Ramona Onnis
Realismo magico postcoloniale in Cenere calda a mezzanotte di Savina Dolores Massa

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
Realismo magico e studi postcoloniali
La scrittura visionaria di Savina Dolores Massa
Atmosfere magiche in «Cenere calda a mezzanotte»
Una declinazione al femminile del realismo magico postcoloniale
La parola delle donne come forma di riscatto


 

§ II. La scrittura visionaria di Savina Dolores Massa

I. Realismo magico e studi postcoloniali

Le categorie di realismo magico e realismo meraviglioso hanno conosciuto nel corso del ventesimo secolo un grande successo. Tradizionalmente si fa risalire l'origine dell'espressione "realismo magico" (Magischer Realismus) al critico d'arte tedesco Franz Roh, autore nel 1925 di un saggio sulla pittura post-espressionista.1 Negli stessi anni il concetto fu teorizzato in Italia da Massimo Bontempelli sulla rivista «900» e conobbe nei decenni successivi una popolarità internazionale notevole, soprattutto nell'ambito della letteratura latino-americana, grazie ad Alejo Carpentier, prima, e a Jacques Stephen Alexis, poi. Attraverso l'influenza decisiva di romanzi come Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez e La casa degli spiriti d'Isabel Allende, per tanto tempo si è associato il realismo magico unicamente all'universo letterario e culturale dell'America Latina, del quale esso esprimeva la peculiare identità. Tuttavia, sull'esempio di quanto è stato osservato di recente nell'introduzione a un volume dedicato al realismo magico come «strategia narrativa nella riappropriazione dei traumi storici»,2 le modalità del realismo magico si sono moltiplicate nel corso dei decenni, e varie tradizioni di ricerca si sono sviluppate nel tempo in zone geografiche diverse, dando vita a una serie di teorizzazioni e di approcci spesso discordanti tra loro.
Il risultato è che oggi non è più possibile distinguere in maniera netta le diverse tendenze, a partire da una linea latino-americana, ritenuta più autentica, e una europea considerata più artefatta, influenzata dal post-espressionismo e dal surrealismo. Nondimeno, sembra essersi affermata la volontà - che qui condividiamo - di considerare i realismi magico e meraviglioso non come dei generi letterari canonici o delle categorie chiuse, ma come delle strategie di scrittura, dei «modes narratifs de la fiction»3 - per riprendere la terminologia di Charles Scheel (i cui studi sul realismo magico sono fra i più attendibili in Francia) - che combinano naturale e sovrannaturale, senza che il lettore percepisca una qualche antinomia fra i due livelli. In altri termini, le due dimensioni sono perfettamente fuse tra loro, e l'elemento magico o meraviglioso è integrato senza alcuna forzatura nell'ordinario.4
Negli ultimi tempi, sono soprattutto gli studi postcoloniali e culturali ad aver contribuito in maniera determinante al successo della categoria del realismo magico: la critica postcoloniale - nella misura in cui rivolge un'attenzione particolare ai contesti di oppressione, di emarginazione, di subalternità - si è concentrata sull'obbiettivo più profondo del realismo magico, ovvero quello della «subversion par l'imaginaire des vérités établies».5 Vi è infatti da parte degli autori postcoloniali un preciso intento di rimettere in discussione il principio di unicità del reale, il discorso razionale e normativo della tradizione occidentale, attraverso un discorso magico che - per citare Jean-Pierre Durix - «en fournissant une alternative au logos cartésien, ne fait que constituer un pan d'un langage romanesque essentiellement multiforme, qui privilégie le paradoxe et le dialogue entre les contraires davantage que la logique».6 Il fine di quest'operazione è quello di costruire una contro-storia che diverge da quella ufficiale, trasmessa dai poteri tradizionalmente dominanti, e che affonda spesso le proprie radici in un patrimonio orale di credenze magiche secolari.
Possiamo interrogarci su quale sia l'atteggiamento delle scrittrici postcoloniali nei confronti di questa modalità espressiva. Sappiamo che la critica postcoloniale e gli studi femministi e di genere da tempo condividono prospettive comuni, nella misura in cui sviluppano entrambi un discorso dalle forti implicazioni politiche e ideologiche, interessandosi ai meccanismi di potere che agiscono tra gli individui in contesti di dominazione e alle conseguenze sul piano economico, sociale e culturale. Cionondimeno, i legami tra femminismo e realismo magico sono ancora poco studiati dalla critica. Le ragioni sono diverse; da una parte, possiamo pensare all'indubbia conflittualità esistente tra i Postcolonial e i Gender Studies: nonostante i campi di indagine affini, come ha osservato Deepika Bahri, delle tensioni si creano quando «les approches féministes sont aveugles aux problèmes relevant du colonialisme et de la division internationale du travail et lorsque les études postcoloniales échouent à inclure le genre dans leur analyse».7 D'altra parte, quando si parla del legame tra donne e magia, non possono non venire in mente vecchi stereotipi che ancora persistono, i quali sono spesso in contrasto con l'approccio impegnato e con la dimensione ideologica degli studi postcoloniali e di genere.

