Andrea Gialloreto
Università di Chieti - Pescara

Il «tempo degli animali» e quello degli uomini. Le «Storie di bestie» di Bonaventura Tecchi

 

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Sommario
I.
II.
III.
Il modernismo atipico di un moralista cristiano
Tra favola e racconto
Uomini e animali nel bestiario Jugendstil di Tecchi

 

 

La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro.1

 

§ II. Tra favola e racconto

I. Il modernismo atipico di un moralista cristiano

I romanzi e i racconti di Bonaventura Tecchi, non meno dei ritratti umani e dei disegni di paesaggi, profilati sullo sfondo delle crete di Bagnoregio oppure su quello nitidissimo dei boschi e delle nevi della Moravia, appartengono ad una civiltà letteraria ormai molto distante dal gusto e dalla sensibilità dei contemporanei. La parabola artistica dello scrittore, iniziata nell'ambito della memorialistica sulla grande guerra e proseguita ai margini dell'esperienza solariana, ha incrociato le aspettative di critica e pubblico prima con una serie di convincenti storie di donne (Valentina Velier, La signora Ernestina)2 poi, in età matura, con il problematismo a sfondo etico de Gli egoisti e Gli onesti.3 Il cultore dei romantici tedeschi, indagati in un gran numero di saggi,4 si scopre attratto da ciò che sta all'opposto, quanto a cifra spirituale e tonalità espressiva, rispetto alle intenzioni professate e ai risultati di un impegno rinvigorito dal credo cristiano. I suoi idilli, ora tragicamente dimessi ora impregnati da una vibrazione atmosferica estenuante seppure mai decadentisticamente compiaciuta, traggono materia e alimento dalla tensione verso le passioni accese, le fantasticherie e le tortuosità psicologiche alla Piovene ma, a livello di stile e di poetica, questo moto ondivago della scrittura - esitante e incerta se assecondare i propri sondaggi nell'ombra e nell'inquietudine - risulta costantemente combattuto in ossequio ai valori della tradizione: fermezza delle linee, equilibrio, misura, solidità d'impianto narrativo.5 In estrema sintesi, e correndo il rischio di una semplificazione eccessiva, si potrebbe dire che Tecchi sia riluttante a riconoscere terminato l'apporto dei modelli della narrativa del diciannovesimo secolo; infatti, egli ha indubbiamente rivolto uno sguardo partecipe e commosso alla stagione eroica del romanticismo tedesco e francese, temperie filosofico-letteraria che ha inaugurato la percezione della crisi propria della modernità e le sottigliezze dell'egotismo, esperite in direzione tanto del trionfo dell'individuo quanto della polarità antitetica e complementare, quella della «vaporizzazione dell'io». Se l'elegante germanista ha optato per la trasposizione velata e simbolica di quel dissidio, rappresentata dalla fiaba, il romanziere sembra essersi posto nella posizione defilata degli epigoni che, sulla scorta dell'olimpico Goethe, hanno assorbito la violenza dionisiaca dell'uragano romantico placandola a forza di levigatezza stilistica e maestria nel togliere ciò che è di troppo, nel prosciugare l'enfasi e attutire la violenza dei sentimenti. Spinto da un inconfessato pudore, Tecchi non ha scritto molto dell'opera di Theodor Storm o di quella di Adalbert Stifter, ma le tracce di queste letture sono rilevanti e comprovate dal titolo attribuito al romanzo postumo, Tarda estate6 che è calco stifteriano.7 La ritrosia dell'autore italiano nel riconoscersi nella poetica dei due più eminenti realisti tedeschi di metà diciannovesimo secolo deriva probabilmente dal timore di dar adito a un'associazione generica, da parte della critica, fra la sua scrittura e l'elegia, la malinconia virile, lo scettico disincanto, la predilezione per le velature del carattere e della psicologia che trasudano dalle pagine di Storm e di Stifter.
Alla luce di simili premesse, come si può inquadrare la produzione tecchiana in rapporto al paradigma modernista? Una collocazione sulla base di una piena aderenza a questo concetto in ordine alla periodizzazione risulterebbe insoddisfacente. Certamente lo scrittore si è rivelato negli anni venti e trenta, sotto l’influenza del clima postbellico, e trova le più attinenti parentele negli autori solariani, alcuni dei quali come Gadda suoi amici. Un'aria comune circola tra i suoi racconti e quelli di Gianna Manzini, Arturo Loria e Pier Antonio Quarantotti Gambini, ma ciò non basta ad avvalorare un'attribuzione a quella fattispecie del modernismo in terra italiana, tanto più se consideriamo che la maggior parte dei libri dello scrittore