Italo Calvino. Lo testimoniano, in particolare, alcuni romanzi (Il cavaliere inesistente e Il castello dei destini incrociati), l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino e diversi interventi degli anni Sessanta e Settanta. Meno numerose e spesso implicite - ma forse non meno significative - appaiono le sue dichiarazioni di stima negli anni Quaranta e Cinquanta.
Così, se è vero che Ariosto diventa «volta per volta, lungo l'intero itinerario di Calvino, espressione e motivazione di questa e di quella poetica»,1 nelle pagine che seguono tenteremo di offrire qualche spunto di riflessione sul perché e sul modo in cui Calvino si confronta con l'autore del Furioso alla fine degli anni Quaranta e nel corso del decennio successivo. Prenderemo le mosse dalla celebre intuizione di Cesare Pavese, che identificava un «sapore ariostesco» già nel Sentiero dei nidi di ragno (1947),2 per poi vedere in quale immagine del poeta si proietti Calvino negli anni del «ritorno al De Sanctis», ossia del critico che vedeva in Ariosto l'emblema della «pura arte» e dell'ironia. 3
Dato che il primo riferimento ad Ariosto, nei testi di Calvino, appare in una lettera allo storico Roberto Battaglia, abbiamo inoltre deciso di interrogare la loro in gran parte inedita corrispondenza, nonché gli articoli critici che quest'ultimo dedica allo scrittore ferrarese all'inizio degli anni Cinquanta.4 I risultati ci paiono interessanti nella misura in cui illuminano la varia fortuna di Ariosto e il dibattito critico del secondo Novecento. Reperite all'Archivio Einaudi di Torino, le lettere selezionate coprono il decennio di cui ci occuperemo (1950-1960), saranno citate in ordine cronologico e chiameranno naturalmente in causa altre opere e altri scritti critici.5

 

§ II. Letteratura popolare e adesione alla realtà: l'Ariosto di Battaglia e il dialogo con Calvino Torna al sommario dell'articolo

 

I. La letteratura sulla Resistenza e il suo «sapore ariostesco»

La Resistenza viene spesso considerata, dagli autori che vi hanno preso parte e che cominciano a pubblicare nella seconda metà degli anni Quaranta (Calvino e Battaglia sono tra questi), come una delle esperienze per loro più vitali, l'affermazione di una piena partecipazione politica, il realizzarsi di un nuovo rapporto tra scrittore e società. Non è forse immediato capire cosa possa legare la letteratura partigiana ad Ariosto, benché sia possibile pensare a un nuovo tipo di narrazione epico-romanzesca.
In effetti, lo spazio riservato alla natura, i luoghi selvaggi attraversati dai partigiani, le armi passate di mano in mano, le varie battaglie e i sempre nuovi imprevisti sembrano aprire un varco alla fantasia, evocare posti da fiaba e da poema cavalleresco.6 Pavese, nella recensione citata poco sopra, sottolineava il «perenne sentore di aria aperta», e Calvino stesso tornerà sulla fusione tra paesaggio e persone, sul «rapporto con l'ambiente vegetale», la simbiosi «partigiano-rododendro».7 Ma certo c'è di più, visto che il Sentiero... non è solo un romanzo movimentato e avventuroso: è anche un romanzo in terza persona, privo di ritratti psicologici a tutto tondo e in cui il protagonista, parziale alter ego dell'autore (che già si proietta in più di un personaggio), è un bambino che oppone spesso la fantasia alla violenza del reale.8 La pistola rubata al tedesco viene infatti nascosta in uno dei tanti «posti magici, dove ogni volta si compie un incantesimo. E anche la pistola è magica, è come una bacchetta fatata. E anche il Cugino è un grande mago, col mitra e il berrettino di lana».9 Il mondo, invece, è tutt'altro che magico o fatato: è torbido, violento, infido, ambiguo, contraddittorio, illogico. Nel Sentiero... non ci sono né eroi né personaggi esemplari, i partigiani sono tormentati da dubbi, sono capaci di tradire i loro ideali o di rinunciare alla lotta. Il punto di vista infantile permette dunque a Calvino sia di dar spazio alla fantasia e all'espressione del desiderio, sia di ricondurre l'immaginazione alla realtà; di mimare l'adesione immediata al movimento di liberazione, ma anche di riprodurre il trauma, il sentimento di incomprensione e di impreparazione di fronte alla guerra. Consente all'autore di trattare i temi che più gli stanno a cuore (la difficoltà di diventare adulti, il confronto con l'altro, l'inquieta o sempre parziale conquista della propria identità, il contrasto tra forze razionali e irrazionali) osservando la storia da una prospettiva partecipe e straniata, interna ed esterna, dunque maggiormente critica. Calvino si propone così di evitare l'epos magniloquente, le immagini mitizzate, gli intenti e i toni celebrativi, agiografici o didascalici, nonché l'abbandono sentimentale o drammatico che spesso caratterizzano la memorialistica del periodo resistenziale. Attraverso la scelta dell'infanzia,10 sembra cioè ricercare una distanza dall'epos e dal pathos che può far pensare al poema ariostesco, il cui ricordo troverebbe conferma nel motivo delle «armi» e degli «amori». Ripreso in modo affatto personale, come mostra la trasformazione stessa del celebre binomio in «armi e donne»:11 «lontane e incomprensibili [...] allo sguardo infantile e geloso di Pin», ribadisce Calvino nella Prefazione del '64.12
Qualche nesso tra il poema ariostesco e la letteratura calviniana della Resistenza può dunque essere individuato nel carattere movimentato, avventuroso e romanzesco delle storie raccontate, negli elementi fiabeschi, nella volontà di controllare le emozioni e nel rifiuto di idealizzare la realtà. In Calvino emerge già, in qualche misura, la ricerca di una doppia distanza: quella della trasfigurazione fantastica e quella stabilita nei suoi confronti.13

 

§ III. «Dietro Marx c'era l'Ariosto». Calvino, Battaglia e la «Storia della Resistenza italiana» Torna al sommario dell'articolo

 

II. Letteratura popolare e adesione alla realtà: l'Ariosto di Battaglia e il dialogo con Calvino

Un altro nesso tra la letteratura della Resistenza e il genere del poema cavalleresco lo rivela uno scritto critico di Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza (1949), in cui leggiamo:

«Il racconto partigiano forse un giorno avrà posto in un capitolo della storia letteraria, come le cronache garibaldine del secolo scorso: ma più ancora che in quelle si può ravvisare in esso un interessante fenomeno di "letteratura di massa" quale l'Italia non ne conosceva forse (esclusa la tradizione poetica dialettale) dall'epoca dei poemi cavallereschi e della novellistica classici».14

