Beatrice Laghezza
Fantasmi del fantastico e del femminile. Con qualche esempio di Ghost Story

 

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Sommario
I.
II.
III.
Dove si nascondono i fantasmi
I fantasmi del naturalismo
Un fantastico post-metafisico?


 

§ II. I fantasmi del naturalismo

I. Dove si nascondono i fantasmi

Che l'apparizione di un fantasma sia non solo un topos fondamentale del fantastico, ma anche una sua funzione strutturale, appare evidente in molte, più o meno celebri, definizioni del genere. Complice il fatto che la parola fantasma evoca uno spettro semantico particolarmente ricco e complesso: spirito o apparizione soprannaturale di un morto, immagine non corrispondente a realtà, idea illusoria, fantasia suggerita dall'inconscio, visione poetica. E se in italiano tutti questi significati si celano dietro il velo di un unico significante, in altre lingue - ad esempio in francese (fantôme, fantasme, revenant), in inglese (ghost, phantom, phantasm) o in tedesco (Gespenst, Geist) - una gamma più articolata di sinonimi traduce e sfuma la varietà delle accezioni in cui il termine può essere declinato.1
Roger Caillois individua nell'«apparition» «la démarche essentielle du fantastique»: «ce qui ne peut pas arriver et qui se produit pourtant»,2 nella stessa misura in cui un fantasma non può essere lì dove appare, perché non esiste - perché i fantasmi non esistono - eppure è là.
Per Tzvetan Todorov il fantastico è «un genre toujours évanescent» che «peut s'évanouir à tout instant».3 Basta sciogliere il dubbio tra spiegazione razionale e soluzione soprannaturale dell'evento che sembra infrangere le leggi del mondo, ed ecco che il fantastico, come un fantasma, scompare dinanzi agli occhi dei lettori per dissolversi nei generi limitrofi dello strano o del meraviglioso.
Nel tentativo di coniugare «les aspects formels du fantastique» con «les mécanismes et/ou les configurations du discours inconscient»,4 Jean Bellemin-Noël sostiene che «le fantastique est structuré comme le fantasme».5 Il genere riproduce in buona sostanza la retorica fantasmatica dell'io profondo, facendo riemergere sulla pagina scritta il «refoulé» e dando forma a ciò che è «irreprésentable, imprésentable».6 E non è soprattutto grazie alla copertura di un sudario che può manifestarsi e rendersi visibile la presenza incorporea dei fantasmi?
Partendo dall'ipotesi che, «pour séduire, l'œuvre fantastique se doit de décevoir», Irène Bessière afferma, dal canto suo, che il genere «se construit sur l'affirmation du vide» e «procède par ellipse».7 Ma vuota, invisibile ed evanescente è anche la sostanza ectoplasmatica di cui sono fatti gli spiriti, al punto che, se si cerca di afferrarli, si resta inevitabilmente delusi.
Rosemary Jackson interpreta invece il fantastico in chiave psicoanalitica e sociologica definendolo "literature of subversion" e, sull'esempio di alcune intuizioni geniali di Jean-Paul Sartre,8 avanza l'ipotesi che il genere tenda progressivamente ad abbandonare le «supernatural regions» per descrivere la «human condition»9 nei suoi caratteri di «emptiness», «absence, lack, […] non-seen, […] unseeable».10 Per Jackson è in definitiva il mondo reale a essere divenuto fantomatico e spettrale.
E se Charles Grivel definisce il fantastico un genere "schermo" («écran») sulla cui superficie viene rappresentato «ce va-et-vient de l'invisible au visible, du visible à l'invisible»,11 così che la «position philosophique du fantastique […] prend les formes fugitives du fantôme»,12 per Denis Mellier lo spettro - insieme al doppio e al vampiro - è uno degli «agents efficaces de cette propension réflexive»13 che caratterizza il genere:

«Le spectre est bien plus une fonction qu'un personnage: quelle que soit sa nature (chose, être-là, hors-là, invisible, tangible), l'affrontement auquel il contraint pour qui entend le lire marque en transparence la difficulté de l'écrire».14

«[…] comment la contiguïté problématique de choses, d'êtres, de possibles et d'impossible dont procède simplement tout fantastique peut-elle parvenir à s'exprimer sous la forme d'une continuité, celle du texte, du récit, du langage? […] Comment ce qui est là, sans être un objet de ce monde, est-il là cependant?»15

Chiudo questo preambolo teorico, forse troppo sintetico e inevitabilmente insufficiente a dar conto della complessità del problema, suggerendo l'ipotesi, tra l'altro evocata da Daniel Sangsue in un saggio di "pneumatologie littéraire" pubblicato nel 2011, che i fantasmi frequentino e infestino, oltre al fantastico, anche altri generi letterari. Sangsue cita in proposito la poesia, il teatro e l'autobiografia, ma io non escludo neppure l'idea che i fantasmi possano invadere la riflessione filosofica su cosa sia il femminile:

«[…] si le fantastique ne se réduit pas aux fantômes, les fantômes ne s'épuisent pas non plus dans le fantastique».16

