Matteo Ghirardelli
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I. II. III. IV. V. |
Premessa Il nodo dei temi Émile Benveniste: la procedura e il senso Michail Bachtin: immanenza e debito Bibliografia |
I. Premessa
Il titolo del saggio propone un oggetto di studio, i rapporti dialogici, suggerisce la prospettiva entro cui l'oggetto verrà considerato, la metalinguistica, ed indica un percorso per ottenere tale risultato, cioè il confronto tra le posizioni di Émile Benveniste e Michail Bachtin.
Occorre tuttavia chiarire cosa si intende con "confronto". Questa ricerca rifiuta una dimensione comparatistica: vi è comparazione tra due o più fenomeni che, quanto alla loro costituzione, sono già dati. In questa sede, al contrario, si leggeranno gli autori in funzione dei temi, non i temi in funzione degli autori. Vale a dire, non ci chiederemo, ad esempio, come entrambi gli studiosi trattino il tema del "senso" o del "dialogo" nella loro opera, ma come e perché è sorto un problema del senso e del dialogo nei rispettivi percorsi. Senso e dialogo non si pongono quindi all'inizio del percorso, già costituiti e pronti per una comparazione reciproca, ma alla fine: sono le mete che una domanda contribuisce a costituire. È questa domanda che si tratta, appunto, di ritrovare. La dimensione comparatistica viene messa quindi fuori gioco, non perché inutile, ma perché inadeguata al livello cui vogliamo pórci. Il piano su ci insedieremo sarà infatti, per usare il lessico bachtiniano, metalinguistico.
Metalinguistica, in Bachtin, nomina un concetto di metodo, prima ancora che un contenuto; un nuovo modo di porre domande prima ancora che offrire di risposte. Basterà ricordare come contrassegno dell'indole speculativa che anima questa ricerca la presenza, nell'introduzione al Dostoevskij, di un esplicito richiamo kantiano quando Bachtin afferma che la sua analisi andrà alla ricerca del «carattere innovatore di principio» (13) dello scrittore russo. Potremmo dire della metalinguistica ciò che Heidegger affermava della fenomenologia in uno dei suoi corsi preparatori a Essere e Tempo: «Noi non tratteremo della fenomenologia», scriveva Heidegger, ma «di ciò di cui essa tratta» (1) Sosteniamo quindi che la metalinguistica è ciò da cui si parte, non come possesso, ma come direzione di ricerca, tentando di pensare "con" Bachtin e non "su" Bachtin.
II. Il nodo dei temi
I punti di contatto che rendono prossimi Bachtin e Benveniste sono molteplici. Anzitutto, il primato della componente deittica del linguaggio, come base per riformulare un diverso approccio alla linguistica e alla filosofia; la nozione di discorso, come categoria più inglobante per comprendere l'agire linguistico nella sua totalità; il riconoscimento dell'enunciato come unità linguistica effettiva della lingua in atto; la necessità di entrambi gli autori di postulare un oltre disciplinare che orienti la linguistica verso una dimensione testuale; Benveniste parlerà di «metasemantica dell'enunciazione» (Essere di parola 21); Bachtin di metalinguistica tout court.
Vorrei mostrare se e quanto le risposte dei due autori siano in un rapporto di omonimia o sinonimia, discutendo il luogo teorico da cui queste somiglianze si originano: questo luogo è il rapporto, nei processi linguistici, tra la nozione metodica di livello e quella ermeneutica di senso. Anzi: il problema del senso, per i due autori, non si può chiaramente porre se non nella misura in cui, precedentemente, si è riflettuto sul metodo dell'analisi. Il metodo, infatti, non è mai un protocollo neutro, soprattutto quando si parla di lingua: è il metodo, come scrisse Saussure (17-27), a individuare i dati linguistici; senza una chiara idea di esso, confusione e falsi problemi risultano inevitabili.