Calvino lega le cronache della Resistenza a quelle del Risorgimento per poi rimandare, più ancora che a queste ultime, al poema cavalleresco come genere di massa. È solo un cenno, che pur testimonia dell'attenzione di Calvino, in questi anni, per la letteratura che nasce dal popolo e dal clima di un'epoca.
Proprio a questo periodo risale la prima lettera di Calvino a Battaglia, che nel gennaio del 1950 aveva dedicato ad Ariosto un lungo articolo su «Rinascita»,15 in cui insisteva molto sul carattere popolare dell'opera ariostesca, anche per superare le interpretazioni della critica idealistica miranti a «costruire un Ariosto o un Rinascimento tutto estetico», un Ariosto «poeta dell'armonia» secondo la celebre definizione di Croce.16 La critica storicista e quella sociologica reagiscono in effetti così, nel secondo dopoguerra, all'immagine di un Ariosto sereno e disimpegnato, dandone un'immagine opposta (quella di un Ariosto partecipe e in sintonia con i suoi tempi), a volte non meno riduttiva, in quanto eccessivamente orientata e dunque incapace di dar conto della complessità dell'opera ariostesca. Il rischio, naturalmente, è quello di non uscire dalla contrapposizione tra un Ariosto favolista e un Ariosto realista, un Ariosto contemplativo e un Ariosto attivo. Questo lavoro non si propone, ad ogni modo, di stabilire la minore o maggiore validità delle varie immagini che sono state date di Ariosto, bensì di studiarle in quanto riflesso di un certo modo di leggere i classici e di intendere la letteratura, in un preciso periodo storico.
Battaglia, dopo aver preso le distanze da alcune osservazioni di De Sanctis e soprattutto di Croce (considera spesso contraddittorie le prime, generiche le seconde), lega l'opera ariostesca all'ambiente storico, sociale ed economico in cui nacque. Descrive la società ferrarese, le tensioni politiche dell'epoca, il rapporto città-campagna, sottolinea la grande familiarità del popolo con la materia cavalleresca, la ricchezza di fonti classiche e romanzesche nel poema, per sostenere infine che nelle intenzioni di Ariosto c'è «un fatto nuovo e decisivo», l'idea cioè «di assorbire non più soltanto il ristretto settore della cultura umanistica di corte ma anche della cultura romanzesca nelle sue aperture e connessioni popolari», «di accogliere nella sua arte gli aspetti contrastanti della realtà», in nome di una «totalità» che «non è astrazione dal proprio tempo, ma ricerca, definizione, sintesi dei suoi molteplici aspetti».17 Nel tentativo di stabilire un «contatto con la realtà» - continua Battaglia - Ariosto prova a «narrare direttamente i fatti della sua epoca», ma capisce che «per giungere alla realtà si ha bisogno della favola, di partire di lontano per giungere il più vicino possibile».18 Non vedrebbe dunque nella favola un fine in sé - come voleva il De Sanctis della Storia... -, ma un mezzo per poter dire di più. «La necessità di ristabilire [...] il contatto con la realtà, di tener d'occhio la terra mentre si spicca il volo» è inoltre visibile, secondo Battaglia, nella descrizione dei paesaggi, della campagna, vista da Ariosto «senza pregiudizi lirici o descrittivi, senza fisime nella testa così come le si accosta un contadino nella sua vita quotidiana».19
Queste considerazioni, e in particolare quella relativa alla capacità di Ariosto di aderire al reale pur servendosi della fantasia, potevano certo attirare l'attenzione del giovane Calvino, che in quel periodo scriveva su «Rinascita». Di sicuro sappiamo che Calvino incontra Battaglia al convegno La Resistenza e la cultura italiana, svoltosi al Palazzo Ducale di Venezia dal 22 al 24 aprile 1950, e che pochi giorni dopo, il 28 aprile, gli scrive per proporgli di lavorare a «una piccola storia della Resistenza, che dia il massimo di notizie inquadrate in un nutrito panorama storico, e che sia una lettura agevole per il pubblico più vasto».20 Prima di chiudere, apre una parentesi sull'amato poeta: «[il] tuo Ariosto [...] mi ha molto interessato. Specialmente quanto riguarda i motivi della scelta dei miti cavallereschi da parte dell'Autore, la "razionalità" e la "popolarità" della sua invenzione, m'ha chiarito molte cose e ha suscitato molte idee sul rapporto "realtà-fantasia" che come puoi capire m'interessa molto».21 Si profila qui un'idea che va al di là della rappresentazione del mondo partigiano e che chiama in causa Ariosto come modello di una letteratura d'immaginazione fortemente ancorata alla realtà, una letteratura che prende le distanze dal reale e che al reale puntualmente riconduce – su cui torneremo. Procedendo con ordine, vediamo per il momento cosa risponde Battaglia l'8 maggio 1950:

«Caro Calvino,
Come puoi immaginare, il tuo invito di scrivere per Einaudi una breve storia della Resistenza m'è giunto graditissimo [...]. Ti ringrazio per il giudizio sull'Ariosto: nell'Universale economica apparirà presto un volumetto sulle sue "novelle", in cui mi sembrano ulteriormente chiarite le idee del saggio».22

Nella Prefazione alle Novelle del "Furioso" (1950), Battaglia chiarisce in effetti le sue idee sottolineando tre aspetti nel capolavoro ariostesco. In primo luogo, ritorna sulla sua nitidezza e sul suo carattere popolare: «L'Orlando Furioso è il poema italiano che può essere più facilmente letto e compreso da un lettore anche sprovvisto di particolari cognizioni [...]. La chiarezza, la semplicità, l'intellegibilità del Furioso [sono] la principale caratteristica del poema», «che per un lungo periodo fu largamente diffuso, tanto da arrivare fino alle classi popolari, da entrare nel patrimonio dei canti contadini».23 In secondo luogo, considera il carattere «progressivo» dell'opera: «il Furioso, pur trattando argomenti ben lontani dalla politica e dalla storia [...], ha avuto il dono o il privilegio di urtare in ogni epoca i nervi dei reazionari d'ogni specie e d'ogni colore».24 Svalutato a lungo per il suo carattere «immorale», considerato in seguito la «riprova definitiva delle teorie idealistiche dell'"arte astratta dalla vita", come il capolavoro della "pura armonia" non contaminata dalla politica e dalla storia», ha invece avuto - è questo il terzo aspetto sottolineato da Battaglia - grande fortuna oltralpe, «nei momenti più significativi per lo sviluppo culturale e politico».25 Battaglia si ferma poi sulle favole che, riadattate dal poeta, riflettono la sua personalità e il suo rapporto con la società.26 Evidenzia così il rifiuto dell'astrazione, dell'idealizzazione, la volontà di rappresentare l'amore nei suoi aspetti sensuali, il carattere insomma terreno della morale di Ariosto, definito poeta «progressivo» quando,

«nei punti più alti, non si vale solo della propria esperienza individuale, ma tien conto d'un'elaborazione più vasta, affonda nuovamente le sue radici nel movimento e nella fantasia popolare da cui era scaturita la civiltà del Rinascimento, s'espande verso una comune e più larga umanità. Così nello specchio della favola viene accolta continuamente la realtà quotidiana e la "moralità" del Furioso sta innanzi tutto nel "metodo" d'osservazione, che spoglia la vita d'ogni involucro medievale o trascendente, che esprime della vita stessa tutt'intero lo sviluppo e il rigoglio».27