 

§ III. Atmosfere magiche in «Cenere calda a mezzanotte» Torna al sommario dell'articolo

II. La scrittura visionaria di Savina Dolores Massa

Alla luce di questi presupposti teorici - realismo magico postcoloniale e scrittura femminile - vorremmo qui proporre una lettura del romanzo Cenere calda a mezzanotte della scrittrice sarda Savina Dolores Massa. Si tratta di un'opera di oltre quattrocento pagine pubblicata nel 2013 dalle Edizioni Il Maestrale, che fa seguito ad altri tre testi editi da Massa presso la stessa casa editrice: i romanzi Undici (2008) e Mia figlia follia (2010), e la raccolta di racconti Ogni madre (2012). Negli ultimi anni sono stati pubblicati, sempre per i tipi del Maestrale, Il carro di Tespi (2016) e la raccolta di poesie Per assassinarvi. Piacere siamo spettri (2017).
Savina Dolores Massa è una figura che si è distinta nel panorama letterario sardo degli ultimi anni: in una recensione apparsa nel 2013 su un sito internet tedesco specializzato in letteratura italiana contemporanea, la scrittrice è definita come appartenente «alla cerchia più significativa di giovani autrici sarde, i cui testi sono fortemente radicati nella cultura dell'isola e nella sua storia, riuscendo comunque a sviluppare forme di racconto letterarie innovative e tonalità stilistiche individuali».8
Vorremmo partire proprio da questa osservazione: si parla di una scrittura che è, da una parte, profondamente radicata nella storia e nella cultura sarde - un tratto tradizionalmente attribuito a molta letteratura sarda contemporanea e spesso additato come un suo limite -9 e che, dall'altra, appare innovativa dal punto di vista formale e stilistico. È un'osservazione che merita di essere approfondita. Ciò che colpisce immediatamente leggendo i romanzi della scrittrice oristanese è la dose di straniamento che essi producono, e questo non soltanto sul piano formale. Si tratta di una scrittura in cui le atmosfere magiche, visionarie, allucinate sono frequenti, al punto da destabilizzare il lettore smarrito. I riferimenti alla Sardegna sono certamente presenti - nell'onomastica soprattutto - ma si ha più spesso l'impressione di avere a che fare con una Sardegna atemporale, che va oltre il tempo e lo spazio, più mitica che storica, in cui lirismo, ironia e grottesco si mescolano, così da produrre un risultato estremamente originale. Siamo dunque d'accordo con quanti, come Margherita Marras, hanno osservato che la scrittura di Massa ha la capacità di andare oltre i confini, nella misura in cui si potrebbe sostituire la Sardegna con un qualsiasi altro luogo dal destino comune di subalternità e di umiliazioni secolari.10 Quest'ultimo è il denominatore comune delle opere di Savina Dolores Massa, come la stessa scrittrice ha osservato in un'intervista su Nazione Indiana del gennaio 2014, in cui parla «[del] canto degli umili, degli invisibili alla Storia, della fatica nella sopravvivenza».11 L'interesse per la condizione degli oppressi e per le varie manifestazioni della diversità, il rapporto centro-periferia, il valore cognitivo del viaggio, la memoria, l'importanza della parola e del racconto orale, la presenza del magico e del fantastico: sono tutti temi che permettono di ricollegare la scrittura di Savina Dolores Massa a quella degli autori postcoloniali, secondo una prospettiva di lettura che è stata già proposta per altri autori sardi, come per esempio Sergio Atzeni e Marcello Fois.12

