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Claudia Sebastiana Nobili
Elsa Morante nella lettura di Francesca Liverani *
Non mi sono mai occupata di Elsa Morante - i miei interessi sono cronologicamente più arretrati -, ma vorrei dire qualcosa sul libro che Francesca Liverani ha dedicato a Menzogna e sortilegio, perché il libro non è stato per me soltanto una piacevole lettura, ma mi è anche parso molto interessante da un punto di vista metodologico, ed è su questo aspetto che mi vorrei fermare.
Francesca Liverani ha la capacità di studiare in maniera molto approfondita il linguaggio della Morante, in un saggio che - si potrebbe dire - ricostruisce la sintassi della scrittrice, del suo pensiero. Per esempio, Liverani analizza i campi metaforici che attraversano il romanzo (luce/buio; giorno/notte; estate/inverno), spiegati come vere e proprie ossessioni, e studiandoli segue le tracce lasciate dall'io narrante sulla carta, le "impronte digitali" disseminate da Elisa tra le pagine del romanzo.
D'altra parte, se noi lettori fossimo tutti come Sherlock Holmes, se leggessimo cioè i libri in cerca di indizi (ed ogni buon critico dovrebbe fare così), per scoprire ciò che si nasconde dietro la superficie della pagina, nella struttura profonda del racconto, dovremmo andare in cerca delle tracce disseminate dal narratore per condurci al finale, proprio a quel finale e a nessun altro. Ed è appunto quello che fa Francesca Liverani quando analizza, direi con puntiglio, l'aggettivazione usata nel romanzo: gli aggettivi che definiscono il personaggio di Anna; quelli con cui si autodefinisce la narratrice Elisa; oppure i verbi che si accompagnano ripetutamente ai singoli personaggi (ad esempio il fantasticare di Elisa).
Mentre conduce questo lavoro, Francesca Liverani usa citare continuamente brani di Menzogna e sortilegio, sottolineando le parti che le interessano con il neretto: una scelta particolare, che non viene usata di solito nella saggistica, e che mi sembra non solo avere un impatto visivo immediato, ma fissarsi fortemente nella memoria.
Una delle cose che mi hanno più colpito, insomma, è che Liverani segue dappresso la Morante, le sta - per così dire - alle costole con l'intenzione di svelare i segreti della sua scrittura; pedina Elisa, e la Morante alle sue spalle, per carpire la menzogna di cui è contesta la sua scrittura; la menzogna o il sortilegio, che poi in fondo sono la stessa cosa (mi piace pensarle come un'endiadi: la menzogna di Elisa è anche il sortilegio del suo racconto, l'incanto di cui è prigioniera e in cui la narratrice ci coinvolge e ci prende, come in una rete). Una storia affascinante che si vorrebbe pretendere vera, e che invece pagina dopo pagina - come bene dimostra Liverani - si rivela un'invenzione di fantasia.
Ma a parte queste considerazioni generali, vorrei fermarmi su una parte precisa del saggio, il capitolo intitolato Elementi del gioco evocativo: Tarchetti, Verga e Schuré, perché vorrei fare, come ho già detto, una discussione di metodo.
Per sua stessa ammissione, Francesca Liverani dice di studiare "l'ossatura" del romanzo. Cito le sue parole:
«Se l'ossatura che sostiene il romanzo è rappresentata da una struttura ciclica di matrice astronomico/climatica dalla quale personaggi e intrecci ricevono un'impronta essenziale, la polpa (ovvero la multiforme articolazione in immagini e azioni su cui le vicende si costruiscono e si sviluppano) deriva dalla straordinaria giustapposizione di richiami che il testo intrattiene con molteplici altri testi» (p. 117).
E infatti Liverani si propone di ricostruire alcuni passaggi fondamentali della «rete evocativa» che presiede al romanzo, attraverso percorsi intertestuali inediti.
Da qui, l'autrice entra in una precisa analisi della parentela tra Menzogna e sortilegio e Fosca di Tarchetti, romanzo scapigliato della seconda metà dell'Ottocento: Fosca ed Elisa sono due personaggi caratterizzati dal disagio, dal male psicologico; Liverani non si limita a istituire un parallelo fra le due protagoniste: fa rimandi continui, addirittura mette uno accanto all'altro, su doppia colonna, i due testi (Fosca da una parte, Menzogna e sortilegio dall'altra), usando il neretto per illustrare le convergenze.
Uno dei punti più convincenti del discorso è quello che riguarda l'episodio del «taglio delle trecce»: Fosca, invasata, offre le sue trecce in pegno all'amante, Giorgio; in Menzogna e sortilegio, invece, è il crudele Edoardo che pretende come pegno d'amore il taglio delle trecce di Anna. Dunque, amori malati che accomunano i due romanzi; donne tormentate e tormentatrici, segnate dalla follia e destinate alla morte prematura.