La tesi che, con tutte le cautele del caso, vorrei avanzare, piegando la citazione di Sangsue a intenzioni che non le appartengono, avrebbe dunque la seguente premessa: come nel fantastico la categoria del fantomatico - nel senso di spettrale - riunisce quegli «objets» definiti da Clément Rosset «équivoques», poiché di essi «on peut dire à la fois qu'ils existent et qu'ils n'existent pas»,17 negli studi di genere la categoria del femminile sembra chiamata a raccogliere e a esprimere le esistenze residuali, eppure vive e presenti, di quei soggetti tenuti per invisibili a causa di una qualche forma di esclusione - e ciò indipendentemente dal fatto che questo esilio dal visibile e dall'esistente si eserciti in nome del sesso, della razza, della religione, della classe sociale, o di qualunque altro pretesto. Nel suggerire, senza mai affermarlo esplicitamente, che le femmes siano dei fantômes, Hélène Cixous puntualizza tuttavia che la Medusa protagonista del celebre saggio Le Rire de la Méduse (1975) non si inscrive nel mondo dei viventi come una semplice revenante risvegliatasi dal passato e della morte. La "venuta alla scrittura"18 invocata da Cixous per il soggetto femminile - e per gli esclusi da ogni forma di apartheid - comporta piuttosto che le femmes arrivino a manifestarsi giungendo dal futuro di un'identità che è ancora da conquistare, anzi da inventare, quella «de l'autre femme».19 «Les voilà qui reviennent, les arrivantes de toujours»,20 invisibili, silenziose, anonime e assenti persino a se stesse, perché non possono concepirsi che "a venire".21 E se i fantasmi e gli spiriti del fantastico rivelano la presenza incorporea di cui sono fatti agitando il lenzuolo che li avvolge, o materializzandosi nella sostanza lattescente che esce dal corpo dei medium in stato di trance, le femmes di Cixous affermano la propria esistenza scrivendo «à l'encre blanche», "con inchiostro bianco".22 E credo valga la pena ribadire che la dimensione féminine e materna di questa écriture che sa di miele e di latte non è affatto vincolata al sesso biologico di chi scrive, tant'è che Cixous utilizza le metafore della languelait (lingualatte)23 e dello scrivere con il corpo24 per definire sia la lingua di Colette, Marguerite Duras e Clarice Lispector, sia quella di Shakespeare, Genet e Kleist.25 Nel saggio A più voci. Filosofia dell'espressione vocale (2003), Adriana Cavarero descrive l'écriture féminine di Cixous come «una scrittura fluida, ritmica e debordante, che rompe le regole del simbolico facendo esplodere la sintassi»:26 «meno linguaggio che musica, meno sintassi che canto di parole»,27 essa infrange la gerarchia «che contrappone la parola alla scrittura»,28 producendo «un senso che non coincide più con il dominio fallo-logocentrico del significato, bensì sgorga dal movimento che combina le parole secondo la legge del ritmo, dell'eco e della risonanza».29 Per tornare al fantastico, e più in particolare al fantastico italiano, il romanzo Aracoeli (1982) di Elsa Morante può in tal senso offrirci l'esempio di una scrittura che rivisita i temi della duplicità e dello sdoppiamento cari alla tradizione ottocentesca del récit fantastique, modulandoli sulle tonalità pulsionali di una voce femminile nell'accezione intesa da Cixous. Il protagonista Manuele è, difatti, un Narciso disadattato che proietta nel confronto con un doppio fantasmatico, l'eroico alter ego Manuel, il desiderio di ritrovare il linguaggio «intriso di miele e di saliva»30 con cui gli parlava la madre Aracoeli prima di abbandonarlo. D'altro canto, l'idea che occorra scrivere con il corpo, e che il corpo sia, esso stesso, un testo, non può che rievocarci l'autore di un altro romanzo italiano che, come Aracoeli, tematizza le figure dell'identità sdoppiata nell'ottica della differenza sessuale - sebbene, in questo caso, con l'intenzione esplicita di liquidare quella letteratura borghese rappresentata, fra molte altre, anche da due opere che sono al tempo stesso due capisaldi del fantastico europeo e occidentale: Il Sosia (1846) di Dostoevskij e The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1886) di Stevenson, entrambi espressamente citati nel testo in questione. Sto ovviamente alludendo all'autore «in carne e ossa» Pier Paolo Pasolini, inscritto in quanto persona «reale»31 in quel poema transgenerico che è Petrolio (1992, postumo), dove i fantasmi - nel senso di fantasmes - dello sdoppiamento e della metamorfosi sessuale di Carlo mascherano le ambiguità del potere politico e la sua collusione con il sistema delle arti e della cultura.32 Un tema, quello del potere, che in realtà non è estraneo neppure al romanzo di Morante, dato che il rapporto di dipendenza che vincola Manuele al fantomatico Manuel riflette quelle inconscie dinamiche sadomasochiste che nutrono il substrato psicologico dei regimi totalitari.33
L'aver riunito sotto la medesima categoria del femminile il romanzo di una scrittrice, Elsa Morante, e quello di uno scrittore, Pier Paolo Pasolini, credo però necessiti di qualche riflessione ulteriore. Il tentativo di definire cosa sia, o cosa non sia, il femminile - e di conseguenza cosa sia, o cosa non sia, il fantastico femminile - presenta in effetti almeno altrettanti inconvenienti di quelli che sorgono quando si cerca di definire cosa sia, o cosa non sia, il fantastico tout court. E se le definizioni del fantastico si moltiplicano tra gli specialisti della materia sino a toccare il paradosso dell'indefinibilità,34 quelle del femminile appaiono minacciate tanto dal fantasma dell'insondabile che, secondo Cixous, sbarra l'accesso al presunto «Continent noir»35 della sessualità femminile, tanto dallo spauracchio che la filosofa e scrittrice Françoise Collin denomina «le spectre du naturalisme».36 L'enigma indecifrabile al quale è ridotta la femminilità nella vulgata freudiana consente quindi di travestire la categoria del femminile con i panni del Coco, variante spagnola di quella legione di Babau, Uomini Neri e mangiabambini che, rispetto ai fantasmi tradizionali, non gode per Clément Rosset neppure del privilegio di una vaga rappresentazione, «ce qui le rend [il Coco] d'autant plus inquiétant: car si le peu visible inquiète, l'invisible peut inquiéter encore davantage».37 E ne è ben consapevole Francisco Goya, commenta Rosset, quando nell'incisione Que viene el Coco (1799) sceglie per l'appunto di non ritrarre l'aspetto della creatura evocata per spaventare i bambini, limitandosi a raffigurarla di spalle e coperta di stracci. D'altro canto, mentre i seguaci dello spiritismo e della parapsicologia si adoperavano, a cavallo tra Otto e Novecento, per studiare la sostanza degli spiriti, filosofi e intellettuali di ambo i sessi si sono spesso interrogati sulla natura del femminile decretando alternativamente o che esso non si differenzia dal maschile poiché, sull'esempio offerto da Platone nella Repubblica, nel Timeo o nel Simposio, i due sessi partecipano della medesima natura, o che, in continuità con le tesi formulate da Aristotele nella Politica e nella Generazione degli animali, uomini e donne hanno nature differenti.38