di Civita di Bagnoregio fu stampata nel secondo dopoguerra, in anni ormai lontani dall'esperimento europeizzante tentato dalla rivista fiorentina. A mio avviso, l'appartenenza andrà ricercata su un piano diverso, connesso all'indole dell'uomo e della sua opera. Il tratto peculiare del modernismo di Tecchi risiede proprio nel carattere non risolto delle narrazioni, soggette a un processo di rimeditazione che non si esaurisce nel momento dell'ideazione ma coinvolge l'atto stesso della scrittura nella sua «durata». Si tratta di una messa tra parentesi del libero fluire del racconto in nome di un'analisi capillare delle ragioni profonde, del sostrato morale, della natura sempre enigmatica dell'evento, privo di qualsiasi forma di compimento che non sia prima delibata e sezionata dal potere dissolvente dell'anima e della psicologia. Il taglio metaletterario, di perenne e inesausta interrogazione sull'opera nel suo farsi, appare quindi perfettamente integrato, in quanto tecnica di pretta marca modernista, con la coscienza delle responsabilità demiurgiche di chi emula gli intrighi ingannevoli dell'esistenza attraverso lo strumento imperfetto della parola: il «timore dell'informe, di non poter arrivare alla chiarezza e alla disciplina dell'espressione, di non poter dominare quel che d'irrequieto, di ansioso, fitto di domande sui problemi più grandi della vita e della morte, quel che di eccessivamente sentimentale e di troppo facile alla commozione potesse essere dentro di me […]».8
Il modernismo atipico di Tecchi si discosta dai modelli costituiti dai vociani, da Svevo, da Tozzi, i principali indiziati nella ricerca in ambito italiano di figure confrontabili con i maestri europei: Joyce, Proust, Mann, Kafka, Gide, Conrad, Virginia Woolf, Unamuno, Babel, Bulgakov.9 Alla preminenza dei procedimenti tecnici (la cui evoluzione è inestricabilmente legata ai progressi nella rappresentazione dei moti psichici e della reattività all'ambiente dei personaggi di crisi modernisti), il germanista scrittore preferisce, alla Tozzi, «i misteriosi atti nostri», l'irrequietezza quale cifra distintiva della modernità, l'esitante procedere in un oceano ignoto senza per questo abbandonare le rive della tradizione. Alle epifanie, ai rivelatori «Moments of Being», agli hardyani «Moments of Vision», egli antepone il mite stupore del favoloso cristiano (un cattolicesimo certo meno assennato di quello di un Chesterton, ma utile comunque a porre argini al misticismo assorbito grazie alla prossimità con l'eredità della Romantik). L'empito dei dichter nordici è soppiantato dalle "tassidermie" allegoriche con immoti animali araldici messi in posa da Arturo Loria (compagno della stagione di «Solaria» assai pratico di bestiari) oppure dalla pacatezza campestre delle bestie mansuete dei racconti di Nicola Lisi (né andranno dimenticati, nel quadro di una religiosità meno univocamente classificabile, «i sereni animali che avvicinano a Dio» di Umberto Saba): i canali attraverso i quali le avvisaglie moderniste pervengono a Tecchi sono appunto quelli di riviste come «Solaria», per l'ineguagliata apertura di credito alle letterature moderne europee, o «Il Frontespizio» (nei limiti della declinazione creaturale di un cattolicesimo altrimenti retrivo conferita da Betocchi alle sezioni letterarie del foglio di Bargellini, cui collaboravano anche Lisi, Carlo Bo e il germanista Leone Traverso). Eppure, chi si metta in caccia di elementi di raffronto con i protagonisti del coevo scenario artistico europeo non rimarrà deluso: Tecchi opta per un modernismo meno irto di pointes espressionistiche, guardando anzi al neoromanticismo stilizzato del movimento Jung-Wien; le descrizioni da trompe-l'oeil fissate sulla carta dai grandi realisti tedeschi cari al giovane Lukács cedono infatti terreno di fronte alle iridate tonalità dei narratori mitteleuropei, specializzati in delicati e nervosi profili femminili tracciati con inchiostro "azzurro pallido" (alla Werfel, o secondo gli schizzi di Schnitzler, Zweig, Roth, Doderer); questi cantori della Finis Austriae si sono rivelati esperti nello scandaglio psicoanalitico di anime infelici che celano a stento dietro la compostezza borghese dell'idillico "mondo di ieri" i più ambigui turbamenti dello spirito e dei sensi: le donne di Tecchi non sono sorelle della Effie Briest di Theodor Fontane, ma proprio di queste creature fragili perché 'moderne' (degne degli anti-eroi maschili: intellettuali devitalizzati, idioti senza male sacro e senza dono profetico, inetti, soccombenti).