A parte questi singoli episodi, giustamente Francesca Liverani si chiede se quelle di Giorgio in Fosca, e di Elisa in Menzogna e sortilegio, siano memorie o non piuttosto delirio. E allora - qui rientrano in gioco alcune riflessioni che la lettura di questo capitolo mi ha suggerito - Fosca non è soltanto (è certamente, ma non soltanto) una «fonte» per Menzogna e sortilegio, un archivio di temi e di personaggi a partire dai quali imbastire una nuova invenzione romanzesca, ma diventa un modello di costruzione del romanzo, che - dietro l'apparenza di un memoriale obiettivo, tutto volto a cercare la verità, il senso di una vicenda drammatica e oscura - si rivela infine l'invenzione della mente turbata del protagonista.
Elisa, pagina dopo pagina, da cronista passa ad esempio perfetto di narratore inattendibile, è stato detto. Eppure, Liverani ci consiglia di non fermarci qui, altrimenti Menzogna e sortilegio potrebbe sembrare soltanto il «romanzo familiare di un nevrotico». Invece, proprio in questo capitolo Liverani ci spiega come il referente freudiano vada superato, e lo fa individuando una seconda fonte del romanzo, Il marito di Elena di Verga. Scopriamo così che anche il trauma di Elisa, la narrazione della «domenica del peccato», è in realtà una invenzione; dimostrando quanto l'episodio debba al romanzo verghiano, Francesca Liverani ce ne dimostra la letterarietà: la famosa domenica non è qualcosa di rimosso, ma è un episodio costruito su altri romanzi. In particolare, la scena in cui Anna si ferma sognante davanti allo specchio, come per togliersi un cappello che in realtà non indossa, deve molto al romanzo di Verga, e all'immagine della veletta di Elena, dietro la quale la donna infelice si nasconde.
Leggo ancora una volta Francesca Liverani, perché non voglio essere io a interpretare attraverso e oltre le sue parole:
«La "veletta" diviene per Elena quasi riparo dalla realtà che la donna vorrebbe fuggire, e nello stesso tempo emblema di un mondo immaginario dentro il quale cerca rifugio per mantenere vivi "i sogni della sua giovinezza". In maniera analoga essa viene a simboleggiare quella dimensione fantastica che, incarnandosi in Anna/la "Favola", rappresenta l'essenza stessa del narrare di Elisa: un narrare che, mentre scopre e dichiara il senso profondo della realtà, lascia scendere il velo della letteratura tra lo sguardo e le cose» (pp.150-1).
La veletta come metafora della scrittura... ecco: vorrei soffermarmi proprio su questo punto per distaccarmi dal saggio di Liverani e fare brevemente alcune considerazioni. Francesca Liverani non si limita ad indicare una serie di fonti (io mi sono fermata soprattutto sulle prime due perché mi affascinano particolarmente), ma ci addita un percorso possibile, una linea di ricerca, ci chiama a ripercorrere il romanzo italiano dal tardo romanticismo e dalla scapigliatura giù giù fino ad Elsa Morante, ricostruendo una linea che non viene mai meno e che varrebbe la pena di esplorare.
Nella sua introduzione - bellissima - a Menzogna e sortilegio, Cesare Garboli sottolinea molto giustamente la distanza tra il fantastico di questo romanzo morantiano e la temperie culturale nella quale il romanzo è uscito. È l'epoca della narrazione della guerra, del Neorealismo, del narratore-cronista che annota i fatti di cui è stato protagonista e spettatore, con un'urgenza di raccontare che è quella descritta, parecchi anni dopo, da Italo Calvino nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno. Calvino, lo ricorderete, dice che tutti quanti hanno vissuto una stagione straordinaria - la Resistenza, la guerra - sentono l'urgenza di raccontare un momento tragico ed eroico, e desiderano fare dei propri romanzi, soprattutto, la testimonianza e la cronaca degli eventi vissuti.
Giustamente Garboli osserva che niente di tutto questo c'è nella Morante di Menzogna e sortilegio: nessun cenno alla guerra, nessun cenno alla lotta partigiana né alle vicende del tempo. Eppure sappiamo quanto la Morante sia attenta alla Storia, a quella con la 'S' maiuscola, visto ciò che ha scritto dopo.
Rileggendo il saggio di Garboli dopo quello di Liverani, ho pensato proprio alle parole di Italo Calvino, che hanno fatto corto circuito dentro di me, suggerendomi una ulteriore riflessione (Calvino, insieme alla Ginzburg, fu tra l'altro uno dei primi entusiastici lettori del romanzo alla Einaudi, come ha ricordato Magda Indiveri). Alla luce di ciò che si scriveva e si pubblicava all'epoca, la novità e la singolarità della Morante sono davvero straordinarie. Ma mi pare che Francesca Liverani, a questo proposito, ci indichi una chiave di lettura possibile, e del tutto nuova: ripensare cioè al romanzo non in una visione orizzontale (spiegarlo alla luce di ciò che esce insieme a Menzogna e sortilegio, negli stessi anni), ma iscrivendolo in una linea verticale, che congiunga Menzogna e sortilegio alla letteratura scapigliata della seconda metà dell'Ottocento, e per esempio a Fosca di Tarchetti.