 

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II. I fantasmi del naturalismo

Come sappiamo, neppure il pensiero femminista si dimostra capace di resistere alla tentazione del naturalismo, per quanto nelle posizioni speculari - e forse complementari - dell'universalismo e dell'essenzialismo.39
Figlio dell'egualitarismo illuminista e del marxismo, l'universalismo considera difatti il femminile come il prodotto socio-culturale dell'oppressione patriarcale, e rivendica l'accesso al neutro inseguendo il fantasme di una sessualità indifferenziata, modellata sulla società senza classi teorizzata da Marx. Se consideriamo la questione del fantastico femminile da questa prospettiva, siamo giocoforza portati a sancirne la non sussistenza poiché, se non esistono distinzioni di genere, non esistono neppure differenze tra il fantastico praticato dagli uomini e quello frequentato dalle donne, se non differenze di natura socio-editoriale legate alla minore attenzione che la storia letteraria ha sinora riservato alle seconde rispetto ai primi, e che una critica di tipo militante dovrebbe contribuire a dissolvere. Alla corrente universalista Françoise Collin obietta tuttavia che, se è possibile quanto meno immaginare una società senza classi e l'abolizione del rapporto capitale / lavoro, più difficile è ipotizzare l'annullamento della morfologia sessuale:

«"Il n'y a qu'un sexe" signifie [...] "il n'y a pas de sexes", ou même il n'y a pas de corps».40