 

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II. Tra favola e racconto

I racconti a tematica animale, le Storie di bestie, risolvono l'elemento della cautela della scrittura nello stampo esemplare del racconto breve, che deriva dai contenuti semplici la fluidità e la naturalezza del dettato. Nel Novecento italiano sono frequenti i casi di autori catturati dalla vocazione all'apologo, al disegno allegorico in cui far precipitare un giudizio severo sul mondo e la realtà e non sono meno numerosi coloro che demandano a una controfigura animale il compito di intrattenere "ragionamenti", "dicerie", "storie naturali", sermoni e discorsi volti a schermare dietro la metafora belluina serissimi argomenti di miseria umana. Per restare nel campo dei minori, anche se forse più scaltri e risentiti di Tecchi, cito Sergio Antonielli (un vero specialista cui dobbiamo La tigre viziosa, Il venerabile orango, L'elefante solitario) e Mario Spinella, che nel romanzo filosofico e paradossale Le donne non la danno (si intende la morte) inscena i dilemmi di un tapiro (il più sapiente e riflessivo degli animali secondo leggenda) testimone dei drammi d'amore e dello scacco di un intellettuale.10 Su un diverso versante si sono mossi i favolisti, eredi della tradizione esopica, riattualizzata grazie all'immersione nel clima campagnolo di Strapaese, o inclini a riscattare il dato naturale tramite il sogno e un mite fantasticare cattolicamente atteggiato. Negli anni trenta e quaranta possiamo dunque rinvenire accenti schiettamente fiabeschi in Fabio Tombari (con Il libro degli animali del 1935), in Nicola Lisi, che ha popolato le campagne toscane di creature angeliche e di bestie da libro d'ore, infine in Luigi Santucci, anch'egli non restio a introdurre nei suoi racconti personaggi animali (persino dei canguri, nel libro In Australia con mio nonno).
Tecchi ha scontato l'estraneità a questi percorsi con il silenzio calato sulle sue Storie di bestie, volume pubblicato nel 1958 per i tipi Bompiani (il libro, tuttavia, seleziona anche testi scritti in precedenza e già raccolti in volume). Non si fa menzione del suo nome nei più recenti studi e regesti dedicati ai bestiari letterari: Animali della letteratura italiana curato da Anselmi e Ruozzi, La maschera di Esopo di Elisabetta Bacchereti, Bestiari del Novecento allestito da Enza Biagini e Anna Nozzoli;11 al libro, ritenuto marginale, sono per giunta dedicati pochi accenni nelle principali disamine critiche dell'opera di Tecchi. Nella raccolta emergono la sobrietà e la delicatezza della musa tecchiana: non si può che dar ragione a Manara Valgimigli, cui va il merito di aver sollecitato l'amico a pubblicare in volume le storie apparse alla spicciolata sulla terza pagina del «Corriere della Sera», quando gli scriveva: «Tu hai per le bestie, per le care bestie, tocchi intensamente e sempre felici».12 Valgono per questo libro le osservazioni fatte dallo stesso Tecchi a proposito dei racconti di uno degli scrittori più amati nel saggio Clemens Brentano interprete degli animali. Come per il poeta e favolista romantico, anche per l'italiano si potrebbe affermare che quando si poneva a confronto con le storie di animali il suo stile si illimpidiva lasciandosi alle spalle gli eccessi retorici, il descrittivismo esasperato e le ambagi psicologiche che a volte hanno intorbidato la vena dei suoi romanzi. Non soltanto in entrambi i casi la forma breve e la centralità assunta da protagonisti elementari come le bestie hanno giovato all'impostazione del narrare, ma la stessa opzione per un microcosmo animale domestico e vicino alla quotidianità ha rappresentato una traduzione esplicita del sentire dei due autori. Con le parole di Tecchi:

«Nelle fiabe di Brentano non ci sono mai il leone, la tigre, la volpe. Non ci sono mai gli animali della prepotenza, della forza feroce e sanguinaria, né della malizia, né il rappresentante per eccellenza del male: il serpente di Adamo ed Eva. Ci sono soltanto i cavalli generosi, gli asinelli pacifici, e le agili capre di Fanferlieschen; e la cicogna e il castoro e la marmotta. Ma ci sono soprattutto gli uccelli, i pesci guizzanti, i piccoli topi: tutti animali gentili e graziosi».13