Sia Benveniste che Bachtin pongono in modo radicale il rapporto tra senso e lingua: Benveniste, perché deve ribattere a tutti quei tentativi, come la linguistica distribuzionale di Bloomfield, che riducono la lingua ad un algebra, ad un calcolo, espellendo così quella che Benveniste chiama la «testa di medusa del senso» (Essere di parola 52), cioè quel fattore tanto imprescindibile, quanto di difficile comprensione, senza il quale i termini "linguaggio" e "lingua" divengono vuote astrazioni. Bachtin, dal canto suo, porta avanti un progetto analogo: elabora e individua una certa immagine del senso per restituire la linguistica a se stessa, contro ogni riduzionismo ad «un orientamento verso l'unità» (Estetica e romanzo 82) che porta a soffermarsi sui momenti più stabili e rigidi della lingua. Per entrambi, quindi, la nozione metodica di livello è imprescindibile: grazie ad esso, Benveniste può proporre un'ideale stratificazione del linguaggio, individuando così due ambiti operativi della parola "senso"; Bachtin, invece, chiamerà in causa una propria ripartizione, all'interno dell'universo del dialogo, per distinguere logiche differenti riguardo ciò che chiama «rapporti logici» e «rapporti dialogici» (Dostoevskij 237-8).
Si tratta quindi di vedere se percorsi e intenti così simili siano effettivamente somiglianti o costruiscano piuttosto l'uno il rovescio dell'altro.
III. Émile Benveniste: la procedura e il senso
Prendendiamo in esame due saggi di Benveniste: "I livelli dell'analisi linguistica" (1964), "La forma e il senso nel linguaggio" (1967) e "Semiologia della lingua" (1969), con particolare attenzione ai concetti di livello, regime e senso, per poi approdare alle categorie di enunciazione e discorso in "L'apparato formale dell'enunciazione" (1970).1
La nozione di "livello" permette a Benveniste di individuare la natura composita, mista ed eterogenea del linguaggio (1964). E di rintracciare, all'interno di questa mescolanza, due nozioni di senso, prima confuse. Il linguaggio, in altre parole, non è isotropico, cioè non funziona in ogni suo punto nello stesso modo: a livello del segno, valgono regole dure, non negoziabili. Benveniste chiamerà questo livello regime semiotico (1967). A livello frastico, invece, occorre passare dall'altra parte dello specchio: se il morfema, il fonema e il sintagma sono elementi passibili di una descrizione e di una quantificazione in numero finito o comunque accertabile, il piano della frase apre sul mondo vario e eterogeneo del discorso, irriducibile alle regole di formazione che presiedono il semiotico. Questo piano del discorso verrà chiamato regime semantico (1967). Dove il segno, unità minima del semiotico, è intralinguistico, paradigmatico, dotato di significazione generica, ripetibile, la frase, unità minima del semantico, è discorsiva, sintagmatica, dotata di un senso e di una referenza, e costituisce un evento ogni volta unico: tra i due i regimi, aggiunge tuttavia Benveniste (Essere di parola 21), non c'è passaggio. Dove è allora la continuità? Una continuità deve essere in qualche modo data se vogliamo che il senso venga reintrodotto nell'analisi linguistica: il perché è, alla luce di quanto già suggerito, evidente.2
Il senso, si è detto, deve permeare in ogni sua fibra il linguaggio, altrimenti non avremo più una lingua umana, ma solo un codice, come quello che regge la comunicazione animale. Solo che il senso, nella misura in cui lo intendiamo come significato dell'enunciato, nella frase, è precisamente ciò che impedisce di parlare di "senso" nelle forme minime di cui è composta la lingua, cioè nel segno, dove il sistema sembra stare "su da solo", come una sorta di macchina perfetta. Il senso come significato, come intento e volontà del parlante, così come lo si incontra nella lingua viva, sembra cioè arrivare dopo il sistema della lingua, quasi fosse una aggiunta del parlante che viene ad animare porzioni di suoni e di forme di per sé insignificanti: posizione, questa, non tollerabile per il fatto che, in tal modo, si avvallerebbe proprio quegli orientamenti che sostengono la non pertinenza del senso per lo studio delle forme linguistiche. La mossa di Benveniste consiste nell'individuare due sensi del senso, se si passa il bisticcio: il senso come procedura, vale a dire ciò che permette di riconoscere e successivamente integrare i segni minimi della lingua in unità più ampie (1964); il senso come significazione, cioè il "voler dire", l'intenzione del parlante (1969).