Altrettanto illusorio è a mio avviso pensare che autori e autrici trascendano a priori nella pratica della scrittura la questione della materialità corporea, da intendersi, ovviamente, non come il riflesso dell'identità biologica dello o della scrivente, ma come la relazione in divenire con la corporeità, e dunque anche con la sessualità, che la voce narrante problematizza nel testo in maniera indipendente, è bene ripeterlo, dal sesso di colui o colei che scrive, a meno di non voler restare intrappolati nelle maglie di uno sterile biografismo. La casalinga del romanzo Nascita e morte della massaia (su «Tempo», 1941-1942, poi in volume nel 1945) di Paola Masino non riesce ad affrancarsi neanche nell'oltretomba dal suo destino di «foemina dell'Homo sapiens»41 e «Mulier providentialis»:42 «la condanna alla materialità della vita»43 le impone di uscire ogni notte dalla tomba sotto forma di fantasma per lucidare la cappella in cui è seppellita insieme al marito. Mentre il mezzo-morto Signor Münster dell'omonimo racconto (1943) di Alberto Savinio non trova altro espediente, per nascondere l'irreversibile stato di decomposizione in cui versa il proprio corpo, che coprirsi di abiti femminili in omaggio alle figure dell'ermafrodito e dell'androgino care al suo autore.
Ai fantasmi egualitari dell'universalismo la corrente essenzialista, sorta negli anni Settanta in seno alla riflessione che intreccia linguistica e psicoanalisi, contrappone quei fantasmi di differenza fondati sull'idea che gli uomini e le donne concepiscano diversamente la corporeità, ragion per cui la rappresentazione del femminile non può articolarsi sulla base del significante fallico, erroneamente giudicato nella dòxa psicoanalitica il referente comune di ambo i sessi. Il femminile sarebbe al contrario dotato di una specificità tale da suggerire l'idea che la donna incarni una forma distinta e autonoma di declinazione dell'umanità, una configurazione identitaria radicalmente differente da quella maschile e, sotto certi punti di vista, superiore perché in grado di veicolare, tramite l'esperienza della procreazione, una relazione con l'altro che trascende i rapporti di dominazione e potere tipici della cultura patriarcale. Nell'ambito della creazione letteraria, l'écriture féminine genererebbe di conseguenza un processo di simbolizzazione originale e differenziato da quello maschile, la cui specificità si esprimerebbe tanto nei contenuti quanto nello stile delle opere licenziate dalle donne. È a questa corrente del pensiero femminista che, nella critica letteraria italiana, si ispira la riflessione sul fantastico femminile come luogo testuale in cui trova espressione non il perturbante, ma "la" perturbante, cioè la variante femminile della sensazione unheimlich44 descritta da Freud che, quando viene maneggiata dalle scrittrici, sostituisce alla relazione angosciosa e inquietante causata dal riaffiorare di complessi rimossi e modi di pensare superati dalla razionalità adulta, un atteggiamento di empatia nei confronti dell'alterità. Non entrerò nel merito degli esiti critici prodotti da quest'approccio, del quale sono disposta ad ammettere la validità solo a patto di non considerarli distintivi del fantastico prodotto dalle donne, e di riconoscerne l'eventuale applicabilità anche a opere scritte da uomini.45 Quello su cui invece mi interessa riflettere è l'uso strumentale di alcune fonti che in questo tipo di letture viene proposto.
In un saggio del 1996 intitolato Irruzioni del semiotico nel simbolico. Appunti sul fantastico femminile46 Monica Farnetti commenta le ricerche sul linguaggio e sul discorso condotte da Julia Kristeva e confluite nei due volumi La révolution du langage poétique (1974) e Polylogue (1977). Per Kristeva, esponente di spicco del femminismo essenzialista rivisitato in una personale chiave eterodossa,47 il linguaggio poetico delle avanguardie esprime l'irruzione dirompente e demistificante della pulsione semiotica nell'ordine simbolico dell'enunciazione e della significazione. Partendo da queste tesi Farnetti «approd[a] a una definizione del fantastico femminile come irruzione del semiotico nel simbolico […] e come sfida al linguaggio»,48 in cui «rappresentazioni legate allo stato depressivo, malinconico o psicotico, come pure all'esperienza onirica» appaiono «esperienza elettiva»49 del fantastico scritto da donne, tali dunque da poterlo distinguere dal fantastico di penna maschile. È noto che la complessa analisi del linguaggio formulata da Kristeva nei due saggi appena citati attraversa la riflessione sulla differenza sessuale. Ma quando Kristeva parla di femme non mi pare si riferisca semplicemente, quanto meno non unicamente, all'individuo di sesso femminile, come invece propone Farnetti nel momento in cui prova a definire il fantastico femminile nel senso di un fantastico scritto da donne. Che cosa intende invece Kristeva per femme?

«Se croire "être une femme", c'est presque aussi absurde et obscurantiste que de se croire "être un homme". Je dis presque parce qu'il y a encore des choses à obtenir pour les femmes: liberté de l'avortement et de la contraception, crèches pour les enfants, reconnaissance du travail, etc. Donc, "nous sommes des femmes" est encore à maintenir comme publicité ou slogan de revendication. Mais, plus profondément, une femme cela ne peut pas être: c'est même ce qui ne va pas dans l'être. A partir de là, une pratique de femme ne peut être que négative, à l'encontre de ce qui existe, pour dire que "ce n'est pas ça" et que "ce n'est pas encore". J'entends donc par "femme" ce qui ne se représente pas, ce qui ne se dit pas, ce qui reste en dehors des nominations et des idéologies. Certains "hommes" en savent quelque chose aussi, c'est même ce que les textes modernes dont nous parlions tout à l'heure n'arrêtent pas de signifier: d'éprouver les deux bords du langage et de la socialité - la loi et sa transgression, la maîtrise et la jouissance -, sans que l'une soit pour les mâles et l'autre pour les femelles pourvu qu'on n'en parle pas. De ce point de vue, certaines revendications féministes paraissent ressusciter le romantisme naïf, une croyance à l'identité (envers du phallocratisme), si on les compare à l'expérience de l'un et l'autre bord de la différence sexuelle qu'on trouve dans l'économie du discours chez Joyce, Artaud, ou dans la musique moderne - Cage, Stockhausen. Prêter attention à cet aspect du travail de l'avant-garde qui dissout les identités, y compris les identités sexuelles, et essayer, dans ma formulation théorique, d'aller à l'encontre des théories métaphysiques qui censurent ce que je viens d'appeler une "femme", c'est ce qui fait, je pense, que ma recherche est celle d'une femme».50