Le considerazioni di Battaglia - fortemente orientate e in parte discutibili - danno bene la misura della reazione all'immagine vulgata di un Ariosto poeta dell'astrazione. Battaglia tende infatti al polo opposto: insiste sulla chiarezza e sulla resa realistica dell'inverosimile, ma anche sul carattere popolare, la visione terrena e l'adesione al proprio tempo del Furioso, aspetti che potevano suscitare l'interesse di Calvino. Se da un lato si ricollega a De Sanctis (frequenti sono i richiami), dall'altro lo supera riconducendo l'Ariosto a concetti indubbiamente centrali negli anni in cui scrive (realismo, cultura popolare, impegno civile).
Restando al contesto culturale, non sarà inutile ricordare che, in quello stesso 1950, anche in casa editrice Einaudi ci si occupa di Ariosto: Elio Vittorini cura e pubblica un'edizione dell'Orlando furioso in tre volumi e con ventisette tavole a colori tratte - per stabilire un legame che non fosse meramente esteriore con il poeta - da dipinti del Quattrocento e del Cinquecento, soprattutto di artisti ferraresi.28 Battaglia riceve il prezioso cofanetto e il 21 dicembre 1950 ringrazia così Giulio Einaudi:

«Sono gratissimo per il cortese invio della splendida edizione dell'Orlando furioso che onora l'editoria italiana e assicuro che ne farò una recensione sulla rivista "Società". Ma il libro è così bello che sono certo s'imporrà per suo conto all'attenzione di tutti gli intenditori e amanti dei nostri classici e in particolare del poeta che fu l'unico nella nostra storia letteraria a non aver fumi mistici per la testa».29

Anche in una breve lettera di ringraziamento, Battaglia non rinuncia a ribadire l'assenza di misticismo, e dunque l'accostamento alla realtà sensibile, nell'opera di Ariosto. Colpisce, naturalmente, la perentorietà dell'aggettivo «unico», dettato non da un'osservazione di carattere obiettivo, bensì dal bisogno di opporsi risolutamente a una certa immagine del poeta. Aggiunto anche questo tassello, ci si può chiedere, infine, se il dialogo con Calvino su Ariosto abbia un seguito.

 

§ IV. L'Ariosto di Calvino: l'«acuta intelligenza del negativo» e «la volontà limpida e attiva che muove i cavalieri» Torna al sommario dell'articolo

 

III. «Dietro Marx c'era l'Ariosto». Calvino, Battaglia e la «Storia della Resistenza italiana»

Agli inizi degli anni Cinquanta, Battaglia comincia a lavorare alla Storia della Resistenza italiana, volume che tarda a uscire. Riceve pertanto diverse lettere di sollecito da parte di Calvino e dei collaboratori dell'Einaudi. Una di queste, datata 30 ottobre 1952, è particolarmente interessante in quanto Calvino - che ha da poco pubblicato il Visconte dimezzato - propone a Battaglia di curare insieme a lui e a Franco Antonicelli un'antologia che raccolga i migliori racconti sulla Resistenza, escludendo i testi degli «scrittori-letterati» a vantaggio dei «racconti-documento».30 Battaglia accoglie favorevolmente la proposta, e tuttavia precisa di voler prima portare a termine la Storia della Resistenza italiana.31 Il progetto calviniano dell'antologia non andrà in porto; il saggio storico, invece, uscirà di lì a poco, nella primavera del 1953.32
Segue uno scambio di lettere in merito alla ricezione del saggio. Particolarmente interessante è quella indirizzata a Calvino il 17 maggio 1953, in cui Battaglia scrive:

«Per quanto io so, il successo del libro è assai vivo, specie fra i compagni più grossi e anche fra i più semplici [...]. L'unica recensione di cui ho sinora notizia è quella di Valentino Gerratana sull'Unità: assai impegnata, direi sin troppo sotto un certo aspetto: non s'è accorto, malgrado io l'avessi avvertito, che dietro Marx c'era l'Ariosto».33

Con tono certo scherzoso, Battaglia lamenta l'assenza di un riferimento letterario che era stato pur suggerito a Gerratana, di una presenza implicita (come indica l'avverbio «dietro») ma ugualmente importante. Una recensione pubblicata sul «Notiziario Einaudi» (diretto da Calvino) sottolinea in effetti non solo il valore della ricerca storica, ma anche la vivacità della prosa e l'attenzione prestata a vari aspetti della vita partigiana (spirito e costumi, canzoni, nomi di battaglia): «Questo arduo compito è stato assolto da Roberto Battaglia, uno studioso che unisce all'habitus mentale del ricercatore storico, l'esperienza e l'entusiasmo del partigiano, e un vivacissimo gusto di scrittore e saggista».34 In questa sede, non analizzeremo i saggi storici di Battaglia; ci pare tuttavia significativo il gesto di richiamare Ariosto in relazione a un lavoro di carattere scientifico: un aspetto della varia fortuna del poeta, forse da indagare.

 

§ V. Dopo il '56, ancora sulle orme di Ariosto Torna al sommario dell'articolo

 

IV. L'Ariosto di Calvino: l'«acuta intelligenza del negativo» e «la volontà limpida e attiva che muove i cavalieri»

Chiusa questa lunga parentesi sul dialogo tra Battaglia e Calvino, che ha come principale intento quello di ricostruire le tappe dell'interesse di Calvino per Ariosto, di definire un preciso contesto critico-culturale, nonché di sondare qualche nuovo aspetto della ricezione del poeta rinascimentale nel secondo Novecento, volgiamo adesso tutta la nostra attenzione allo scrittore ligure. Cominciamo col dire che, fino al 1959, non cita Ariosto tra i suoi modelli. Si tratta perciò di continuare a ripercorrere la sua riflessione attraverso le sue opere e i cenni sparsi in diversi scritti.
Nel 1955, per esempio, Calvino spiega in questi termini il suo ideale letterario:

«In un articolo di Gramsci abbiamo trovato, citata da Romain Rolland, una massima di sapore stoico e giansenista adottata come parola d'ordine rivoluzionaria: "pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà". La letteratura che vorremmo veder nascere dovrebbe esprimere nella acuta intelligenza del negativo che ci circonda la volontà limpida e attiva che muove i cavalieri negli antichi cantari o gli esploratori nelle memorie di viaggio settecentesche».35