La domanda ora è: che rapporto esiste tra le due nozioni di senso così formulate? Considerate separatamente sono pienamente accettabili; anzi, la giusta proporzione tra struttura e funzione nella spiegazione dei fenomeni linguistici ha reso tuttora vincente il modello di Benveniste.3 Tuttavia, considerati reciprocamente, cioè l'uno in rapporto al punto di sutura che lo congiunge all'altro, si incontrano alcuni problemi. Si era ricordata, infatti, una discontinuità tra i due livelli di analisi. Come è allora che si produce un intero, una lingua storico naturale, a partire da parti eterogenee, il semiotico e il semantico?
La risposta si articola in due momenti: per prima cosa, Benveniste scommette che, nonostante le apparenze, tra il senso procedurale del semiotico e il senso intenzionale del semantico ci sia una solidarietà profonda: il senso intenzionale, cioè, trova la sua condizione di possibilità nel senso come procedura. Se infatti è vero che la frase non si ottiene sommando i singoli segni che la compongono (Essere di parola 55), è pur vero che i singoli segni sono il materiale dotato di senso che il parlante rielabora a seconda delle esigenze comunicative, imprimendo ad essi un novum, la propria intenzione, che si distacca dai segni pur essendo tuttavia costretto a partire da essi.
Per questo motivo la continuità tra semiotico e semantico - ed arriviamo al secondo punto della risposta - non deve essere cercata sul piano empirico, non è insomma un elemento visibile a occhio nudo. Il punto di passaggio riguarda la modalità di esistenza dei due regimi: la virtualità del sistema, la virtualità del segno, quando viene attualizzata produce l'unità del discorso, la frase come predicato, come asserzione che manifesta un senso e indica una referenza. Produrre questo passaggio tra sistema e uso è infatti il compito dell'enunciazione, definita come "l'atto stesso di produrre un enunciato" o "la conversione della lingua in discorso" (1970).
In che modo allora Benveniste presenta la dimensione della lingua in atto, la dimensione del discorso? Abbiamo indicato due risposte. La prima: il senso come intenzione viene posto in continuità con quello come procedura di integrazione. Il che significa, detto più chiaramente: l'uso di una lingua dipende dalle costrizioni da cui questo uso muove. Prima le forme della lingua, poi il loro uso. La seconda: dal momento che tra segno e frase non c'è passaggio, occorre rivolgersi all'attualizzazione delle forme del sistema, attualizzazione iscritta nel sistema stesso grazie ai pronomi personali. Chiediamo allora: Benveniste, in questo modo, sta descrivendo come si produce la lingua in atto, il discorso, il regime semantico? No, quello che Benveniste descrive non è il semantico, ma che cosa il semiotico dice che il semantico sia, a partire da ciò che il semiotico in ultima istanza risulta: un sistema di forme che non è minimamente toccato dal fatto che di queste forme possa esserci un uso.4
Un'analogia con la fisiologia permette, credo, di capire immediatamente il detour teorico.5 Per fare un corpo, basta procedere per aggiunta di organi e componenti? No, evidentemente: un corpo non è la somma delle sue parti. Bisogna quindi postulare la presenza di un'anima, forse? No, nemmeno, dal momento che l'anima, come infusione dello spirito in una materia inerte, è esattamente ciò che una procedura ha creato come resto inattingibile al proprio sguardo: dato un organismo, il corpo e l'anima che lo muovono rimangono un mistero, di cui altre discipline devono occuparsi, come la filosofia o la teologia, non certo la fisiologia. Il problema, a ben vedere, non è l'opposizione organismo/corpo, ma la divisione stessa, che induce a pensare che il secondo termine, quello complesso, derivi dal primo, salvo accorgersi che, a partire da quello, il termine complesso risulta indeducibile: se la verità del corpo vissuto è l'organismo, il corpo sfugge alla capacità della fisiologia di descriverlo nella sua differenza specifica, in quanto corpo umano, e non animale, ad esempio. Allo stesso modo, se il semiotico è la verità della lingua, ossia il suo nucleo intimo e generatore, allora il semantico non sarà che un supplemento che va a completare una base, un fondo già del tutto autosufficiente: come il funzionamento dell'organismo non ha alcun bisogno di postulare un'anima che lo muova - tanto che la fisiologia può fare benissimo a meno di questa ipotesi - così il funzionamento del semiotico non ha bisogno di postulare alcun "uso" delle forme che lo compongono, tanto che la linguistica può studiare queste forme senza bisogno di ricorrere ad alcun soggetto intenzionale che le muova o le animi.