Se il femminile è anche per Kristeva, come per Cixous, una categoria flessibile nella quale trovano posto e facoltà di esprimersi soggetti marginali e individualità non riconosciute, forme dell'essere e del sentire non ammesse all'esistenza dall'ideologia dominante o non identificate perché prive di nome, si potrebbe concludere, ragionando per assurdo sull'identità sessuale dei generi letterari, che ogni testo fantastico è sempre un testo "femminile". Esso si configura, infatti, come il tentativo, spesso fallimentare, di "dire" ciò che non è "dicibile",51 di portare alla coscienza, e dunque alla verbalizzazione, impulsi rimossi e istinti inconfessabili, di annettere all'ordine del simbolico il magma indifferenziato del semiotico e di conferire un senso a fatti che sono in realtà inesplicabili, in quanto veicolo di una logica altra e irriducibile a quella della ragione, una logica che, prendendo in prestito la retorica dell'inconscio illustrata dallo psichiatra e psicanalista cileno Ignacio Matte Blanco, potremmo definire simmetrica o antilogica.52 La narrazione che l'autore - o l'autrice - di racconti fantastici tenta di costruire risulta quindi, alla resa dei conti, sempre inceppata, sempre balbuziente, perché quello del fantastico è, per definizione, un discorso reticente o elusivo, il cui finale si rivela programmaticamente imperfetto. Così, per far fronte a quella che Lucio Lugnani definisce l'inesplicabilità53 del fantastico, intervengono, allo scopo di giustificarla, «stati perturbatori dell'ottica e del principio di realtà che spalancano le soglie d'altre dimensioni a prezzo di una perdita secca di credibilità [...]: si va dall'ubriachezza all'ebbrezza, all'euforia, al delirio, all'estasi da droga, al sogno, alla follia, all'ipnosi, alla catalessi, all'incantamento e al semplice guasto o impedimento d'uno o più d'uno dei sensi».54 Le condizioni psico-fisiche elencate da Lugnani come distintive dei personaggi che nei testi fantastici si ritrovano a confrontarsi con eventi soprannaturali sono, con qualche aggiunta, le stesse indicate da Farnetti per descrivere lo stato in cui versano le eroine del fantastico femminile. E difatti, simili esperienze di irruzione del semiotico nel simbolico riguardano, oltre che personaggi di entrambi i sessi, le scritture fantastiche di scrittori e scrittrici: la loro presenza testuale non consente quindi in alcun modo di porre un discrimine tra le versioni femminili e quelle maschili del genere.55
In due articoli successivi a quello del 1996 e raccolti, il primo in un volume sul fantastico (2002) curato da Giorgio Rimondi, il secondo in una miscellanea di contributi tutti dedicati alla teoria del(la) perturbante (2003),56 Farnetti illustra più estesamente i modelli filosofici di riferimento per la sua definizione di un fantastico gendered e commenta, tra i vari saggi citati, anche due celebri riletture del saggio freudiano Das Unheimliche (1919), proposte rispettivamente da Cixous e Kristeva.
Nel contributo intitolato La fiction et ses fantômes, uscito nel 1972 su «Poétique», Hélène Cixous rimprovera a Freud di aver appiattito la sua interpretazione del racconto di E.T.A. Hoffmann Der Sandmann (L'uomo della sabbia in traduzione italiana), limitandosi all'analisi del complesso di castrazione di cui sarebbe vittima, secondo l'autore del Perturbante, il protagonista Nathaniel. Conferendo maggiore risalto a questo tipo di perturbante, prodotto dal processo di rimozione, secondo Cixous Freud avrebbe liquidato in maniera frettolosa e un po' sospetta le altre forme di Unheimliche che compaiono nel testo di Hoffmann, e in particolare quella scatenata dal personaggio della bambola meccanica Olimpia, la cui apparizione restituirebbe credito al pensiero superato che oggetti privi di vita siano in realtà animati. Dopo aver osservato che Freud espunge dalla sua interpretazione dell'Uomo della sabbia tutti gli artifici retorici del racconto hoffmanniano e la complessa teatralità della sua narrazione, Cixous rilegge quindi Das Unheimliche mettendone in luce la tormentata coerenza interna e cercando di dimostrare in che modo Freud svolga, all'interno della sua riflessione estetica di matrice psicoanalitica, un'operazione di scrittura finzionale e romanzesca, ribattezzata con l'espressione «théorie de la fiction».57 Credo che la ricezione del saggio freudiano sul perturbante sia oggi imprescindibile dall'interpretazione suggestiva che ne offre Hélène Cixous. Ma l'uso che ne propone Farnetti per dotare di un appiglio teorico la sua definizione del fantastico femminile a me pare riduttivo, nella misura in cui fa dire a Cixous, complice un errore di traduzione dal francese all'italiano, che la sensibilità di Freud nei confronti del perturbante differisce dalla sua, cioè dalla sensibilità di Cixous (secondo Farnetti), soltanto perché Freud è un uomo, mentre Cixous è una donna: di conseguenza, la sensibilità che essi manifestano nei confronti dell'Unheimliche non può non essere condizionata dall'identità sessuale intesa in termini strettamente biologici.58
Ugualmente tendenziosa a me sembra l'interpretazione suggerita da Farnetti del capitolo di Étrangers à nous-mêmes (1988) in cui Kristeva conclude la sua riflessione sulla figura dello straniero analizzando, per l'appunto, il saggio Das Unheimliche. Dopo aver condensato nel confronto con la morte, con il femminile e con la pulsione le tre principali fonti del perturbante freudiano, Kristeva osserva che, stranamente, nel Perturbante non si parla mai di stranieri, e questa assenza si verifica nonostante il fatto che uno dei significati dell'aggettivo unheimlich sia proprio "straniero". La reticenza freudiana acquista però in Étrangers à nous mêmes un senso ulteriore che, ci spiega la filosofa, forse neppure l'autore di Das Unheimliche era del tutto consapevole di sottintendere: Freud non parla esplicitamente di stranieri perché vuole suggerire che l'estraneità è dentro di noi, nel nostro io «désintégré[…]».59 E allora, se lo straniero è in me, se lo straniero è in ciascuno di noi, io sono lo straniero e nessuno è straniero. Mentre però Kristeva legge il saggio freudiano come una lezione per imparare a tollerare nello straniero l'estraneo che abita dentro di noi, Farnetti ridimensiona l'effetto perturbante della morte e della pulsione e, mettendo l'accento sul femminile, afferma:

«[…] che il soggetto femminile, l'Altro per antonomasia nella cultura d'Occidente, sia "familiare" all'alterità fino a coincidere con essa […]. E che come tale non sia indegno di portare quel titolo - "la perturbante" - nel quale si sintetizza e collassa il cortocircuito dell'Unheimliche freudiano, dell'"estraneità che è in noi" ovvero dello "straniero" che abita la "casa". Paradosso che il soggetto femminile conosce e pratica in ogni istante della sua esistenza, e sul quale fonda la sua stessa definizione».60

I limiti di un approccio interpretativo fondato sulla differenza a me sembrano numerosi: in primo luogo, la nozione di genere è senza dubbio più fluida e più aperta di quella di sesso, per cui le linee di confine tra il maschile e il femminile sono probabilmente meno nette di quanto non suppongano le seguaci dell'essenzialismo - comprese Farnetti e le altre studiose del(la) perturbante -, ragione in più per scartare l'idea che esse possano essere fissate in astratto sulla base dell'appartenenza biomorfologica. In secondo luogo, l'idealizzazione della specificità femminile rimuove aprioristicamente la possibilità che anche le scritture maschili siano marcate dalla questione della differenza. E invece, se Anna Maria Ortese racconta l'iniziazione del conte Aleardo alla «fraternità»61 con l'abiezione incarnata nel corpo di un'iguana (L'Iguana, 1965), nella Pietra lunare (1939) Tommaso Landolfi narra la fascinazione di Giovancarlo per la diversità bestiale della fanciulla-capra Gurù. Certo, è innegabile che la presenza di alcune tematiche legate specificatamente alla differenza di genere si riscontri con più frequenza in testi scritti da donne. Ma sono convinta che questo dipenda dal fatto che, per una serie di ragioni di ordine storico-culturale e sociale, gli uomini si identificano con la propria specificità sessuale - e mi chiedo se non sia più opportuno dire eterosessuale - in maniera forse tendenzialmente meno problematica delle donne, di conseguenza meno incline a divenire oggetto di trattazione letteraria. E tuttavia ciò non implica affatto che gli scrittori siano - per natura o per cultura - meno sensibili delle scrittrici ai temi della differenza, non esclusa quella di genere. Infine, così come credo che la pratica della scrittura non si sottragga mai al problematizzare le dimensioni dell'immanenza e della materialità del soggetto - neppure quando la questione non affiori in termini espliciti sulla superficie dei testi -, nella stessa misura penso che le categorie della corporeità, della sessualità e della differenza siano suscettibili di impregnare la materia e la forma delle opere non diversamente da variabili di altra natura: ad esempio l'adozione della lingua materna o al contrario la scelta di una lingua seconda, l'appartenenza a una specifica cultura, a un'epoca o a una classe sociale, la confessione di un credo religioso o la professione di un'ideologia. Nell'assenza di una riflessione parallela su cosa eventualmente significhi nell'ambito del fantastico la categoria del maschile, il voler offrire un'interpretazione del fantastico di penna femminile riducendolo alla sola componente gender rischia pertanto, non solo di amputarne la complessità, ma anche di avallare l'idea che le scrittrici frequentino il repertorio del soprannaturale e si inscrivano nella tradizione del genere innanzitutto perché donne, e non soprattutto in quanto scrittrici, finendo paradossalmente con il marginalizzarne l'opera. Parlando di scrittura femminile e della propria esperienza di scrittrice e filosofa, Françoise Collin afferma con piglio provocatorio: «je suis une femme mais je n'est pas une femme».62 Insomma, nell'espressione "fantastico femminile", l'epiteto "femminile" rischia di occultare il fantastico sotto il fantasma di un attributo che deve forse restare accessorio affinché l'opera artistica e letteraria delle donne possa finalmente aprire un varco in quello spazio del simbolico dal quale esse sono state per lungo tempo escluse, e contribuire alla sua ridefinizione innovando le sorti narrative del genere.63

 

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III. Un fantastico post-metafisico?