Ecco, io credo che questa linea vada pienamente esplorata: e non so se sia nelle intenzioni di Francesca Liverani, ma ovviamente me lo auguro, perché credo che sia una linea feconda e nuova. Ne vorrei dare un saggio, convinta come sono dell'utilità di questo lavoro, ma per farlo ricorrerò ad un altro testo - ad un autore che mi è molto caro e che ho studiato a lungo - proprio perché non voglio in alcun modo aggiungermi a Francesca Liverani, né indicare altre fonti possibili per Menzogna e sortilegio, ma soltanto proporre una suggestione, un ulteriore anello della catena testuale che Francesca ha fatto balenare in me.
Nel 1915 Pirandello scrive i Colloquii coi personaggi, ossia una delle novelle "preparatorie" dei Sei personaggi in cerca d'autore, uno dei testi che stanno alla radice della pièce. Forse ricorderete la novella: lo scrittore Luigi Pirandello mette un cartello davanti al suo studio (siamo durante il primo conflitto mondiale), dicendo che non vuole più ricevere personaggi, che le udienze sono chiuse perché c'è la guerra, e quindi neppure lui ha più tempo per divagare con la letteratura. Invece i personaggi gli entrano in casa e come fantasmi lo assediano, lo perseguitano continuamente, gli stanno intorno quasi a soffocarlo, e infine lo costringeranno a raccontare le loro storie.
Vi leggo soltanto alcune righe della novella:
«Nell'ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e m'invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo piú solo. Qualcosa brulicava in quell'ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell'ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.
Con chi potevo io veramente comunicare, se non con loro, in un momento come quello? E mi accostai a quell'angolo, e mi forzai a discernerle a una a una, quelle ombre nate dalla mia passione, per mettermi a parlare pian piano con esse».1
Tra quelle ombre, il primo personaggio che uscirà, il più importante del racconto, è quello della madre appena morta: un fantasma dunque; quando si tratterà di scrivere il dramma, Pirandello sceglierà personaggi (almeno in apparenza) di fantasia, ma in Colloquii coi personaggi appare esplicitamente un fantasma che emerge dall'ombra e chiede di parlare.
Mi pare inevitabile, lette queste righe, riandare con la memoria a una delle pagine iniziali di Menzogna e sortilegio, quella in cui Elisa, perseguitata e circondata dai suoi fantasmi familiari (è una pagina che Francesca ricorda e analizza bene nel suo saggio), dice:
«Riconosco infatti, nell'insistente bisbiglio che ascolto, le loro molteplici voci, e questo libro m'è dettato, in realtà, da essi. Son essi che, in cerchio attorno a me, bisbigliano. S'io levo le pupille, dileguano; ma se, usando un poco d'astuzia, sogguardo appena intorno senza farmi scorgere, distinguo le loro figure strane e incerte; e vedo, nella sostanza trasparente dei loro volti, il movimento febbrile e ininterrotto delle loro lingue sottili. [...] Forse, costoro son tornati a me per liberarmi dalle mie streghe, le favole; [...] ecco perché ubbidisco alle lor voci, e scrivo: chi sa che col loro aiuto io non possa, finalmente, uscire da questa camera».2
Ecco perché mi sorprendeva la consonanza: la memoria vista come una prigione, la scrittura come liberazione da un incantesimo... Ripeto, sono molto lontana dal voler cercare un'ulteriore fonte, mi sembra invece di poter additare l'importanza e la vitalità - per una futura ricerca - delle proposte di Francesca Liverani. Anche nel caso di Pirandello c'è una guerra che sembra non esserci, una guerra di cui lo scrittore in apparenza non vuole parlare: la ferita del conflitto è così profonda, invece, che l'incontro con i fantasmi è l'unico modo di sopravviverle.
Credo che sarebbe molto interessante, partendo dallo studio di Francesca Liverani e dai presupposti che lei ha indagato, ricostruire l'intero percorso che da Tarchetti e Verga porta fino alla Morante, iscrivendo il romanzo Menzogna e sortilegio, la sua originalità, la sua apparente estraneità al contemporaneo, all'interno della linea alternativa a quella del romanzo come cronaca, una linea che mi piacerebbe chiamare dell'"autobiografismo fantastico" (se mi si passa la contraddizione in termini), alla luce della quale Menzogna e sortilegio potrebbe diventare una tappa importante, e direi anzi, assolutamente primaria, del percorso di un Novecento inquieto che è derivazione diretta del tardo Romanticismo e della Scapigliatura, un percorso che Francesca Liverani suggerisce persuasivamente nel suo libro.

Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2014
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Giugno-dicembre 2014, n. 1-2
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