L'obiezione è immediata: la presenza dei pronomi all'interno della lingua non è forse la prova che le forme della lingua prevedono la presenza di un parlante e la possibilità di un uso? Non ci stiamo dimenticando, insomma, di una delle più durature scoperte di Benveniste, ossia del ruolo costitutivo della deissi?6 Certo, ma il locutore si "appropria" del posto vuoto del pronome personale e della "virtualità" del sistema solo in senso metaforico; in senso proprio, bisognerebbe dire che il parlante non "attualizza" il sistema, piuttosto lo realizza, al pari dell'operaio in catena di montaggio che realizza i pezzi della macchina cui è preposto, senza però che questi ultimi risentano in alcuna maniera della sua presenza, se non come puro supporto fisico, sostituibile a piacere. Si dirà che il paragone è scorretto, che nell'esperienza quotidiana non accade in alcun modo un procedere meccanico di questo tipo e che la lingua muta, così come mutano i parlanti. Senza dubbio. Ma di tutto ciò, nel quadro teorico che stiamo descrivendo, non c'è alcuna traccia: il sistema "sta su" da solo, è statico e non contempla in alcun modo un divenire, che infatti viene dall'"esterno", dal parlante. Come il parlante possa "usare" un sistema, forse lo si può anche sostenere affermando semplicemente che ne prende dei "pezzi", così come l'operaio prende la materia prima; come però addirittura possa "trasformarlo" diviene impossibile da capire, visto che è il sistema che dà voce al parlante - e non il contrario - così come la macchina decide delle operazioni e dell'agire dell'operaio - e non il contrario.
La prova della natura residuale del piano del discorso è l'impossibilità del semantico di retroagire in qualche modo sulle strutture del semiotico, mentre invece le strutture del semiotico sono la base inaggirabile del semantico: nonostante Benveniste affermi a più riprese che prima viene il discorso e poi la lingua, quando poi deve spiegare la priorità del discorso non fa altro che riportarlo alla fondazione di un sistema sottostante: si ha soggettività, solo perché il sistema lingua possiede dei posti vuoti, come i pronomi personali; si ha comunicazione, solo perché la lingua prevede una polarità tra i pronomi; si ha una frase perché un senso si attualizza in forme che però preesistono al senso stesso.
Ora, il problema non è negare le osservazioni di Benveniste, ma solo evitare di scambiare l'astratto con il concreto, facendo retroagire sul termine concreto, il semantico, le procedure che hanno prodotto il termine astratto, il semiotico.
IV. Michail Bachtin: immanenza e debito
Ammesso e concesso che questa veloce ricostruzione sia plausibile, la posizione di Benveniste risulta così, a nostro parere, più in rapporto di omonimia che di sinonimia con quella di Bachtin, precisamente perché Bachtin proverà a pensare una differenza di natura, non di grado, tra il senso così come lo si incontra nell'astratto sistema linguistico e il senso come si presenta nella lingua in atto. O, se si vuole, una differenza di natura tra i rapporti logici e quelli dialogici.