«Intelligenza» e «volontà» sono parole che riconducono al ruolo dell'uomo nella storia, implicano un certo grado di coscienza e di intenzione, uno sforzo e una tensione.36 Dalla profonda consapevolezza del negativo dovrebbe nascere, secondo Calvino, la controspinta positiva che suggeriscono alcuni generi letterari. Anche dietro il suo Gramsci sembra insomma esserci, se non Ariosto, che qui non viene esplicitamente richiamato, per lo meno la tradizione degli antichi cantari, lo stampo delle «favole più remote», come spiega Calvino nel seguito del suo articolo.37
Quanto al motto gramsciano, come è stato mostrato,38 può essere fatto risalire (attraverso Rolland, Nietzsche e Burkhardt) alla contraddizione di Leopardi messa in luce da De Sanctis, secondo la quale il poeta dichiara senza rimedio le sventure della modernità e nondimeno esorta gli italiani suoi contemporanei a far rivivere le antiche virtù («non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare»).39 Ora, che si tratti del motto di Gramsci o delle osservazioni di De Sanctis, queste parole traducono bene il pensiero di molti intellettuali negli anni Cinquanta.
Carlo Salinari, nell'editoriale del primo numero della rivista «Il Contemporaneo» (27 aprile 1954), con cui Calvino comincia a collaborare in quello stesso anno, scrive: «la nuova arte e la nuova cultura [...] non vogliono né debbono essere stupidamente ottimistiche; anzi vogliono vedere con spregiudicata razionalità e con intensità di sentimento le difficoltà e le oscure minacce che circondano gli uomini. Esse però vogliono e debbono mantenere intatta la fiducia nelle forze che l'uomo - protagonista della storia - possiede».
Lungo gli anni Cinquanta, ossia in un periodo in cui Calvino oscilla tra il desiderio di scrivere «the-realistic-novel-reflecting-the-problems-of-Italian-society»40 e la consapevolezza che la sua vena più naturale è quella fiabesca, fa sue queste idee e le adotta per esprimere il suo scetticismo volontarista e la sua predilezione per la trasfigurazione fantastica. Afferma pertanto che il fiabesco non rappresenta per lui un modo per allontanarsi dalla letteratura della Resistenza, bensì per salvaguardarne, oltre alla consapevolezza del negativo, il particolare piglio, la carica avventurosa e l'energia. In uno scritto del 1960 sulla Trilogia, per esempio, leggiamo:

«scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz'accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a riimmettervi il movimento, la spacconeria, la crudezza, l'economia di stile, l'ottimismo spietato che erano stati della letteratura della Resistenza».41

In questo e in altri testi,42 Calvino stabilisce un chiaro legame tra letteratura della Resistenza e letteratura d'immaginazione. Utilizzando armi che appartengono alla cultura di sinistra - basti pensare al motto gramsciano -, rifiuta le prescrizioni del realismo allora vigenti riflettendo anche sui principi dell'estetica lukácsiana, al centro del dibattito in quegli anni.43 In un articolo del maggio 1958, scrive: «io credo che oggi un romanzo impiantato "come nell'Ottocento", che abbracci una vicenda di molti anni, con una vasta descrizione di società, approdi necessariamente a una visione nostalgica, conservatrice. È questo uno dei tanti motivi per cui dissento da Lukács; la sua teoria delle "prospettive" può essere capovolta contro il suo genere preferito».44 Qualche mese prima, aveva dichiarato: «Il grande scrittore realista è uno che dopo aver accumulato minuziosi particolari e costruito un quadro di perfetta verità, ci batte sopra le nocche e mostra che sotto c'è il vuoto, che tutto quel che succede non significa niente».45 E ancora, in una lettera del 20 dicembre 1958 a Cesare Cases, autore di un noto articolo dedicato al Barone rampante,46 scrive:

«Il discorso su l'essenza della realtà che può essere colta solo a distanza ma se ci si mette sopra il naso appare mostruosa e priva di senso, è molto giusto. Ma direi che non vale solo per me: ogni scrittore se vuol vedere un significato nella realtà deve in qualche modo allontanarla, schematizzarla, allegorizzarla; se vuol fare la descrizione minuziosa della vita com'è non può approdare che allo sgomento del nulla, alla vanità del tutto, da Flaubert in poi. Perciò la mia narrativa è razionale quando è fantastica, mentre quando è "realistica" finisce per essere puramente lirica».47

La letteratura d'immaginazione opporrebbe dunque un argine al negativo attraverso l'osservazione di ciò che sta «sotto» («il vuoto», «il nulla», «la vanità del tutto») dall'alto, «a distanza», ossia senza sprofondarvi. Osservazioni interessanti, anche perché Calvino non si preoccupa solo di liberare l'arte engagée da qualsiasi norma prescrittiva di ordine stilistico o tematico: provocatoriamente, e partendo da una personale concezione dell'esistenza, attribuisce alla letteratura che definisce "fantastica"48 una funzione progressista che la letteratura "realistica" non avrebbe.
Certo, l'insistenza con la quale Calvino ribadisce queste idee invita a una certa prudenza, in quanto sembra rispondere anche al bisogno di difendersi dalle accuse di disimpegno e di evasione, all'esigenza di giustificare, anche da un punto di vista ideologico, la sua predilezione per la letteratura d'immaginazione. È quantomeno chiaro che la distanza dalla realtà non implica, in Calvino, nessuna serenità o armonia. Nei suoi testi (si pensi alla Trilogia) la trasfigurazione fantastica e la deformazione ironica rivelano tanto la profonda inquietudine e il profondo scetticismo dell'autore quanto la volontà di non esserne travolto. La visione dall'alto esprimerebbe il controllo della ragione, ma anche la consapevolezza di una realtà estremamente complessa e angosciante, lo sforzo della conoscenza e il senso acuto dei suoi limiti.
Ariosto sembra dunque suggerire a Calvino la ricerca di un punto di fuga dall'angustia del reale che ne interroghi al contempo le ragioni, che al reale puntualmente riconduca. Come vedremo meglio, la distanza che la trasfigurazione fantastica implica è infatti puntualmente contraddetta dal suo trattamento ironico, da un’ironia che consente il passaggio dall’ideale al reale, senza tuttavia rinunciare completamente al primo.
A testimoniare in modo più o meno esplicito la presenza di Ariosto in questi anni sono il titolo di una delle rubriche calviniane sul «Contemporaneo» di Salinari, Le armi e gli amori (1955); i racconti comico-fiabeschi di Marcovaldo (scritti a partire dal 1952) i cui personaggi hanno «nomi altisonanti, medievali, quasi da eroi di poema cavalleresco», a differenza dei bambini, «che appaiono come sono, e non come figure caricaturali»;49 Il visconte dimezzato (1952), in cui troviamo la figura del cavaliere e un narratore che è «una specie di Carlino di Fratta, perché non c'è sistema meglio collaudato in questi casi che veder tutto attraverso occhi fanciulleschi»,50 ma anche il Barone rampante (1957) per varie scene che richiamano il poema ariostesco (basti pensare alla pazzia di Cosimo per Viola) e per alcune strategie di cui ci occuperemo in seguito. Alla dimensione avventurosa e al punto di vista infantile del Sentiero... si aggiungono la trasfigurazione fantastica e un'ironia che, come vedremo, vira spesso al comico o all'eroicomico.