 

§ IV. Una declinazione al femminile del realismo magico postcoloniale Torna al sommario dell'articolo

III. Atmosfere magiche in «Cenere calda a mezzanotte»

Vorremmo qui soffermarci su un aspetto particolare della scrittura di Massa - il suo indulgere ad atmosfere fantastiche e magiche - e sul suo romanzo Cenere calda a mezzanotte, in cui il legame con la cultura popolare sarda - una cultura intrisa di credenze magiche e superstizioni - è particolarmente forte, e nel quale l'influsso dell'oralità è evidente anche dal punto di vista linguistico, in particolar modo per quanto riguarda la sintassi.13
La presenza nelle opere di Massa di tracce di realismo magico è stata già più volte suggerita in varie analisi e recensioni dei romanzi della scrittrice.14 Nell'intervista su Nazione Indiana ricordata poc'anzi, alla domanda dell'intervistatore sul suo riconoscersi nella categoria del realismo magico, Massa si dichiara contraria alle etichette, e aggiunge:

«Se nella mia scrittura alcuni notano atmosfere sudamericane, è perché non hanno mai conosciuto Maria Carta, o Petronilla, o Rebecca, o Tommaso. E Peppina, l'hanno mai incontrata? Ebbene, io ho avuto questa fortuna, e giuro sul mio cane che non eravamo a Macondo, ma in Sardegna».15

Massa, dunque, piuttosto che ammettere una filiazione latino-americana nei suoi romanzi, evoca come realtà culturale di riferimento quella sarda. Infatti nella sua intervista del 2014 definisce il magico come «una verità assoluta in Sardegna» e come «la memoria dei racconti di [sua] nonna»,16 richiamando la presenza radicata della magia, della superstizione e del fantastico nel patrimonio culturale sardo.
Che una certa dimensione "magica" sia parte integrante delle tradizioni sarde è un dato comunemente noto, e sul quale esiste una vasta letteratura: possiamo ricordare, a titolo di esempio, gli scritti etnografici di Grazia Deledda (non a caso, un'altra donna), che raccolgono tradizioni, credenze magiche e superstizioni facenti parte del bagaglio culturale del popolo sardo, tra Ottocento e Novecento. Nell'introduzione a uno di essi, si può leggere:

«Alla fine del secolo scorso la Deledda non ebbe bisogno di grandi ricerche per mettere insieme la sua raccolta. Allora bastava guardarsi attorno e riferire il comportamento degli abitanti nelle varie occasioni, i contos che si raccontavano intorno al focolare, i proverbi e i modi di dire [...], sos frastimos che si pronunciavano in varie occasioni».17

Se dunque il magico fa parte della tradizione orale sarda, le ricerche etnologiche hanno fatto emergere come le leggende autentiche sarde fossero in realtà molto concrete: si trattava spesso di relitti di antichi culti pagani, radicati nella quotidianità e nella concretezza della vita agro-pastorale, una vita fatta di miseria, d'isolamento e di abbandono. Questo tipo di leggende, in cui la figura femminile è sempre stata centrale, ha poi subito una progressiva trasformazione soprattutto durante il periodo bizantino, quando si cercò di evangelizzare i territori dell'interno della Sardegna.