Eppure, basta prendere alcune pagine a caso dei testi dell'ultima produzione di Bachtin, "Il problema del testo", "Per una metodologia delle scienze umane" o "Gli appunti", e si leggeranno molte formulazioni in perfetta linea con quelle di Benveniste, in particolar modo sulla presenza, all'interno del linguaggio, di elementi ripetibili e di altri irripetibili, di elementi appartenenti al sistema, non negoziabili e logici, ed altri appartenenti al discorso, creativi e dialogici. Sembra riproporsi, pur con le differenze, lo stesso binomio e divisione del linguista francese.
Vorrei invece sostenere la tesi contraria, discutendo la divergenza radicale tra le ontologie presupposte ai due percorsi.
Si parta dal punto di massima somiglianza, apparente, tra i due studiosi, ossia l'insistito ribadire la differenza tra ciò che è "ripetibile" e ciò che è "irripetibile" nei fenomeni linguistici. Bisogna però sottrarre al vago questa differenza e capire cosa implichi in termini speculativi.
A livello logico, è infatti possibile immaginare il rapporto tra ripetibile e irripetibile sul modello tra originale e copia, tra la purezza ideale dell'eidos e la molteplicità empirica delle sue riproduzioni, gli eidola. Ripetibili sono le copie; irripetibile il modello. In questa cornice, l'irripetibile è il primo termine fuori serie che dà completezza alla serie stessa: nella serie infinita delle cose belle, ad esempio, la bellezza sarà il primo elemento fuori serie che dà a questa serie completezza; le cose giuste, platonicamente, partecipano della bellezza, ma non sono la bellezza. L'irripetibile, il modello, possiede un'altra natura dal ripetibile, le copie. Benveniste è vicino a questa posizione, nella misura in cui ritiene che il significato generico, virtuale e paradigmatico, del segno sia completato da un termine fuori serie, la frase, che nel contempo è fatta di segni, ma non è essa stessa un segno. Proprio come la bellezza è in tutte le cose belle, pur non coincidendovi. È il modello della trascendenza.7
È possibile però immaginare anche un altro rapporto tra copia e modello, un rapporto in cui modello e copia si confondono l'uno l'altro, dove non c'è priorità di un originale rispetto alla copia, dove non occorre immaginare alcun termine fuori serie, perché la serie è completa in se stessa, dal momento che si genera a partire da sé. È la pozione dell'immanenza, propria di Spinoza, di Bergson o di Deleuze, se si perdona la brusca generalizzazione. Ed è anche la posizione di Bachtin: il senso irripetibile non ha bisogno di un supporto ripetibile per prodursi ma, come si dirà, nasce sempre nel mezzo, è un tra, è auto-sussistente. Solo in questa prospettiva, posiamo comprendere la portata speculativa di affermazioni come quella in cui Bachtin afferma che «nel vivo discorso, a rigore di termini, la comunicazione si crea per la prima volta nel processo della trasmissione e, in sostanza, non c'è alcun codice» (L'autore e l'eroe 365).
Traendo le conseguenze da questa cornice di riferimento, non stupisce che il metodo della ricerca sia una delle preoccupazioni costanti di Bachtin, un fattore già presente in uno dei suoi primi scritti, Per una filosofia dell'azione responsabile (1922), dove Bachtin si premura di distinguere il contenuto di un qualsivoglia sapere dal suo evento, mettendo in guardia contro ogni riduzione dell'"atto-evento" a immagine e somiglianza del suo relativo "contenuto-senso".8 Come a dire: l'evento della lingua, il suo effettivo prodursi nella comunicazione quotidiana, non può essere studiato a partire dalla sua immagine ricalcolata a partire dalla grammatica. Il che significa che ogni dualismo metodologico - semiotico e semantico - deve essere tolto in favore di un monismo ontologico - il dialogo - disposto su più gradi. È stato fatto notare come non ci sia alcun fuori della sfera dialogica. Questo non comporta però che il dialogo sia un territorio indistinto, vago; significa solo che le differenze, all'interno della sfera dialogica, sono di natura modale,9 non sostanziale.