 

§ VI. L'Orlando furioso e l'assennato Agilulfo Torna al sommario dell'articolo

 

V. Dopo il '56, ancora sulle orme di Ariosto

Prima di riflettere su questi aspetti, apriamo però un'altra parentesi sul contesto culturale einaudiano, sulla varia fortuna di Ariosto nel periodo qui considerato. Un nuovo e non meno discusso saggio storico, La prima guerra d'Africa,51 è infatti l'occasione per un nuovo carteggio tra Calvino e Battaglia nei mesi estivi del 1958. Le lettere più interessanti sono quelle relative alla presentazione del volume, anche perché questa volta a recensirlo sul «Notiziario Einaudi», con un lungo articolo, è proprio Calvino. Il quale, a differenza di Gerratana, non dimenticherà di mettere in luce il modello ariostesco. Battaglia, che legge una bozza della recensione prima della sua pubblicazione, non si dice tuttavia completamente soddisfatto. In una lettera a Calvino del 29 settembre 1958, oltre a ringraziarlo, attira la sua attenzione su due punti, uno riguardante Ariosto, l'altro la lotta popolare come motore della storia:

«Hai colto benissimo le mie intenzioni [...]. Due sole osservazioni di merito:
1) è giusta l'allusione alla mia chiave "ariostesca", ma forse, era necessario ritornarci su per renderla evidente (ad esempio a proposito della "regina di Ghera", novella Alcina o di qualche battaglia o cerimonia alla corte del "buon imperatore").
2) fra i motori della storia a cui tengo c'è quello della lotta popolare contro la guerra che esplode nel grido di "viva Menelik!" Mi sembra che non dovrebbe essere difficile dedicare anche a ciò un brevissimo cenno [...]"»52

Calvino sembra tener conto di questi suggerimenti. Nella sua recensione mette l'accento su termini quali «epopea», «fantasia popolare» e «avventura» (La prima guerra d'Africa è «un libro di storia così attraente, avventuroso, narrativo»53), per affermare poco dopo: «Bisogna che vi dica prima di tutto qual è la chiave vera di questa rara avis di storico popolare che è Roberto Battaglia: il suo amore per l'Ariosto. Già nella Storia della Resistenza affiorava qua e là, ma ora nella Prima guerra d'Africa ha campo per esprimersi appieno».54 Il nome di Ariosto torna anche in seguito, a proposito dello «slancio epico e cavalleresco» presente nelle cronache ufficiali etiopiche, «ricche di vivissime notazioni naturali» in cui «il mondo della natura non [è] separato dal mondo della storia», o a proposito delle «descrizioni delle feste, dei banchetti, degne di Carlo Magno e dei suoi paladini».55 Calvino è insomma consapevole del ruolo che il modello ariostesco gioca nei testi di Battaglia, non esita perciò a mostrargli il suo interesse. Il 14 ottobre 1959, per esempio, scrive all'amico da poco ricoverato per un infarto:

«la notizia della tua degenza mi ha molto rattristato. Spero di vederti al più presto di nuovo in gamba, a percorrere deserti e oasi con la tua ariostesca penna di storico! [...]
Mi farai avere tue notizie oltreoceano. Parto alla fine del mese per New York. [...] (Il visto non sono riuscito ancora ad averlo, però: ma dopo K. mi assicurano che tutto sia più semplice).
Intanto ho finito Il cavaliere inesistente, l'ultimo e definitivo (credo; ormai mi sono stancato) dei miei romanzi fantastici; di ambiente carolingio stavolta, esplicito omaggio a Messer Ludovico».56

Battaglia risponde una settimana più tardi, il 21 ottobre, anche in relazione alla proposta di Einaudi di pubblicare un saggio sulla seconda guerra mondiale. Pure lui, dal canto suo, non rinuncia ad ammiccare ad Ariosto:

«Caro Calvino,
[...] Sono lusingato per la proposta di pubblicare le mie inchieste sulla "seconda guerra mondiale" per Einaudi. Purtroppo, "Vie Nuove" s'è riservata nel contratto i diritti di pubblicazione anche in volume [...].
Del resto voi avete il prossimo anno la "Guerra di Libia" e i dervisci e i beduini sono, tutto sommato, assai più attraenti dei nazisti ([...] certamente più "ariosteschi"). [...]
Spero [...] di rivederti prima del tuo viaggio: vedi un po' se anche io posso figurare tra gli "storici giovani" e garantisci, anche per me, sulla mia buona volontà della distensione. Viviamo in tempi straordinari e non è facile conservare sulla terra il proprio "senno".
Auguri per il tuo nuovo romanzo che aspetto di leggere con ansietà (o meglio, con gioia)».57

Ariosto continua insomma a essere un punto di riferimento nel dialogo tra Calvino e Battaglia, una sorta di autore-chiave che sancisce e rinnova la loro intesa, all'inizio degli anni Cinquanta e lungo l'intero corso del decennio. Un autore la cui fortuna, come detto, non è solo letteraria.

 

§ VII. «È evasione il mio amore per l'Ariosto?» Torna al sommario dell'articolo

 