L'ideale sarebbe allora riuscire ad adottare un approccio di analisi e interpretazione dei testi che tenga conto di entrambe le dimensioni e in cui l'elemento del femminile non eclissi il fantastico e il fantastico non rimuova il femminile. Se ragioniamo in questa prospettiva, possiamo individuare degli strumenti utili alla ricerca in quella corrente degli studi di genere nota come femminismo post-metafisico, perché raccoglie l'eredità filosofica di Martin Heidegger e la sua critica al logocentrismo della civiltà occidentale filtrandola attraverso il pensiero della "differenza" di Jacques Derrida e la nozione del "divenire minoritari" di Gilles Deleuze e Félix Guattari.64 A differenza dell'universalismo e dell'essenzialismo, che puntano a definire il femminile in un ottica di identità sostanziale, il femminismo post-metafisico di Derrida, Deleuze, Guattari, Hélène Cixous65, Rosi Braidotti66 e Françoise Collin - per citare alcuni dei suoi rappresentanti - si sottrae al giogo dell'opposizione dialettica insita nel confronto con il maschile e rivendica l'utopia di un devenir femme del pensiero, del linguaggio, della scrittura e della creazione che si emancipi dal sesso di chi pensa, parla, scrive e crea. Il femminile diventa in quest'ottica una categoria interpretativa dell'esistente e una modalità di relazione con l'altro che problematizza la questione della differenza - in primis quella sessuale - non assegnandole un valore deduttivo e stabilito una volta per tutte, ma negoziando caso per caso la sua portata per scongiurare il rischio di operazioni gerarchizzanti. Nell'assumere una dimensione prettamente ermeneutica, il femminile acquista in sostanza la forma di un attributo costitutivo dell'umano nella sua interezza, dunque condiviso dagli uomini e dalle donne e sufficientemente elastico da potersi ridefinire a seconda delle necessità e in funzione della posta in gioco. E per sfuggire alle insidie di quelle derive postmoderniste che confondono la pluralità del senso con la sua indefinibilità, il carattere indecidibile che qualifica questa possibile declinazione del femminile deve necessariamente coniugarsi con una propensione a identificarsi con chi o ciò che è debole, emarginato o minoritario non per il semplice effetto di un'esclusione, ma per il frutto di una scelta, per il rifiuto di omologarsi a una cultura della maggioranza che è il riflesso del sistema di potere che l'ha prodotta.
Se ora volessimo provare ad adottare queste teorie per interpretare qualche storia di spettri, potremmo ad esempio rileggere un racconto del 1940 intitolato Famiglia («Tempo», 1940, poi confluito in Racconto grosso e altri, 1941), nel quale Paola Masino mette in scena un tragicomico nucleo familiare di fantasmi poliglotti che abitano abusivamente nell'appartamento di un caseggiato popolare. Nonostante le apparenze, si tratta di spettri con tanto di pedigree, poiché, prima di diventare fantasmi, erano nientemeno che Lisabetta da Messina, protagonista della celebre novella di Boccaccio (Decameron, IV, 5), Alonso Quijano, vero nome del Don Chisciotte di Cervantes, Charlotte, ovvero la Lotte di cui si innamora il giovane Werther di Goethe, e il poeta François Villon. Solo un bambino riesce a stabilire un contatto con loro, ma ciò non impedisce che essi siano scacciati dal condominio in quanto ospiti sospetti e indecorosi. Nell'uscire per sempre dal cortile del casamento, il signor Francesco, alias François Villon, recita i primi versi della ballata Frères humains ed esorta i condòmini, che osservano la fuga della famigliola fantasma nascosti dietro i vetri delle finestre, a provare pietà per loro, in nome della comune condizione di spettri. Perché fantasmi rischiano di diventare gli uomini che bandiscono dalla loro vita la magia del fantastico e l'utopia della poesia:

«"Freres humains qui après nous vivez,
n'ayez le cuers contre nous endurcis,
Car, se pitié de nous povrez avez,
Dieu en aura plus tost de vous mercis"
Con queste parole entrava lenta nel cortile la notte, e con la notte il vuoto dolore umano».67

In questo racconto metafantastico Masino vuole forse suggerire che l'orrore della «non significazione»68 a cui sembra destinata l'esperienza umana, in quel momento infestata dagli spettri del secondo conflitto mondiale, sia imputabile proprio alla scomparsa del soprannaturale e alla "perte d'auréole" della poesia. Basterà aspettare una quarantina d'anni perché Giorgio Manganelli narri nei "cento piccoli romanzi fiume" di Centuria (1979) come siano ridotti i personaggi della neonata epoca postmoderna (il libro esce nello stesso anno in cui Jean-François Lyotard pubblica La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir). Il protagonista del racconto Quarantuno è un fantasma annoiato e tormentato da kafkiane beghe burocratiche, del quale nessuno parla più neanche «come oggetto di superstizione».69 Lo spettro della centuria Quarantasei, abituatosi dopo anni vissuti nell'angoscia, alla solitudine che gli impone la sua condizione, piomba nell'ansia quando sospetta di ricevere la visita dei suoi doppi, un «fantasma Nemico» e un «fantasma Amico»,70 sopraggiunti a pacificare la divisione della sua coscienza. Il protagonista della storia numero Cinquantaquattro non trova altro rimedio per sfuggire al proprio stato di alienazione che sfidare il nulla e «generare un fantasma da se medesimo, quasi per gravidanza».71 Mentre l'inquilino della centuria Cinquantotto si vede costretto ad abbandonare l'appartamento in cui vive per sottrarsi all'intollerabile silenzio delle creature che l'hanno occupata:

«Egli sa che non può continuare a vivere in una casa infestata a quel modo, ma se almeno potesse parlare con quelle immagini, quella misteriosa occupazione avrebbe un senso, e forse un qualche senso ne verrebbe anche alla sua vita».72