Un simile rifiuto dell'esotismo comporta la rinuncia al facile espediente di attribuire connotazioni morali ad animali estranei all'ambiente conosciuto dallo scrittore ma protagonisti di una infinita serie di bestiari allegorici; a Tecchi non interessa l'uso strumentale degli animali per lanciare ammonimenti o per dare consigli di prudenza e buon senso: egli, quando decide di rappresentare degli animali, ne fa dei personaggi reali e concretissimi dedicando loro la stessa attenzione altrimenti rivolta ai casi delle sue eroine tormentate. L'amore per la verità si esprime soprattutto con la fedeltà alle immagini naturali, alle bestie colte nelle loro abitudini o nel loro rapporto con l'uomo, senza artifici e senza complicazioni. Siamo in prossimità della lezione del santo di Assisi, che accostava gli animali nel rispetto del loro essere: anche questo francescanesimo attardato di Tecchi rimanda alla cultura del modernismo: il riferimento alla creaturalità e allo spogliarsi di tutto da parte di Francesco doveva suonare a inizio Novecento come un'alternativa all'accumulo caotico di conoscenze, al soggettivismo spinto, alle ideologie di dominio e alle rivendicazioni sociali. Insomma, ai tumultuosi cambiamenti lo scrittore nostalgico del secolo borghese antepone la necessità di una riflessione calma sulla tradizione, sia sul piano del costume sia in relazione alle tecniche letterarie. Quello di Tecchi può essere solo un modernismo tardo e temperato, cui aderire più per persuasione e forza d'anima che in ragione di parole d'ordine artistiche o del crollo e della nascita di sistemi di pensiero. Secondo la visione proposta da Valentino Baldi, il modernismo italiano si configura proprio come conciliazione fra l'aspirazione e la ricerca del nuovo da un lato e l'attaccamento alla tradizione dall'altro.14
La semplicità delle reazioni e la trasparenza degli scopi perseguiti dagli animali obbedisce a un principio naturale, quello della conservazione della vita e della sua trasmissione lungo le generazioni. Del tutto antitetica rispetto a un tale abbandono della bestia al flusso esistenziale è la resistenza dell'uomo, che modifica l'ambiente e crede di governare il proprio destino avvalendosi di uno strumento indiretto e scollegato dalle dinamiche generali. Come ha notato Stefano Lanuzza nel pamphlet Bestia Sapiens: «L'uomo sostituisce all'istinto, prepotente prerogativa di tutti i viventi, la parola 'intelligenza': ambigua, plurima, indefinibile, variamente significativa e talora insignificante».15 Se l'intelligenza e il desiderio smodato istituiscono sulla base della separazione il rapporto dell'uomo con le altre creature e con l'ecosistema, allora, ed è la scelta di Tecchi, per cogliere allo stato sorgivo l'alleanza tra l'uomo e gli altri animali si dovrà far ricorso a una particolare categoria di personaggi: vecchi, bambini e ragazzi, alle soglie o al termine dell'esistenza, condividono con l'animale una modalità di approccio alla realtà. Molti dei racconti di Tecchi adottano il punto di vista "dal basso" di un bambino o di un anziano posti di fronte ai grandi misteri, la felicità, l'amicizia, la solitudine, il dolore, la morte. Quando l'età e il sopraggiunto disinteresse per l'aspetto economico connesso al mantenere un animale spinge un vecchio fattore ad affezionarsi morbosamente a Monelluccio, un cavallo ribelle e libero, insofferente degli altri animali e della tipologia umana "in divisa", siamo accompagnati dall'autore nella lenta discesa verso la demenza e la morte dell'uomo, mentre la sorte del cavallo sarà di essere venduto e di perdere la sua fiera autonomia. Anche nel racconto Bianconera si intrecciano le vicende di una gattina, di una cagnetta e di una donna centenaria che si adatta alla sola compagnia dei due animali. Di fronte alla solidarietà della gatta che succhia il latte dalle mammelle gonfie della cagnetta rimasta senza cuccioli il narratore si interroga sui doni spirituali che l'uomo è convinto di possedere come privilegio esclusivo:

«Esiste dunque una bontà anche delle bestie? ed a questa bontà gli stessi animali, che pur di solito non sono meno accaniti degli uomini nella lotta per la vita, non rimangono insensibili? Il mio pensiero s'intricava, non sapevo decidermi ad andar via. Guardavo la vecchia, guardavo le cime bianche delle crete che, soffiate dal vento, sembravano guglie di vetro; e pensavo a quella vecchiezza deserta, a quella strana cocciuta solitudine di una vecchia quasi centenaria, consolata dalla presenza di due bestie serene».16