Che cosa sia questa natura "modale" lo si comprende nel momento in cui Bachtin riformula la coppia livello/senso in un orizzonte ermeneutico, e non più epistemologico.
Si consideri, ad esempio, la definizione più sintetica di "senso" data negli Appunti del 1970-71: «chiamo senso ogni risposta ad una domanda» (L'autore e l'eroe 363). In un colpo solo Bachtin lega così la questione linguistica, il domandare e il rispondere, a una ermeneutica, il "senso" della domanda e della risposta. Questo senso non sta "nel" linguaggio, "nel" locutore o "nel" destinatario, ma tra di essi: ogni enunciato è una «viva trinità» (L'autore e l'eroe 313), dirà anche Bachtin, è sempre già nato e sempre sta per nascere. Il senso, in altre parole, non è mai un fatto, da riscontrare, ma un evento, a cui corrispondere: le voci di questo dramma sono il parlante, il destinatario della sua parola, ciò che di volta in volta viene detto, il contesto in cui l'atto di parola accade, alla presenza di un terzo elemento, il surdestinatario, che costituisce il limite, in senso kantiano, della triade precedente - e di cui ci occuperemo alla fine del saggio.
A Bachtin, allora, non serve solo una "logica del senso", ma una pragmatica del senso. Le osservazioni precedenti, direbbe forse Bachtin, saranno forse corrette, ma risultano troppo disincarnate, preda cioè di quella neutra astrazione da lui sempre combattuta. Non basta infatti sostenere sul piano logico-concettuale che il senso è una trinità, che si auto-genera, che è creativo: occorre anche specificare i modi in cui il senso si compromette ogni volta che si incarna in un evento linguistico concreto.
Questa attenzione pragmatica è evidente nell'uso compiuto nella nozione di livello: per "livello" si intenderà, infatti, il legame di implicazione e differenza tra rapporti logici e dialogici. La differenza tra "logico" e "dialogico" non si configura come un concetto, e neppure una proprietà che alcuni rapporti avrebbero ed altri no, ma un modo di vivere la relazione tra i parlanti e l'orizzonte di lingua e mondo che li unisce, in una maniera per cui il modo di questa relazione decide dell'essenza della relazione stessa.
A livello pragmatico, ad esempio, come dobbiamo allora pensare la questione logica della ripetibilità? Possiamo farlo secondo il modello della abitudine, oppure, con un'immagine cara a Bachtin, della festa.
La ripetizione, nell'abitudine, è ciò che accade "una volta ancora".10 La ripetizione, d'altro canto, può essere dell'ordine della festa, dove ciò che accade, accade non una volta di più, ma "ancora una volta". Nella festa si sconta un paradosso: ripetere un evento irripetibile. La ripetibilità, si vuol dire, non presuppone alcuna sostanza che si ripeta, come insegna l'evento festivo. Il modo della ripetizione, in questo senso, determina l'essenza della ripetizione: la ripetizione come abitudine, infatti, crea l'illusione che ciò che si ripete sia sempre uguale a sé e venga moltiplicato; al contrario, la ripetizione come festa, fa sì che oggetto del ripetere sia dato non secondo il prima o il poi, ma nella distensione di un infinito presente, dove ciò che si ripete è l'evento, non il suo contenuto. E, d'altronde, non diversamente scrive Bachtin in una delle sue più dense formulazioni teoriche sul senso: «il senso muta la realtà senza mutare uno iota nell'insieme delle sue componenti reali» (L'autore e l'eroe 381).