Insomma, se i fantasmi manganelliani consumano la loro umbratile esistenza nella noia e nella solitudine, i vivi non godono certo di una sorte migliore, né troppo diversa, alienati come appaiono nello «smarrito abitacolo»73 della postmodernità suicida che lo scrittore immortala nel risvolto di copertina del libro.
Siamo chiaramente nell'orbita di quel «fantastique social» descritto per la prima volta da Pierre Mac Orlan come «le produit de la grande aventure industrielle»74 e contraddistinto dal carattere inquietante che assumono il progresso tecnologico, il diffondersi di un'economia capitalista, nonché i cambiamenti sociali e psicologici che essi introducono nella vita quotidiana. In un articolo del 1928 apparso su «Les Annales» Mac Orlan scrive - e nella sua voce si coglie una singolarissima coincidenza con il Walter Benjamin autore dell'incompiuto Passagenwerk, la cui redazione comincia appena un anno prima, nel 1927, e che dunque Mac Orlan non poteva conoscere:

«Les fantômes qui habitent l'ombre de notre temps sont les déchets de l'activité humaine».75

E nient'altro che scarti dell'umanità sono sia gli spettri della famiglia Pada, della quale Masino racconta le comiche e mortificanti vicissitudini condominiali, sia i fantasmi abulici e frustrati di Manganelli. Nella prospettiva ermeneutica che adotta il femminismo post-metafisco, la condizione di rifiuto ed emarginazione che questi personaggi incarnano li renderebbe però non semplici vittime del sistema, ma attori di una esclusione che testimonia l'impossibilità ontologica di una loro assimilazione e un esempio di insubordinazione allo status quo, silenziosa eppure ostinatamente renitente. Di conseguenza, in quest'ottica di recupero e rifunzionalizzazione fantastica delle figure che simboleggiano un esilio dalla cultura dominante - ottica che a mio avviso annette alla critica del pensiero occidentale la riflessione benjaminiana sull'allegoria moderna -, tanto il fantastico magico-realista di Masino, quanto quello borgesiano e decostruzionista di Manganelli potrebbero essere qualificati come femminili. L'operazione, senza dubbio seducente e feconda di sviluppi interpretativi, non mi sembra certo al riparo da obiezioni o critiche. Se riconsideriamo la posizione già menzionata di Rosemary Jackson, per la quale il fantastico è per statuto un genere sovversivo, buona parte dei testi anche lontanamente imparentati con il récit fantastique finirebbe con il rientrare nell'ambito dell'écriture féminine. E la stessa categoria di femminile perderebbe forse di senso, nel momento in cui non servisse più a tracciare dei distinguo fra i testi, finendo con l'accreditare la vituperata ipotesi freudiana della sua indefinibilità. Viceversa, se per sfuggire ai fantasmi del femminile si optasse per un altro, diverso aggettivo (ma quale proporre?), che qualifichi un fantastico, per così dire, ad alto tasso di engagement, non si rischierebbe di annullare le peculiarità della differenza sessuale nel più generico concetto della diversità? Ancora una volta la questione presenta, infine, delle analogie con le dispute che dividono gli specialisti del fantastico in merito alla supposta inesistenza del genere nell'universo interamente finzionale della letteratura contemporanea, in cui i confini tra verosimile e inverosimile diventano più labili.76 Tuttavia, così come questa tesi paradossale e paralizzante viene contestata da altri studiosi, i quali non rinunciano all'idea che, per quanto complesso e multiforme sia il genere, l'indagine teorica sul fantastico possa dar luogo a qualche risposta positiva,77 quanto meno a dei tentativi di ricerca, in egual misura credo sia più proficuo non sottrarsi del tutto al compito di provare a circoscrivere una sua variante femminile. L'adozione di un «temperato»78 approccio post-metafisico ci consentirebbe allora, da un lato di sfuggire ai fantasmi del naturalismo che infestano la critica di ispirazione universalista o essenzialista, dall'altro di sostituire alla tesi della indefinibilità del femminile in relazione al fantastico quella della sua pluridefinibilità in quanto categoria aperta, da definire caso per caso, autrice per autrice, e - perché no? - anche autore per autore! La sfida da porsi sarebbe in definitiva quella di misurare il peso specifico del femminile senza lasciarsi troppo condizionare dal nome che figura sulla copertina dei libri, ma calibrandone il valore in funzione della refrattarietà che essi manifesterebbero a lasciarsi tradurre nei codici della cultura dominante. Confesso di non saper prevedere quali potrebbero essere i risultati di una simili ricerca che, per risultare fondata e utile all'interpretazione, dovrebbe essere vagliata su un numero di testi ben superiore ai due casi che ho citato parlando di Masino e di Manganelli. Ma se questa strada fosse percorribile, l'operazione permetterebbe in primo luogo di tracciare un nuovo identikit del genere, grazie all'inclusione delle scrittrici nel canone e alla conseguente rielaborazione di quest'ultimo, anche in funzione di una diversa lettura degli autori già consacrati dalla tradizione; in secondo luogo, essa consentirebbe di annettere al fantastico italiano quella dimensione engagée che la critica letteraria gli ha spesso negato accusandolo di escapismo e relegandolo, forse un po' troppo frettolosamente, nell'universo della letteratura di evasione o di intrattenimento.79 E concludo citando ancora una volta Cixous, secondo la quale «un texte féminin ne peut pas ne pas être plus que subversif».80

 

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Giugno-dicembre 2018, n. 1-2