VI. L'Orlando furioso e l'assennato Agilulfo

Giungiamo così al Cavaliere inesistente, il romanzo della Trilogia in cui la presenza di Ariosto è esplicita, non solo per l'ambientazione e la scelta di alcuni personaggi (Bradamante, Orlando, Rinaldo, Astolfo), ma anche per alcuni temi (il desiderio irrealizzabile come motore dell'azione, lo scontro tra forze razionali e irrazionali, le contraddizioni dell'esistenza), per l'orchestrazione della materia, tutta contrapposizioni e ribaltamenti, per il principio binario e oppositivo che regge il sistema dei personaggi, per la capacità di rendere immediatamente visibili e vive anche le immagini più inverosimili, e per diverse altre strategie in senso lato ironiche che permettono all'autore di mantenere una distanza rispetto alla propria materia, di controllare le emozioni, di ricondurre l'ideale al reale, ma anche di non rinunciare a un certo slancio e a un certo movimento.58 Tra queste strategie - ben presenti (sebbene in diversa misura) anche negli altri romanzi della Trilogia - troviamo la riduzione dell'eroico al comico, del meraviglioso al prosaico, del soprannaturale al quotidiano, la pratica di riscrittura volta a risemantizzare i testi della tradizione, l'esibizione della finzione o dell'artificio, la proiezione dei sentimenti e dei pensieri dello scrittore nelle storie dei suoi personaggi.
Esempi di riduzione dell'epos e di riscrittura ironica si danno sin dalle prime pagine, basti pensare al trattamento della guerra, descritta da Calvino come un'insulsa routine di formule e convenzioni svuotate di senso, apice di ordine razionale e follia umana.59 Se nel primo canto dell'Orlando furioso la marca dell'ironia è visibile nella scena di Rinaldo che insegue il proprio cavallo e in Ferraù che cerca il proprio elmo, nel primo capitolo del Cavaliere inesistente lo è quando Carlomagno passa in rivista i paladini (topos che rimanda al X canto dell'Orlando furioso), impettiti solo grazie alle loro armature, dentro le quali in realtà sonnecchiano. La domanda «E chi siete voi, paladino di Francia?» si trasforma prima in un'unica parola, «Ecchisietevòi», poi in una formula ripetuta meccanicamente, «Tàtta-tatatài-tàta-tàta-tatàta»,60 in cui il linguaggio svolge solo la sua funzione fatica, crea un canale, ma riproduce suoni senza più comunicare messaggi. La riduzione dell'epico è evidente in entrambi i testi, ma se l'Orlando furioso comincia all'insegna del movimento e degli imprevisti, il Cavaliere inesistente sembra richiamarlo a contrario in quanto non c'è spazio per situazioni inattese o cambiamenti di programma. Tutto è chiaro sin dall'inizio: «Ogni parola, ogni gesto era prevedibile ormai, e così tutto in quella guerra durata da tanti anni, ogni scontro, ogni duello»; «Mai il giovane Rambaldo avrebbe immaginato che l'apparenza potesse rivelarsi così ingannatrice», «comprendeva che [...] tutto andava avanti a rituali, a convenzioni, a formule».61 I paladini calviniani non esisterebbero - suggerisce Calvino - se non fosse per l'armatura; si rivelano infatti pigri e disinteressati. Carlomagno, che non ricorda più contro chi combatte, ricorda invece i «tempi in cui a partire erano Astolfo, Rinaldo, Guidon Selvaggio, Orlando, per imprese che finivano poi nei cantari dei poeti, mentre adesso non c'era verso di smuoverli di qui a lì, quei veterani».62
A ben vedere, il titolo stesso del romanzo calviniano sembra implicare un rovesciamento ironico. Il protagonista, il cavaliere inesistente, rappresenta infatti, almeno per certi aspetti, il rovescio dell'Orlando furioso: passiamo cioè dal cavaliere fuori di sé, tutto corpo e pulsioni, al cavaliere immagine di fredda e astratta razionalità; dal cavaliere che, nell'acme della follia, si strappa di dosso l'armatura (simbolo evidente di protezione dai desideri e dalle pulsioni inconsce) al cavaliere a cui, per il suo estremo razionalizzare, non resta che quella: dall'uomo senza armatura all'armatura senza uomo. A dire – ed è questo un aspetto interessante nell’opera di Calvino – di una follia che alberga nel seno della stessa ragione, di un controllo razionale che, se estremo e ipertrofico, può condurre all'alienazione, alla perdita della propria individualità e all'incapacità di essere per e con gli altri. A caratterizzare Agilulfo sono infatti «la forza di volontà», «la tensione della [...] volontà», la «tesa ostinazione»,63 una «volontà» tuttavia senza corpo, incapace di rapportarsi alla realtà concreta, e dunque ideale, astratta, disumana. Così, praticando come Ariosto la "riscrittura" ironica, prendendo cioè in altro verso ciò che è stato scritto (anche da Ariosto, che aveva già rovesciato l'immagine del paladino Orlando),64 Calvino mostra di riflettere sull'alienazione dell'uomo contemporaneo, ma anche sul rapporto tra ideale e reale, razionale e irrazionale, sulla coesistenza dei contrari, sulla paradossalità o reversibilità di certe situazioni, e di restargli così - al di là delle apparenze - profondamente fedele. L'ironia di cui si serve si somma spesso a quella già presente nel poema, vira al comico e perfino al caricaturale, perdendo non di rado la discrezione e l'impalpabilità che caratterizzano quella ariostesca. La distanza dalla materia immaginaria risulta dunque inevitabilmente accresciuta, il disincanto profondo, eppure non mancano ancora quel movimento e quell'energia che stavano così a cuore a Calvino. Questo anche perché l’ironia e il comico aiutano a relativizzare la gravità dei fatti. La discrepanza tra l’ideale e il reale, l’idea e la percezione effettiva delle cose, suscita infatti il sorriso del lettore, lasciando inoltre un certo spazio all’ideale stesso.65
Il personaggio positivo del romanzo è del resto Rambaldo, «paladino stendhaliano» che «cerca le prove d'esserci, come tutti i giovani fanno».66 Uno degli alter ego di Calvino, che solo proiettando i propri pensieri e sentimenti in diversi personaggi immaginari, solo in virtù di questo "spostamento", riesce a dire di sé, ad aprirsi in modo più completo. Un altro è, evidentemente, la narratrice suor Teodora che, a partire dal quarto capitolo, riflette sulla propria scrittura, rompendo continuamente l'illusione della finzione. Strategie, l’autobiografismo trasposto e la riflessione metaletteraria, che implicano anch’esse una distanza e certo presenti nel capolavoro ariostesco.

 

§ VIII. «Egli si ostina a disegnare una fiaba» Torna al sommario dell'articolo

 

VII. «È evasione il mio amore per l'Ariosto?»

Riprendiamo dunque le fila: nel '55 Calvino fa riferimento alla «volontà attiva» che spinge i cavalieri negli antichi cantari, non cita Ariosto. Diverse opere mostrano tuttavia che il poeta è presente e che il suo retaggio consiste nel carattere avventuroso e in una certa distanza dall'epos e dal pathos (evidente già nel Sentiero...), nella scelta della trasfigurazione fantastica e nell'uso di diverse strategie in senso lato ironiche.
A chiudere il cerchio è l'intervento del dicembre 1959 intitolato Tre correnti del romanzo italiano d'oggi, letto durante il soggiorno negli Stati Uniti. Calvino vi definisce le tre principali correnti che «proseguono e trasformano l'iniziale spinta epica della letteratura della Resistenza» e, dopo aver descritto il filone elegiaco e quello dialettale, colloca sé stesso in quello della «trasfigurazione fantastica».67
Per spiegare la sua posizione, afferma di non ritrovare nella vita contemporanea la «carica epica e avventurosa» della letteratura della Resistenza, di averla perciò trasferita in «avventure fantastiche». Dopo questo preambolo e dopo aver menzionato il suo interesse per la fiaba e per il romanzo cavalleresco, cita Ariosto, poeta «assolutamente limpido e ilare e senza problemi, eppure in fondo così misterioso, così abile nel celare se stesso»,68 «incredulo italiano del Cinquecento che trae dalla cultura rinascimentale un senso della realtà senza illusioni, e mentre Machiavelli fonda su quella stessa nozione disincantata dell'umanità una dura idea di scienza politica, egli si ostina a disegnare una fiaba».69 Il passaggio è interessante non solo perché traspare ancora, in filigrana, il gramsciano «pessimismo dell'intelligenza» (a cui si opporrebbe un ottimismo dell'immaginazione), ma anche perché Calvino afferma di essersi trovato, «senza volerlo, fin dagli inizi», rispetto ai «romanzieri dell'appassionata e razionale partecipazione attiva alla Storia, da Stendhal a Hemingway e a Malraux», nello stesso atteggiamento storico e psicologico in cui Ariosto si trovava verso i poemi cavallereschi:

«Ariosto che può vedere tutto soltanto attraverso l'ironia e la deformazione fantastica ma che pure mai rende meschine le virtù fondamentali che la cavalleria esprimeva, mai abbassa la nozione di uomo che anima quelle vicende, anche se a lui ormai pare non resti altro che tramutarle in un gioco colorato e danzante. Ariosto così lontano dalla tragica profondità che un secolo dopo avrà Cervantes, ma con tanta tristezza pur nel suo continuo esercizio di levità ed eleganza [...]; Ariosto così pieno d'amore per la vita, così realista, così umano...».70

Ariosto sarebbe dunque presente non solo per alcuni temi o topoi, ma anche e soprattutto per la scelta della trasfigurazione fantastica e per il suo atteggiamento ironico, per l’esigenza di ricondurre l’ideale al reale, per la distanza che stabilisce tra sé e il proprio mondo poetico, la cui «levità» non esclude la «tristezza». Questa distanza implica la narrazione movimentata o sospesa, il ritmo serrato, la trasformazione della psicologia in azione, la proiezione dell'autore in diversi personaggi, la forte presenza dell'intertestualità, la dimensione metaletteraria, la coesistenza di diversi registri linguistici, il passaggio dall'eroico al comico e dall'astratto al reale. Strategie che permettono da un lato il rifiuto di ogni ingenua idealizzazione, senza che questo significhi il completo abbandono dell’ideale, dall'altro il controllo delle emozioni, ma anche, proprio in virtù della distanza che l'autore stabilisce tra sé e la propria materia, una maggiore libertà nel dire, nel rivelare i propri desideri e le proprie inquietudini.
Un altro aspetto sottolineato da Calvino nel '59 è infine lo sguardo volto al futuro anziché al passato. Come ha notato tra gli altri Paolo Grossi, nella conclusione del Cavaliere inesistente e del saggio citato, «c'est l'image (stendhalienne) de l'avenir qui s'impose: l'avenir vers lequel Bradamante chevauche ("tu mio regno da conquistare, futuro"), l'avenir vers lequel l'énergie des héros de l'Arioste est projetée ("È un'energia volta verso l'avvenire, ne sono sicuro, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo...")».71 Con l'intento di smentire la facile equazione secondo la quale la letteratura d'immaginazione sarebbe una letteratura disimpegnata, Calvino pone inoltre la seguente domanda al suo lettore: «È evasione il mio amore per l'Ariosto? No, egli ci insegna come l'intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d'ironia, d'accuratezza formale, come nessuna di queste doti sia fine a se stessa [...]. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell'epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali».72
Il riferimento ai cervelli elettronici e ai voli spaziali non pare d'altronde casuale. Il 1959 è anche l'anno delle Meraviglie del possibile. L'antologia della fantascienza73 curata per Einaudi da Carlo Fruttero e Sergio Solmi. Quest'ultimo, nella sua Introduzione, mette in luce il carattere popolare e avventuroso della fantascienza, stabilendo per questo preciso motivo un parallelo con il poema cavalleresco. Nota tuttavia che a separare radicalmente i due generi sono la mancanza d'eros e il pessimismo che circola nelle opere fantascientifiche, aspirando perciò a una fantascienza ariostesca.74 Il «Notiziario Einaudi» annuncia quindi: «La fantascienza come il romanzo cavalleresco».75 A ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, della varia fortuna di Ariosto nell'arco di tempo qui esaminato.
L'interesse di questa antologia non sembra sfuggire a molti scrittori e studiosi. Tra questi c'è Battaglia che, in una lettera del 6 luglio 1961 a Vittorio Strada, chiede il secondo volume: «gradirei ricevere il II volume dell'Antologia di fantascienza che ho visto annunciato. Puoi farmelo spedire? Anch'esso contribuirà a ispirarmi nell'"invenzione" storica».76 Il modello della letteratura popolare e avventurosa continua a stimolare lo studioso. Lo conferma una lettera del 27 luglio 1961, in cui Battaglia scrive a Luciano Foà: «ho ricevuto anche l'Antologia di Fantascienza che mi sembra utilissima per dare un ritmo avvincente ai miei studi storici».77

 

Vai alla fine dell'articolo Torna al sommario dell'articolo

 

VIII. «Egli si ostina a disegnare una fiaba»

Avendo deciso di limitare la nostra indagine agli anni Cinquanta, non ci occuperemo qui né dell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino né del Castello dei destini incrociati (in cui la presenza di Ariosto è senz'altro più esplicita che in altri libri). Per concludere, vale tuttavia la pena di menzionare gli interventi calviniani degli anni Sessanta e Settanta.78 Per almeno due ragioni: perché, pur riflettendo un diverso sguardo, troviamo in parte conferma di quanto detto fino adesso, e perché ci permettono di fare qualche altra osservazione in merito al dibattito della critica ariostesca. Appare inoltre, anche qui, la tendenza calviniana a rivelare la propria poetica attraverso quella dell'autore di cui si occupa.
Cominciamo - per chiudere il cerchio sulla letteratura sulla Resistenza - dalla Prefazione del 1964 alla nuova edizione del Sentiero dei nidi di ragno, in cui Calvino definisce Una questione privata di Beppe Fenoglio il racconto che avrebbe voluto scrivere, lo specchio sincero dell'esperienza resistenziale: «un romanzo di follia amorosa e di cavallereschi inseguimenti come l'Orlando Furioso», in cui la Resistenza appare «proprio com'era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta [...], e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia».79 Non essendovi, in Una questione privata, né la dimensione fiabesca né quella comico-ironica, Calvino accosta Ariosto a Fenoglio e alla Resistenza per il rifiuto di idealizzazioni ingenue, per la scelta del romanzesco, l'intreccio di «armi» e di «amori», il tema dell'eros come forza che confonde e sconvolge l'epos, l'intenzione di far confliggere diverse quêtes e di rendere illusori i loro oggetti. Temi particolarmente cari, come abbiamo detto, allo stesso Calvino.
Segue la Presentazione del 1970, in cui Calvino mette l'accento sul carattere popolare del poema ariostesco («passate dalla severa epopea militare di Turoldo alla letteratura romanzesca e avventurosa, le gesta dei paladini di Carlomagno ebbero fortuna popolare, più ancora che in Francia, in Spagna e in Italia»)80 e sulla capacità di Ariosto di mediare tra favola cavalleresca e presente politico-militare, profondo scetticismo e volontà di reagire attraverso la letteratura:

«L'Orlando Furioso nasce in una Ferrara in cui la gloria guerriera è ancora il fondamento d'ogni valore, ma che ormai sa d'essere solo una pedina d'un gioco diplomatico e militare molto più grosso. Il poema si sdoppia continuamente su due piani temporali: quello della favola cavalleresca e quello del presente politico-militare; una corrente di impulsi vitali si trasmette dal tempo dei paladini (dove ormai il fondo epico-storico carolingio sparisce assorbito dall'arabesco fantastico) alle guerre italiane cinquecentesche (dove all'apologia delle imprese estensi sempre più vanno sovrapponendosi gli accenti d'amarezza per gli strazi dell'Italia invasa).
Chi è questo Ludovico Ariosto che alle gesta cavalleresche non crede eppure investe tutte le sue forze, le sue passioni, il suo desiderio di perfezione a rappresentare scontri di paladini e d'infedeli in un poema lavorato con cura minuziosa? Chi è questo poeta che soffre di come il mondo è e di come non è e potrebbe essere, eppure lo rappresenta come uno spettacolo multicolore e multiforme da contemplare con ironica saggezza?».81

Il nesso avversativo «eppure» (ribadito e già sottolineato negli interventi degli anni Cinquanta) è particolarmente significativo in quanto segnala la presenza di un ostacolo che Ariosto tenterebbe di superare, il paradosso per cui il poeta richiama e invita a leggere i miti cavallereschi nel momento stesso in cui li tratta in modo ironico. Questo passaggio mostra bene, inoltre, come Calvino rivaluti la trasfigurazione fantastica e il meraviglioso ariostesco seguendo una linea che in qualche modo risale a De Sanctis, pur mettendo in discussione alcune idee di quest'ultimo su Ariosto. Questa citazione, e in particolare il passaggio «Chi è questo Ludovico Ariosto che alle gesta cavalleresche non crede eppure investe tutte le sue forze [...] a rappresentare scontri di paladini», sembra infatti richiamare il parere di De Sanctis su Leopardi («non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare [...]. È scettico e ti fa credente»), smentendo proprio quello su Ariosto («Non è credente, e non è scettico; è indifferente»).82
Come abbiamo visto anche altrove, Calvino sposa, d'altra parte, l'interpretazione hegeliana ben presente a De Sanctis laddove, più oltre, fa riferimento alla volontà di Ariosto di non sminuire i valori cavallereschi: «Pur vedendo le gesta dei suoi eroi attraverso l'ironia e la trasfigurazione favolosa, egli non tende mai a sminuire le virtù cavalleresche, non abbassa mai la statura umana che quegli ideali presuppongono, anche se a lui ormai par non resti altro che farne pretesto per un gioco grandioso e appassionante».83 Il nesso concessivo, in questo caso doppio, suggerisce una certa circolarità: l'ironia applicata all'ideale non implica necessariamente una realtà priva di ideali, ma la scelta del «gioco grandioso e appassionante» (e dunque serio) pare obbligata.
Quanto ai saggi successivi, Calvino riprende o approfondisce idee già presenti nell'intervento del 1959 e nella Presentazione del 1970, e che rimandano non di rado alle strategie ironiche o di riduzione del pathos di cui abbiamo detto poco sopra. Nel 1974, insiste sulla struttura aperta, «policentrica» e «sincronica» del Furioso, sul movimento «centrifugo», «a linee spezzate», «errante», fatto di continue convergenze e divergenze, sulla «rapidità dell'azione», sullo «slancio» e «l'agio nel raccontare».84 Sottolinea la compresenza di favola e storia nel poema, il che appare particolarmente evidente nelle aperture di canto: «E appunto in apertura di canto si situano le digressioni sull'attualità italiana [...]. È come se attraverso queste connessure il tempo in cui l'autore vive e scrive facesse irruzione nel tempo favoloso della narrazione».85 Si concentra quindi sull'ottava ariostesca, individuando l'alternanza di «toni sublimi e lirici con toni prosastici e giocosi», il «vario ritmo del linguaggio parlato», l'«abbondanza di quelli che De Sanctis ha definito gli "accessori inessenziali del linguaggio"», la «sveltezza della battuta ironica», la compresenza di diversi registri linguistici, la discontinuità di ritmo individuata tra i primi sei versi e gli ultimi due delle ottave ariostesche «con un effetto che oggi definiremmo di anticlimax, di brusco mutamento non solo ritmico, ma di clima psicologico o intellettuale, dal colto al popolare, dall'evocativo al comico».86 Calvino individua inoltre due centri di gravità: Parigi da un lato, il palazzo incantato del mago Atlante dall'altro, «deserto di quel che si cerca [...] popolato solo di cercatori».87 Nel 1975, invece, elegge Ariosto come uno dei suoi modelli per la capacità di guardare avanti («lo spirito ariostesco per me ha sempre voluto dire spinta in avanti») e per il carattere «avventuroso» dei suoi testi («La quintessenza dello spirito ariostesco per me si trova nei versi che preannunciano una nuova avventura»),88 sottolineando anche che lo «sfumato» ariostesco non esclude, anzi implica, la precisione («Questi risultati nello sfumato non possono farci dimenticare che è la precisione uno dei massimi valori che la versificazione narrativa ariostesca persegue»).89 È possibile scorgere, dietro molte di queste osservazioni calviniane, una proiezione dell’autore, una personale dichiarazione di poetica.
Ma al di là di questi ultimi riscontri, che meriterebbero un’analisi approfondita, ciò che vorremmo sottolineare, per concludere, è il modo in cui, negli anni Quaranta e Cinquanta, Calvino rivaluta il meraviglioso ariostesco seguendo una linea che risale in fondo a De Sanctis, e che da quest'ultimo - da alcune sue posizioni su Ariosto - prende nondimeno le distanze. La sua lettura, come quella di Battaglia, è evidentemente orientata e parziale, riflette esigenze personali e culturali, ma anche in questo risiede il suo interesse (i classici sono, per definizione, gli autori che rinnovano continuamente la loro contemporaneità). Così, se Battaglia insiste sul carattere popolare e sulla visione terrena delle opere ariostesche, sul contesto storico e sociale in cui furono scritte, Calvino punta sulla fiaba, rifiuta ogni eccesso di pathos e ogni ingenua idealizzazione, dando pieno diritto di cittadinanza a quell'«immaginazione fanciullesca» e a quell'ironia nei confronti delle quali il critico irpino nutriva non poche riserve morali. Opponendosi in tal modo (in fondo anche per sé stesso) alla rigida opposizione tra un Ariosto favolista e un Ariosto testimone della storia.
Quanto alla predilezione per l'infanzia, la fantasia e l'ironia come antidoti alla rassegnazione, si sarebbe probabilmente detto d'accordo un altro autore caro a Calvino, Gianni Rodari, il quale, immaginando un dialogo con Ariosto, scrive:

«NOI - Messer Ludovico, ora non ci verrete a dire che le vostre favole possono aiutarci a fare la rivoluzione...
ARIOSTO - E perché no?».90

 

Precedente Successivo Scheda bibliografica Torna all'inizio della recensione Torna all'indice completo del numero


Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2020

<http://www.boll900.it/2020-i/Maggiore.html>

gennaio-maggio 2020, n. 1-2