Quanto detto aiuta meglio a capire in che cosa consista il rapporto tra monologismo e dialogismo: il monologismo è infatti dialogico, se per dialogico intendiamo la natura inevitabilmente responsiva, semi-altrui di ogni enunciazione; il monologismo è però tale nella misura in cui questo carattere semi-altrui e dialogico diventa irreperibile, assente o negato. Specificando che non si sta parlando dell'assenza di un tratto o di una proprietà: ciò che muta nel monologismo è la qualità del senso che lo individua. Sul piano della loro essenza, parola dialogica e monologica sono perfettamente uguali. Divergono però quanto al loro senso. Ma che cosa è allora il senso, se non è una proprietà? Come abbiamo visto a proposito della ripetizione, il senso è un evento che ogni volta è specificato e individuato da una certa modalità temporale: ed è questa temporalità a decidere della differenza tra monologismo e dialogismo.
La parola monologica, dunque, non "si sente", è sorda perché non prevede di essere cambiata e ammaestrata dalla parola altrui; è quindi condannata non a un divenire, ma a una ripetizione, all'orizzonte chiuso della stasi; quella dialogica, al contrario, nel suo massimo grado di parola divergente, si sente, e, sentendosi, viene rimessa al futuro del suo divenire: è estatica. La parola dialogica, quando tocca i vertici della polifonia, fa scontare nei confini finiti di un contenuto il carattere infinito del suo evento.11 In altre parole, la parola dialogica, quando è polifonica, fa sentire in modo impareggiabile il proprio debito nei confronti della propria origine extralocale.12 La parola dialogica è una risposta che non toglie la domanda, ma la rilancia: questa è l'esperienza del debito, l'esperienza di un provenire rispetto a cui nessuna nostra moneta potrà rendere adeguato resto, per usare una metafora cara a Bergson (1903).
"Debito" è il nome antropologico della categoria teoretica di "surdestinatario" (L'autore e l'eroe 317) ricordata prima. Ogni evento, infatti, è sempre in debito verso quel terzo assente rispetto a cui ogni enunciazione misura le proprie pretese di validità e verità. Che ruolo ha questo "terzo" nel fenomeno dialogico? Se immaginiamo il fenomeno dialogico in un asse cartesiano, troveremo un asse orizzontale dove il dialogo è il carattere di risposta tra enunciazioni, il modo in cui si produce il linguaggio in atto; questo asse orizzontale è tuttavia ogni volta inciso da quello verticale, che rappresenta la distanza che ogni enunciazione intrattiene con il surdestinatario: quanto più il surdestinatario è avvertito distante dall'asse orizzontale, tanto più la parola sarà dialogica; quanto più vicino il surdestinatario sarà all'asse orizzontale, tanto più la parola sarà monologica.
Un'ultima osservazione. Se lo scoglio implicito in cui si arena il progetto di Benveniste è l'impossibilità di pensare il linguaggio in atto a partire dal linguaggio stesso, vi è forse un analogo scoglio bachtiniano? Pensiamo di sì: abbiamo ricordato all'inizio alcune riflessioni bachtiniane sull'attestazione linguistica del senso. Il prefisso "meta" della linguistica indica un oltre disciplinare dove questo senso è recuperato. Ma non basta. Il prefisso "meta" indica anche un "oltre" reso possibile dalla scrittura, in particolare da quella scrittura che è la forma "romanzo": non dà forse da pensare che il superamento della linguistica offerto da Bachtin sia stato compiuto non a partire dalla lingua in atto, dalla lingua realmente parlata, ma a partire da un "uomo di carta", dal personaggio? Non è, insomma, quantomeno singolare che la linguistica della lingua viva per eccellenza, la metalinguistica, sia modellata a partire da ciò che vivo non è - la scrittura?13
Di queste e di simili questioni dovrà, crediamo, farsi carico ogni rigorosa e avvertita ricognizione del lavoro di Michail Bachtin, come termine a quo per una genealogia del suo pensiero.
V. Bibliografia
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2014
<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2014-i/Ghirardelli.html>
Giugno-dicembre 2014, n. 1-2