Un'altra figura totalmente in simbiosi con gli animali è l'amico degli uccelli del racconto omonimo, un vecchio bizzarro ma saggio che conosce uno per uno gli uccelli cui porta da mangiare; la familiarità si spinge al punto che egli dà dei nomi e dei soprannomi ai suoi protetti (un uccello privo di una zampa è «il grande invalido di guerra», tre pettirosse rimaste senza compagno sono «le tre vedove inconsolabili», un maestoso picchio giallo-oro è definito «Sua Altezza», infine un frosone viene paragonato a un professorone meditabondo quasi in omaggio allo scrittore presente alla scena che grazie all'allusione comprende come «l'uomo, che parlava con gli uccelli, era capace di scoprire anche gli altri uomini»).17 I bambini sono invece partecipi dello sguardo aurorale della bestia.18 In Principino due ragazzi orfani, affidati a un vecchio zio, si affezionano al magnifico cavallo. Dopo la morte dello zio, un severo tutore vende il cavallo per allontanarlo dai ragazzi che, grazie alla complicità del vecchio stalliere erano riusciti a montare Principino facendosi avvolgere dalla sua calda «ondata di vita»: dopo quel fremito d'avventura e di libertà il futuro non riserverà più attrattive.
Maurizio è la storia, quasi priva di eventi, di un bambino di pochi anni, nato in una città del Nord e ignaro degli animali, che durante un soggiorno in campagna prende dimestichezza con un piccolo zoo da fattoria: galline, mucche, vitelli, pecore, capre, maialini, cavalli. Al momento del congedo prova un sentimento struggente come per la privazione di qualcosa di necessario: «Sentiva d'esser vicino a una forza che non conosceva, che lo attirava. [...] Era come se l'avessero strappato da qualche cosa che il bambino non capiva: quasi da un grembo, caldo e misterioso, non meno di quello della madre».19
Ne Le capre, tra i risultati più felici del libro, tutto permeato com'è dell'atmosfera agreste del paesaggio arcaico centroitaliano, un pastore mette in salvo da un'invernata eccezionale il suo gregge di capre grazie a un ragazzo, il nipote del prete che convince lo zio (timoroso del puzzo e della fama demoniaca che accompagnano le povere capre) a farle ricoverare in un fienile di sua proprietà in cambio di formaggio e agnelli. La sospensione delle consuete misure del tempo provocata dalla neve e dall'isolamento favorisce l'ipnotica attrazione del ragazzo, «chiuso e un poco fantastico», per le capre, che non si stanca di carezzare («"S'è innamorato delle capre", diceva tra sé il pastore Caiello, e lo lasciava stare»). Un racconto siffatto non poteva che fiorire dagli stessi luoghi della Pietra lunare di Landolfi e dal tempo delle origini e dell'indistinzione tra uomo e bestia da cui proviene Gurù, la capra mannara. In questi racconti l'uomo sembra vivere di riflesso, avvolto nell'alone luminoso che staglia gli animali dal paesaggio e dal consorzio degli umani.
Forse l'emergenza più toccante della reciproca comprensione tra bambini e animali è in un racconto appartenente alla raccolta La signora Ernestina, Il cane cieco: vi si narra di un ragazzo malinconico che si prende cura del setter lasciato in custodia dallo zio Saverio prima di intraprendere un lungo viaggio (così gli raccontano i familiari, mentre in realtà lo zio si è suicidato gettandosi in un burrone). Il cane, affetto da una malattia agli occhi che lo ha reso cieco, si comporta stranamente, raspa il terreno e si colloca sul ciglio della scarpata quasi fosse in attesa di una verità che gli è negata, come lo è al ragazzo: «cominciava ad annusare inquieto nella grande aria vuota che gli stava d'intorno, a cercare di qua e di là con quegli occhi che certo nulla più vedevano, e col muso umido, levato verso il cielo. Di quella ricerca, che a me pareva quasi un altro giuoco ma più importante del mio, non riuscivo ad afferrare il senso; eppure mi turbava…».20
Se a tratti può sembrare che Tecchi indulga a stabilire somiglianze e parallelismi troppo accentuati tra uomini e bestie, bisogna tenere presente che i racconti vivono dell'equilibrio tra una resa realistica al limite del bozzetto o dell'idillio (si pensi al brevissimo La madre in cui un maialetto poppante si stacca dai fratellini per scoccare un tenero bacio sulla bocca della madre) e l'amplificazione fiabesca che contempla incursioni nel meraviglioso, come nel caso di Festa di pesci in cui un luccio e una tinca si mettono in maschera per accompagnare sulla terra ad un ballo un giovane salvato dal suicidio per annegamento dal vecchio del mare, che lo tiene rinchiuso nel suo palazzo sottomarino. Il motivo dei pesci in abiti umani deriva dal Brentano di Das Märchen von dem Rhein und dem Müller Radlauf. Ma persino in questo racconto svincolato dalle leggi della verosimiglianza, Tecchi si preoccupa di non appiattire gli animali su schemi umani e dice la sua su un tema molto dibattuto come quello della lingua degli animali: «I pesci hanno una loro maniera speciale di parlare: guizzano più forte con la coda, aprono e chiudono con un certo ritmo misterioso le pinne, e accostano il muso dell'uno verso il muso dell'altro come se annusassero. Invece parlano».21 L'equiparazione tra le facoltà umane e quelle analoghe degli animali è condotta con rispetto delle specificità naturali, senza che alcun pregiudizio antropocentrico intervenga a guastare la spontaneità delle storie. Si tratta comunque di un nodo problematico che acquista sempre maggior rilevanza nell'ambito della filosofia contemporanea, come ha sottolineato Giorgio Agamben nel saggio L'aperto: da un lato, infatti, i confini dell'animalità si sono progressivamente allargati a comprendere anche l'uomo, dall'altro la nozione stessa di umano sembra essere stata posta in dubbio e azzerata nel secolo scorso.22

 

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III. Uomini e animali nel bestiario Jugendstil di Tecchi