 

§ V. La parola delle donne come forma di riscatto Torna al sommario dell'articolo

IV. Una declinazione al femminile del realismo magico postcoloniale

Atmosfere magiche e visionarie scaturenti da un tessuto sociale e familiare di privazioni e di precarietà, nel quale le figure femminili sono capitali, fanno da sfondo al romanzo Cenere calda a mezzanotte, la cui scrittura - come osserva l'autrice - è «tirata fuori da zolle indurite dalla vita, la mia e quella di chi mi ha preceduta nel sangue simile al rosso che ho in vena».18
Si tratta di un romanzo corale ambientato nella piccola comunità rurale di Aristànis in cui i grandi protagonisti, come spesso accade nelle opere di Massa, sono delle donne. Ritroviamo le vicende della famiglia Mammaiòni, così chiamata per via del maiale che Bonaria, moglie di Antonio e madre di tre figli - Giomaria, Chicchino e Angelo (gli unici sopravvissuti di sette) - decide un giorno di accudire come «figlio d'anima» (italianizzazione della comune espressione sarda fill'e anima, usata per designare una sorta di figlio elettivo), tenendolo in casa e trattandolo come un figlio. Bonaria, creatura tanto taciturna quanto enigmatica, muore in seguito a un banale incidente - il taglio provocato da un vetro infetto - e il lutto che si crea nel piccolo nucleo familiare è l'occasione per innescare il meccanismo della rievocazione memoriale che diventa via via più complesso, in quanto i racconti risultano spesso incastonati l'uno dentro l'altro. Le vicende di Bonaria, che Antonio racconta attorno al focolare ai propri figli ancora piccoli, s'intrecciano con quelle della sorella cieca Peppina - la quale si lega profondamente a un gatto bianco, una presenza misteriosa comparsa all'improvviso in casa Mammaiòni e che sembra essere la reincarnazione di una creatura umana, «un bambino tornato a vivere nel mondo»,19 dotato della capacità di «insinuarsi nella mente di chi lo osservava» -20, con quelle della fedele amica Rebecca - che quand'era ragazza veniva chiusa in casa dalla madre nei periodi in cui soffiava lo scirocco, perché aizzava i bollenti spiriti degli uomini che le ronzavano attorno desiderosi di possederla -, e di altre due donne, già note ai lettori degli altri romanzi di Massa, Petronilla (insieme alla figlia Luisetta) e la taumaturga Maria Carta, colei che aggiusta ossa e ombrelli.
Ritroviamo poi la figura enigmatica di Angelo, il figlio più piccolo di Bonaria, definito come "divino" per la sua capacità di prevedere il futuro, tant'è che subito dopo la nascita, temendo che sia il diavolo incarnato, lo si porta in Chiesa per esorcizzarlo. Sarà proprio Angelo a vedere in sogno la morte del maiale Mammaiòni, in seguito alla quale l'animale viene bruciato e il cuore abbrustolito è l'unico organo a essere seppellito. La sacralità che avvolge l'immagine del cuore del maiale nel romanzo ci ricorda quella del fegato caldo del racconto Ferro e fuoco di Grazia Deledda (apparso sul Corriere della Sera il 10 marzo 1936), in cui il gesto di mordere il fegato ancora fumante dell'animale appena ucciso rendeva l'uomo immune dalla viltà. Infine, l'ultimo capitolo di Cenere calda a mezzanotte, Voci da un altro cortile, non è altro che un dialogo tra spiriti in un cimitero, laddove nell'architettura intera del romanzo lo sciamanesimo, gli spiriti e i fantasmi,21 le visioni, 22 il malocchio, 23 le metamorfosi e gli oggetti che diventano animati24 sono onnipresenti.
Tutti questi motivi rientrano all'interno di quell'ampio corredo che costituisce il realismo magico: in essi il sovrannaturale è accettato come facente parte del reale.25 Cenere calda a mezzanotte è un romanzo in cui la parola, la memoria e l'oralità acquistano una dimensione fondamentale. Una parola che generazioni di creature semplici, "invisibili alla Storia", destinate all'oppressione perpetua, trasmettono ai loro discendenti, secondo un meccanismo che si ripete sempre uguale producendo sensazioni d'immobilità. «Mammài mi ha imparato tutto il sapere cosa sua, tu lo impari ai figli tuoi»,26 recita Maria Carta nel romanzo. Si tratta di un sapere che non può dare la felicità, ma che in compenso indulge alla fantasia: «Cos'è la fantasia, Petronilla?, / Eh, tu ge la conosci bene, invece molte volte manca alla gente studiata e danarosa. Nasce di più nella gente che sa poco e tiene poco, immaginando si sforza di tappare i buchi».27