Accostarsi agli animali significa anche percepirne l'alterità, vedere in essi la manifestazione del selvaggio, di un'essenza irriducibile alla misura e alla razionalità che l'uomo si è date nel momento in cui è entrato nella storia abbandonando l'assoluto della natura. Due racconti speculari dedicati agli scoiattoli forniscono un quadro duplice di questi abitanti del bosco: se Hansi è l'umanizzato scoiattolo addestrato che compie i voleri dell'amico degli uccelli quasi distrattamente, senza impegnare realmente la propria volontà e quindi senza ledere la dignità dell'animale, gli scoiattoli dell'omonimo racconto sono ritratti in piena baruffa mentre si lacerano le carni e il pelo con le unghie e i denti: la violenza degli istinti si rivela così in bestiole solitamente descritte come mansuete e amanti del gioco. Tecchi, che non apprezza la ferinità e rifugge dalle pulsioni selvagge, ha inoltre introdotto nella raccolta un paio di testi che si distaccano dai restanti per la nettezza con la quale ritrae l'elemento sfrenato e primordiale degli istinti belluini. Ne I muli il paesaggio aspro degli «scrimi» e delle crete appenniniche accoglie la vicenda di fatica e sofferenza delle bestie da trasporto impiegate durante lo «smacchio», il taglio del bosco. Un mulo acceso di passione incontenibile per una cavalla la travolge e precipita con lei in un burrone suscitando allarme e pietà negli altri muli, che paiono aver compreso il dramma e si rifiutano di procedere finché il compagno non ha ricevuto il colpo di grazia. Il tema animale prende coloriture da leggenda sinistra nel resoconto del vecchio trasportatore di legname: «I muli, oltre a essere cocciuti come il volgo ritiene, sono anche bestie intelligenti: le più intelligenti, egli disse, che il diavolo avesse fatto. Poiché le aveva di certo create il diavolo e non il Signore: intelligenti, malinconiche, e anche piene di occulte, nere passioni».23
Nell'altro racconto, ambientato tra i monti innevati della Moravia, un gruppo di stranieri si mette alla posta in attesa di scorgere i cervi che stazionano ai margini della foresta. Diversamente dai cacciatori, lo scrittore e i suoi compagni vogliono cogliere l'autenticità di un frammento di vita selvaggia spiando i possenti signori del bosco. I cervi non si mostrano facilmente e sono refrattari al contatto con l'uomo, e in ciò sono il vero emblema dell'animalità che si rivela nell'epifania sacra del selvaggio; Jean-Christophe Bailly nel saggio Il partito preso degli animali si è soffermato sulle valenze di tale svelamento: «Il nascosto, quindi, non è fatto solo della tessitura dei nascondigli, ma è per così dire il reale stesso, nella totalità delle sue apparenze e sparizioni, nella prolissità di una sorta di continua infusione di senso. [...] Ogni animale è un fremito dell'apparenza e un'entrata nel mondo».24 Nel racconto in esame, i codici della fiaba vengono rovesciati per consentire a quella energia primordiale di manifestarsi. Il cervo è uno dei più antichi animali totemici per le popolazioni primitive25 e la sua natura non può essere addomesticata all'immaginario dell'uomo, come si è tentato di fare con le armi della convenzionalità e della tassonomia attraverso la riduzione fiabesca. Il clima festoso allietato dalla neve e dalla cordialità dei paesani e dei bambini che guidano i forestieri al "Castello degli scoiattoli" prelude all'introduzione di un richiamo fiabesco; sulle targhette apposte sotto i cimeli di caccia sono raffigurate scenette sul carattere dei cervi ispirate alle favole di Esopo. Tuttavia l'avvistamento di un branco di cervi sconfessa immediatamente quei quadretti idillici. Gli animali si mostrano fugacemente e si nascondono, pascolano per poi darsi a una fuga inspiegabile e scomposta. Presi da una sorta di invasamento, i cervi appaiono incuranti del rispetto di qualsiasi logica che non sia quella, di pertinenza esclusiva del regno animale, legata agli allarmi continui che il branco si rimanda nel timore di essere oggetto dell'attenzione dei predatori. Ma quell'intrico di corna e palchi sontuosi che trapela dal fitto della selva morava non può che lasciare nel lettore la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di maestoso e incomprensibile in un'ottica umana.
Ripristinare la distanza tra uomo e animale, proditoriamente accorciata dalla tradizione dei bestiari, è uno degli intenti di Tecchi, stando a quanto dichiarava a Valgimigli: «ogni tanto sento il bisogno di entrare in un mondo lontanissimo dalla realtà in cui mi trovo, nel mondo degli animali».26
L'animale è la creatura che possiede ancora arti e istinti che l'uomo ha perso nel corso dell'evoluzione, ma viene distinto dalla specie di Adamo proprio a partire da una carenza, dall'assenza di qualcosa di non ben definibile: il linguaggio, la psicologia, l'anima: «L'animale è mancante, questa è l'essenza filosofica dell'animalità»,27 afferma Felice Cimatti. Nel primo racconto Tecchi chiarisce la sua posizione in proposito. Gli animali non sono uomini ma bestie: l'uso di questo termine nel titolo, pur scevro di implicazioni negative, attesta la convinzione che se pur dotati di intelligenza, di forme proprie e complesse di comunicazione, di affetti e sentimenti, gli animali non possiedono un'anima secondo i canoni dell'ortodossia cattolica e quindi, come si sentiva ripetere il protagonista Don Ermanno, non sono destinati al paradiso. Prima di decidere di compensare questa mancanza donando a due agnelli sottratti al macello l'ultima gioia («"in mancanza del paradiso, prendetevi questo: una lunga giornata d'estate". I tre, che stavano dietro il cancello, non se lo fecero dire due volte. E, le codine alzate, vispi ed allegri, irruppero entro il prato, come in un fiume di eternità»),28 il sacerdote si interroga sulla brevità del tempo concesso alle specie animali: la felicità riconoscibile dietro l'inconsapevolezza, «l'infinita rassegnazione» e la calma degli agnelli sembra derivare dalla mancanza di desideri e dall'assenza di ombre prodotte dal timore della morte. Gli animali paiono vivere nel presente senza commisurare la gioia alla sua durata e senza curarsi delle nubi che si addensano all'orizzonte. La brevità della loro esistenza non si risolve pertanto in pura perdita, rappresenta piuttosto il frutto di una diversa intensità del vivere e il segno della prossimità al grembo della natura: «C'è un'onda nel tempo degli animali, un ritmo che noi non conosciamo».29 Quando gli animali finiscono in cattività, negli zoo, viene sottratto loro, con la libertà, il tempo: non soltanto quello corrispondente al periodo di reclusione, ma anche la percezione di quella ciclicità, dell'alternarsi del giorno alla notte, che essi percepiscono in connessione alle variazioni luminose. Le luci artificiali sono una tortura perché li infastidiscono fino a far perdere loro la cognizione della notte, il momento più delicato per la biologia e la "psicologia" animali:

«C'è una tentazione del nulla negli occhi degli animali del giardino zoologico che, dopo una giornata di prigionia inutile, si accostano alla notte. Ricordo una lince, la lince rossa dell'Asia, che ha occhi di fuoco: tozza, tutta nera, afferratasi alle sbarre di una piccola gabbia, mi parve che la lince non volesse cedere alla tentazione del nulla e si rifiutasse di dare la luce rossa dei suoi occhi alle tenebre. […] Qualche cosa di misterioso è nelle bestie che si avviano a dormire, come se, creature destinate a non aver un'altra vita, presentissero nel sonno il disfacimento totale…».30

È crudele esibire gli animali sottraendoli al loro tragitto sulla terra e alla loro solitudine, perché - osserva lo scrittore - «C'è una solitudine nella vita degli uomini; ma ce n'è anche una - non meno dolorosa e tragica - nella vita delle bestie».31 Tecchi ha composto la maggior parte dei racconti durante la malattia e dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1955; forse per questo è riconoscibile un nucleo di storie dedicate agli uccelli, al loro vivere in società o in coppia e alle loro tristezze quando restano soli. Jules Michelet, nel suo trasporto romantico ha scritto dell'epopea degli insetti e di quella degli uccelli, specie che valorizzano il lavoro collettivo e la condivisione. L'uccello però addensa in sé anche la singolarità, il dono del canto e dell'espressione delle gioie o delle pene del singolo esemplare, ha perciò un'anima come vuole Michelet:

«La classe ailée, la plus haute, la plus tendre, la plus sympathique à l'homme, est celle que l'homme aujourd'hui poursuit le plus cruellement. Que faut-il pour la protéger? Révéler l'oiseau comme âme, montrer qu'il est une personne. L'oiseau donc, un seul oiseau, c'est tout le livre, mais à travers les variétés de la destinée, se faisant, s'accomodant aux mille conditions de la terre, aux mille vocations de la vie ailée».32

Le creature alate reggono il peso dei racconti Il bagno degli uccelli, L'amico degli uccelli, La cicogna, Uccelli in guerra, Il canto degli uccelli. Gli ultimi due risultano significativi per una componente di disillusione e di amarezza ben poco fiabesca che si mischia agli stereotipi tipici del genere. Nel primo un mutilato di guerra che trascorre una trasognata convalescenza nel sanatorio di un paese neutrale ammira la sicurezza e la serenità delle stirpi canore, rese fiduciose nella bontà dell'uomo da una lunga consuetudine di pace. Quando però assiste alla lotta all'ultimo sangue tra due merli, si risveglia dal sogno idillico per riconoscere che la violenza e il conflitto sono insiti nella natura e non ne sono solo la parte traviata ad opera della malvagità umana. Il canto degli uccelli pare voler rovesciare l'assunto del leopardiano Elogio degli uccelli per cui «Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo». Il racconto presenta elementi da Märchen romantica con tanto di ingrediente orientaleggiante incarnato dal principe di Ruvenzori, partito dall'India per intraprendere un viaggio di formazione che avrà termine quando gli sarà rivelato un segreto «non scritto in alcun libro». Giunto in una fertile valletta assiste alle esibizioni canore degli uccelli e un cardellino gli illustra la vita di tordi e capinere, di picchi e cince e fringuelli e pettirossi soffermandosi sulle ragioni del loro canto, visto che «ogni canto ha la sua storia, è legato alla vita». Un uccello si distingue per la dolcezza e la malinconia della sua voce. Non si compiace di assoli virtuosistici come l'usignolo o l'allodola, si mostra anzi misero e malconcio. È «un uccello che gli uomini quasi non conoscono. È senza nome». Si tratta dell'ultimo rappresentante della sua specie, che, persi i parenti e «la sposa adorata» (significativa in questo caso l'adozione di un lessico che ben si adatta al mondo degli uomini), cerca invano consolazione nel canto. «Chi ha più sofferto più dolce canta»,33 suona la chiusa affidata al saggio cardellino e la massima sugella la fiaba e pone fine al viaggio del principe. La favola dell'uccellino del freddo, mosso al canto dal dolore, è la traduzione della favola di Orfeo, un Orfeo animale che si duole del lutto personale in quanto lo interpreta come un vuoto nella catena dell'essere.
L'uccello di Michelet è invocato al singolare ma contiene in sé quella pluralità e quella unicità nella varietà che l'uomo non riesce a intendere se non con il trucco della personificazione. Tecchi colloca invece i suoi racconti all'ombra dell'«idea di una confraternita generale delle bestie - per lo meno quelle domestiche».34 L'organicità e la ricchezza del libro derivano allora dall'aver voluto e saputo mettere insieme gli animali in confraternita, lontano da ogni idea ghettizzante, sia essa quella di uno zoo, di un bestiario o di un'Arca.
L'accenno al grande storico francese e "animalista" ante litteram permette di chiarire un ultimo punto: le ragioni della marginalità di Tecchi rispetto alla corrente modernista; la sua opera si sviluppa a latere delle dinamiche più innovative della stagione inaugurale del Novecento. Per leva anagrafica, lo scrittore - nato nel 1896 - appartiene pienamente alla generazione del Modernismo italiano, ma la sua produzione che meglio si allinea a quel sistema di coordinate teoriche e stilistiche che riconosciamo come modernista si situa nella fase matura e tarda della sua carriera. È come se - ipotizzo - egli abbia avuto bisogno di un lungo periodo di elaborazione per assimilare stilemi e strutture ideologiche tali da motivare la propria "convivenza" con gli altri scrittori della sua epoca; un simile processo si è compiuto nel momento in cui la riflessione sulla letteratura legata al suo "secondo mestiere" di germanista lo ha condotto a mettere a fuoco obiettivi comuni e tratti distintivi. Il tentativo di stabilire una convergenza con i maestri dell'età della crisi è evidente in studi come quello dedicato a Pirandello e i romantici tedeschi35 da cui emerge, ben oltre gli ovvi riscontri legati alle esperienze in Germania dell'agrigentino, l'esigenza tecchiana di avviare una negoziazione fra le istanze del Modernismo esemplificate dal lavoro pirandelliano e le loro radici meno ovvie, quelle ravvisabili nel Romanticismo tedesco e nella sua inchiesta sulle aporie dell'identità. Una simile confluenza di aspetti inerenti all'anelito verso la trascendenza e il dissolvimento dell'io nel tutto spiega la contiguità, pur in una collocazione specifica e isolata, di Bonaventura Tecchi con gli esperimenti dei modernisti italiani. La mediazione dell'estetica romantica giova al superamento dell'ipoteca che il Verismo (Verga in particolare) ha steso sulle poetiche moderniste italiane: nel nostro paese infatti non è stato possibile abbattere risolutamente già nelle prime decadi del ventesimo secolo la "barriera del naturalismo", come avvenuto invece nel resto d'Europa, e il realismo ha rappresentato un nodo su cui ancora oggi la critica si interroga (sceverare l'eredità ottocentesca dalle tensioni nuove, di rottura, in autori quali Tozzi, Pirandello, Palazzeschi, Rebora, Campana può risultare impresa ardua).
Le persistenze romantiche, secondo una percezione al limite astorica di tale espressione dello spirito, hanno trovato in Tecchi un sensibile recettore, al punto che parte considerevole della sua opera si muove in direzione degli approdi neoromantici di certo modernismo Jung-Wien: non a caso, una tendenza incline al floreale e ai bestiari gentili (basti pensare al Bestiarium Literaricum di Franz Blei).36

 

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