Ne scaturisce dunque l'idea che nel romanzo l'immaginazione abbia una funzione compensatoria: essa in primo luogo supplisce all'immobilità degli "Invisibili alla Storia", coloro che «non incontrarono mai qualcuno disposto a insegnare loro più del necessario per vivere: mangiare, ridere, dormire, figliare, soffrire, piangere brevemente i morti».28 A essi la Storia ha da sempre negato la parola, tacendo le loro esistenze di sottomissione e ingiustizie subite. Il racconto orale, un racconto ibrido, che mescola realtà e finzione, diventa allora uno strumento di riscatto. Serve a riscattare i silenzi e gli errori della Storia e a riempire «il ristretto mondo [di] due donne analfabete e in apparenza mediocri»29 come sono Maria Carta e Petronilla, abituate a spettegolare nei loro cortili. È così che per esempio Petronilla invita l'amica a inventare le ragioni della fuga di Giùllia, altro personaggio femminile del romanzo, di cui si racconta che da bambina scappò di casa per tre giorni. Maria Carta ignora il motivo della sua fuga, cionondimeno l'amica la esorta a ricorrere alla fantasia, laddove la realtà sia insufficiente: «se non fai lo sforzo la colpa è tua se [Giùllia] diventa immondezza»,30 osserva Petronilla, rivendicando in questo modo il diritto e la libertà - per persone come lei abituate alla servitù - di reinventare la storia e di modificarla a proprio piacimento, giacché, come osserva Katherine Roussos per i romanzieri del realismo magico postcoloniale, «la vérité historique étant indiscernable, elle est moins importante que la création de mythes alternatifs. [...] Nos vies se construisent non seulement dans le vécu mais aussi dans l'imaginaire».31
Esprime un anelito di libertà l'interrogazione che ritorna ossessivamente nel romanzo: «Perché questa sorte di nascere donna? E cosa volevi essere? Nuvola». Essere donna è dunque percepito come un tragico destino, che costringe la figura femminile a essere moglie e madre. Eppure in Cenere calda a mezzanotte chi si fa portavoce di forme di resistenza visionaria, attraverso la narrazione, sono proprio le donne. Si tratta di personaggi vitali e posti in primo piano. Sono figure dal carattere forte e deciso, rispetto alle quali i personaggi maschili appaiono spesso opachi. Questo è particolarmente evidente nel ritratto della coppia Bonaria-Antonio. Bonaria è colei che «conduceva bellezza al lavatoio» e «lasciava il calco di sé ovunque»,32 che riesce a imporre la propria eccentrica scelta di tenere in casa il maiale, nonostante i dinieghi del marito e non curandosi affatto degli scherni della comunità. Antonio è ritratto sempre in una posizione di soggezione rispetto alla moglie, ne è ammaliato e questo sentimento persisterà anche dopo la morte di lei. Altro personaggio femminile volitivo è Peppina, che abita in una casa "per fate", senza immagini di santi alle pareti, ma solo specchi. Peppina riesce a far innamorare di sé il suo padrone, è stata sul Continente, indossa le gonne corte e nonostante la sua cecità, percepisce chiaramente i cambiamenti sociali in atto: «prima si nasceva solo per essere servi fino alla morte. Si viveva dove il Cielo ci aveva deciso il posto e nessuno pensava che poteva diventare altro».33
Sognatrice è la figura di Petronilla, «la più bella di Donigàla: alta, schiena dritta, capelli biondi più del grano di buone annate del Sinis».34 Posseduta dal diavolo di Coittèdda, Petronilla disprezza il marito, si rifiuta di seguirlo quando questi si trasferisce altrove per lavoro, e si rifugia in un mondo di sogni e di rimpianti legati alla figura di Marco, pescatore di cui era innamorata e dal quale dovette separarsi. Petronilla vorrebbe evitare alla figlia Luisetta la sofferenza di un amore sbagliato, per questo inizialmente si oppone alla sua storia con Giomaria, giovane sregolato e libertino: «a nulla serve patire se la vita tua non è stata come la volevi»,35 risponde a Luisetta che le chiede perché abbia trascorso la sua intera vita a piangere. E infatti dapprima Luisetta fa prova di un carattere tenace, risoluta a non cedere a una condizione di sottomissione al potere maschile - quello di un marito che beve e che la tradisce -, ma poi finisce per piegarsi a un destino di abnegazione inesorabile per le donne:

«Pensò, Conosco solo gente miserabile. È la mia gente, la mia razza. Ho fatto peccato brutto di vanità desiderando di farmi più alta di loro. Giomaria mi vorrà bene, e se mi tradirà io non lo saprò. E se lo saprò starò zitta. Farò i figli e loro mi faranno compagnia quando il babbo sarà dentro un bar. Così deve andare, come succede a tutte le femmine serie».36

La divisione gerarchica in due sessi appare qui come naturale, e tale condizione costituisce il paradigma di qualsiasi situazione di dominazione.37

 

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V. La parola delle donne come forma di riscatto

L'esperienza di Luisetta è quella che suscita maggiore amarezza all'interno del romanzo. Cionondimeno - ed è questo uno degli aspetti più interessanti dell'opera - facendo dell'arte del narrare il suo fulcro, Massa non riduce le figure femminili al silenzio. Sappiamo quanto il ruolo della parola e della voce siano fondamentali nel discorso femminista: basti ricordare il celebre saggio di Spivak del 1988, Can the Subaltern Speak?, in cui si osserva come la donna subalterna del Terzo Mondo sia doppiamente ridotta al mutismo, in quanto vittima di una duplice se non triplice oppressione (di sesso, di razza, di classe). In maniera non dissimile, nell'universo dipinto da Massa, le figure femminili sarebbero egualmente condannate all'immobilità e al silenzio e a forme di oppressione molteplici, se non si desse alla parola visionaria delle donne un ruolo centrale all'interno del romanzo. È quanto fa la scrittrice proponendo la memoria orale femminile - una memoria ibrida, che mescola verità e finzione non senza indulgere al comico - come una forma di riscatto. In questo senso, rispetto al romanzo Ogni madre di Massa, per esempio, che con Cenere calda a mezzanotte condivide la tematica della subalternità e la presenza di molti personaggi femminili, il secondo romanzo risulta ben più complesso e di più ampio respiro, proprio in virtù del fatto che la dimensione realistica non è per niente preponderante e soffocante rispetto a quella magica. La scrittura visionaria vi appare come un modo per aprire «usci chiusi»,38 diventando luogo dell'incontro e della condivisione.
In questo, ci sembra che l'autrice Savina Dolores Massa raggiunga le stesse finalità degli scrittori postcoloniali, che si servono della memoria orale e del realismo magico come di strategie narrative che consentono di riscrivere la storia, mettendo in discussione le dottrine ufficiali, gli essenzialismi e le logiche binarie dominanti. Che il realismo magico di Massa sia più vicino all'immaginario tradizionale sardo che non alla linea sud-americana, è tutto sommato irrilevante: d'altronde oggigiorno, come si è visto, è difficile dare una definizione univoca di questa categoria. Quella cui qui si è aderito è una definizione generale di scrittura che trasgredisce i limiti tradizionali fra realtà e immaginazione.39 Al tempo stesso, di questa modalità narrativa Massa offre una declinazione al femminile, proponendo una "decolonizzazione delle donne" attraverso l'arte della parola che ci sembra originale e interessante, anche nella misura in cui apre nuove prospettive nell'ambito della letteratura sarda contemporanea: prospettive che - in linea con gli approcci degli studi postcoloniali - inseriscono quest'ultima in un più ampio sistema archipélique (per citare Édouard Glissant) di relazioni e di influenze. Vorremmo così concludere con una citazione tratta dall'introduzione alla raccolta Fiabe sarde di Sergio Atzeni, che ci sembra particolarmente appropriata al romanzo di Massa: «la fiaba riemerge, parla, si impone alla discussione, all'analisi. Per sapere, in Sardegna e nel mondo. Per parlare, in Sardegna e nel mondo. Per cancellare i silenzi e vivere di dialoghi».40

 

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Giugno-dicembre 2018, n. 1-2