Antonio R. Daniele
Dino Buzzati: il segno nel disegno

 

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Sommario
I.
II.
Buzzati scrittore
Buzzati illustratore e pittore


 

§ II. Buzzati illustratore e pittore

I. Buzzati scrittore

Com'è noto, sono sempre più frequenti gli studi e i contributi sul Buzzati disegnatore e pittore1 e questo intervento non può né intende offrirne un esame puntuale, che, oltretutto, non scanserebbe il rischio del tono apodittico. Piuttosto, sarà più interessante in questa sede accennare a una valutazione del nesso tra la scrittura buzzatiana e l'aspirazione figurativa, altro tema sovente dibattuto che offre, però, ancora spazio per ulteriori sollecitazioni.
In un curioso saggio di venticinque anni fa Judy Rawson2 notava - studiando le "occorrenze cromatiche" dei primi due romanzi di Buzzati e mettendole a confronto con quelle di alcuni "pezzi" scritti per il «Corriere» - che lo scrittore ne era più prodigo nelle poche colonne di un articolo che nello spazio più ampio di un romanzo, sia pure breve, nonostante potesse sfruttare boschi e montagne. Insomma, il futuro pittore Dino Buzzati sembra scrivere i primi romanzi senza la tavolozza dei colori alla mano, pur ambientandoli nella natura, pur connotandoli - soprattutto il Segreto del bosco vecchio - di quegli elementi fantastici e favolistici che si gioverebbero non poco di un adeguato contorno cromatico. È così, in effetti. Ma pare esserci una ragione.
È altresì noto, anche ai più distratti conoscitori di Buzzati, che la critica ha negli anni fissato due "crocevia" per la sua opera: Il deserto dei Tartari e il Poema a fumetti, e non c'è dubbio che questi lavori abbiano significato tanto per lo scrittore bellunese. L'uno accolto come prima autentica prova sulla distanza lunga del romanzo, l'altro come prodotto sperimentale e del tutto innovativo nell'ambito della "letteratura disegnata". Eppure c'era già stata - lungo quest'ultimo solco - La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Bisogna muovere, però, almeno dal Segreto del Bosco Vecchio, dove non vi sono illustrazioni, ma vi sono contenute molte delle ragioni che contribuirono alla formazione del Buzzati disegnatore e poi pittore.3 Pur nella assenza di elementi cromatici, non è difficile rilevare motivi figurativi nelle prime opere di Buzzati. Si potrebbe anzi dire che Buzzati appronti prima la cornice e poi attenda di svilupparvi il quadro o la traccia visiva e dunque di inserirvi la nuance. E questa attesa, naturalmente, è lunga. Quella di Buzzati pare, a primo acchito, una semplice progressione figurativa, una scrittura in direzione visiva: Bàrnabo delle montagne - il racconto lungo col quale il giornalista bellunese inaugurò la carriera di narratore - avrebbe potuto risolversi in un numero di pagine molto inferiore a quelle realizzate, perché i tre "fuochi" del racconto (l'atto di viltà di Bàrnabo; la vita intorno alla Casa; lo scontro finale) non hanno di per se stessi un respiro lungo, ma vengono, per così dire, abilmente diluiti dall'autore, non tanto per ottenere un numero di pagine prestabilito, quanto forse per una sottaciuta necessità: attendere che la sostanza del racconto prenda corpo dai tre abbozzi di quadri narrativi che corrispondono del tutto a tre quadri visivi. Questa missione, tutto sommato mancata (poiché soprattutto la seconda sezione del racconto pare una lunga zona grigia),4 viene lasciata in consegna al Segreto del Bosco Vecchio, dove lo scrittore si affida al fantastico e fa che piante e animali parlino tra gli uomini, senza preavviso, quasi a tradimento, come per stanare lettore ed editore, memore dei freni messi all'opera prima che doveva essere, nelle intenzioni dell'autore, un testo illustrato.5 Tronchi animati, topi e venti parlanti solleticano immagini nel lettore e certamente acquistano alla scrittura un ritmo più sostenuto, perché si pongono sul sentiero più consono a Buzzati, ossia una strada fatta di contraccolpi: la "condizione poietica" fra i due racconti nasce, dunque, da un'insufficienza rappresentativa6 che ha suggerito allo scrittore di "inquinare" già a questa altezza il dettato realistico con gli inserti surreali della "realtà seconda",7 molto prima insomma delle dirette esperienze figurative cui buona parte della critica buzzatiana normalmente rimanda; questi inserti, tuttavia, restano felicemente assorbiti in un asciutto intrico verbale, secondo la straordinaria attitudine di Buzzati a renderci il mistero poetico alla stessa stregua di un banalissimo fatto di cronaca. E viceversa.8 Tale novità pare testimoniata dalla brevità dei capitoli che si connotano come un primo "quadro a sequenze", esercizio scritto che precorre analoghi esercizi di pittura e tra i suoi preferiti (si ricordi su tutti La stanza, del 1968): esso ha il pregio di allontanare via via lo scrittore stesso dal soggetto per darne un'impressione naturale e concreta: «il mio fantastico è un gioco, o forse è uno sport […] mi serve per prendere un po' dal di fuori e dall'alto molte cose della vita pratica», confesserà più tardi ad Yves Panafieu.9 Allo stesso modo dall'alto e in progressione si realizza il dipinto seriale citato, come una soggettiva in campo lungo e poi lunghissimo o una prima traccia delle tanto care vignette.10 Né è azzardato considerare tale procedimento narrativo una felice intuizione dell'uso dell'episcopio, strumento d'ingrandimento al quale egli ricorrerà qualche decennio più tardi per i suoi dipinti. Così egli può quasi osservare i suoi personaggi mentre scrive e, di contro, scrivere mentre osserva, allenando quello sguardo "visivo" che manifesterà scopertamente negli anni a venire. È per questa ragione che le pagine del Bosco Vecchio, man mano che si procede, si arricchiscono di piccoli elementi, veloci e fuggevoli, quasi fossero sfumature o particolari appena sotto gli angoli della cornice. Chi legga il ventiseiesimo capitolo ottiene la netta percezione di un quadretto compiuto e, a un tempo, il convincimento di un lavoro in progressione. L'episodio della radio sembra un fatto avulso dal contesto, un passatempo del colonnello Procolo, ma riga dopo riga assumerà un suo rilievo, come una ispirazione germinale che si va schiarendo:

«In genere le idee vengono da una parola, da un suono. Ma io credo che questo capiti a tutti gli scrittori. [...] Vengono da un ricordo che s'intreccia ad un altro ricordo, da un angolo di stanza in una luce determinata».11

È questo il procedimento buzzatiano, nella scrittura come nel disegno: scegliere la radio come mezzo dal quale si propagherà il sinistro rumore che prelude alle larve divoratrici12 è una soluzione fuorviante: il meccanismo causativo non si accorda con l'effetto e, soprattutto, l'effetto non ha una ricaduta tangibile: il motivo del rimbombo udito alla radio viene, infatti, presto abbandonato. Come ha notato più volte Nella Giannetto, infaticabile, compianta animatrice di periodici cenacoli sullo scrittore, nelle didascalie che accompagnano i dipinti o i disegni di Buzzati «lo scopo non è quello di narrare gli eventi, bensì quello di creare un'ambiguità di senso volta a disorientare o a depistare l'osservatore»,13 come nel caso di I misteri dei condomini (1967) dove le sequenze dei palazzi sono - per così dire - distratte dal primo piano di una ragazza che «non abita nella casa e fa la donna bersaglio nei baracconi». Allo stesso modo dei bruchi che infestano il bosco e vengono sterminati dalle icneumoni, a mezzo di una notevole prova affabulatoria dello scrittore. Ma, alla fine, l'episodio, ricco di particolari e di apprezzabile dinamismo narrativo, non è affatto imparentato con la fine del colonnello Procolo né con la malattia di Benvenuto, se non nei termini di un sommario clima onirico. D'altronde Buzzati stesso spiegò nel Grande ritratto:

«Abbiamo riprodotto, partendo dagli elementi primi, il funzionamento della mente umana. Alla descrizione del rapporto fra le parole e le cose nominate è stata sostituita una descrizione in termini di attività. Ogni combinazione mentale si traduce in un grafico che ne mantiene integralmente la storia».14

Si è scritto molto sull'uso della parola in Buzzati, sul "segno" semantico. Qui egli pare svelarci l'intimo motivo che sottende alla sua arte, in parte rilevato dagli studiosi, in parte tuttora da definire: anche alla base del puro segno scritto vi è una previa attività visiva interna allo scrittore, per cui più che di progressione trattasi di "rivoluzione", nel suo significato orbitale: un segno nel disegno - o meglio "dal disegno" - che ricava un effetto anche estraneo al valore immanentemente semantico del segno stesso. Una siffatta dinamica può esserci efficacemente illustrata dal racconto Un critico d'arte, contenuto nella raccolta che si aggiudicò lo "Strega":15 il critico Malusardi, inviato alla "Biennale", ha intenzione di scrivere un pezzo su un artista misconosciuto, un astrattista. Si arrovella per trovare le parole più giuste, il linguaggio più idoneo ad attenuare la banalità della tecnica che egli ha rilevato alla base delle tele: il trompe l'oeil; appronta due o tre stesure dell'articolo, poi gli guizza un'idea in mente:

«Ma - fu la domanda che egli rivolse a se stesso all'improvviso - se dalla poesia ermetica è germinata quasi per necessità una critica ermetica, non era giusto che dall'astrattismo nascesse una critica astrattista? Rabbrividì quasi, misurando confusamente gli sviluppi di una così audace concezione. Un vero colpo d'ala. Semplicissimo, eppur difficile come tutte le cose semplici. Tant'è vero che nessuno ci aveva mai pensato. E lui sarebbe stato il caposcuola. In pratica non restava che da trasferire sulla pagina la tecnica finora adottata sulle tele».16

Non sfuggono nel brano motivi biografici: l'interesse per la pittura astratta, la polemica sui "figurativi", l'inviato alla Biennale, attività che dal 1967 impegnerà sul serio il nostro scrittore per il «Corriere».17 Insomma è Buzzati che parla e che ci spiega la sua tecnica: la pagina scritta (anche quella dei racconti) è una trasfusione orbitale di una precedente immagine impressa nella mente, di un'idea in forma di disegno. Ma c'è dell'altro: a furia di tentare, Malusardi concepisce un articolo dal linguaggio assurdo:

«Il pittore [...] ghiendola namicadi coi tuffo fulcrosi, quantano, sul gicla d'nogiche i mutazioni, che piò levapo si su predomioranzabelusmetico, rifé cometizzando per rerare la biffetta posca o pisca. Veré chi...».18

La recensione vuole avere il tono dell'encomio, ma produce nei lettori beffarde risate come di chi legga una presa in giro fatta con intenzione: «"Senti, senti, Diomeda, che tesoro" disse volgendosi all'amica "senti come gliele canta, il Malusardi, a quei poveri figurativi… Rifé cometizzando per rerare la biffetta posca o pisca!" […] "Spiritoso, niente da dire" approvò Diomeda. "Ah, io l'adoro, il Malusardi. È un formidabile!"».19 Anche stavolta l'effetto non si connette alla causa; anche stavolta si è prodotto quell'urto, quel conflitto di mezzi espressivi che notiamo già dai primi romanzi;20 ma in questo caso ne seguiamo lo svolgimento, come se avessimo aperto la scocca di un orologio per verificarne il congegno.

 

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II. Buzzati illustratore e pittore

Nel 1945 viene pubblicata La famosa invasione degli orsi in Sicilia. È una favola per bambini con illustrazioni dell'autore stesso: Buzzati, ormai noto anche al grosso pubblico grazie al successo del Deserto dei Tartari e al conseguente traino editoriale di Longanesi, approda finalmente dove avrebbe voluto sin da Bàrnabo; e infatti, con un controsenso solo apparente, ma inevitabile, la natura "visiva" delle parole si riduce proprio a causa delle illustrazioni. Naturalmente che l'opera sia indirizzata a un pubblico di giovanissimi ha il suo peso poiché, va chiarito, si tratta di un racconto creato proprio e solo per bambini, a dispetto di alcuni critici che l'hanno creduta una trovata, uno schermo mediante il quale Buzzati voleva parlare agli adulti. È proprio la rottura - momentanea - dell'attrito fra scrittura e immagine evocata che ce ne dà conferma: le tavole seguono o rivelano il narrato e il paratesto ne fa la sintesi. D'altra parte la «precisa rispondenza con le illustrazioni»21 ci dice che l'autore vuole mantenere i suoi piccoli lettori al nudo reale per schivare il rischio che Bernardi paventava a Benvenuto nel Bosco Vecchio: quando si cresce si dimentica quel che si è visto e si è preda della noia.22 Certo, come è ovvio, talune pratiche sono ormai connaturate allo scrittore e ricompaiono puntuali e sintomatiche. Anche qui Buzzati gioca con la realtà, con ciò che si vede o non si vede. Le figure, talora, sono un'immagine che deborda i suoi stessi confini. Lo scrittore ce ne dà un primo richiamo elencando tra i personaggi della favola il Lupo Mannaro che invece non comparirà. Seguiranno altri simili "dirottamenti", accostabili senza dubbio alle ambiguità sensoriali cui il Nostro ci ha abituati.
«Se osservate piano piano / il disegno del combattimento - scrive Buzzati - vedrete un tipo strano / sul valico battuto dal vento. Quel triste tipo è il prof. De Ambrosiis».23 Ma, per quanto si aguzzi lo sguardo e si tenga a mente la piccola sagoma del De Ambrosiis che Buzzati ci offre in apertura d'opera, durante la sfilata dei personaggi, nella prima tavola non v'è traccia del professore. E oltretutto Buzzati presume che, dal questo disegno che non c'è, si possa scorgere anche l'idea di tristezza. Tuttavia, non è escluso che, trattandosi di un mago, Buzzati abbia inscenato un dissolvimento; o, per meglio dire, lo abbia inferito con uno dei suoi ormai classici sbalzi logici; abbia cioè prodotto un segno - verbale - da un disegno - mentale - che non si è realizzato per ragioni indipendenti dalla sua volontà (il prof. De Ambrosiis è un mago e ha, dunque, la facoltà di scomparire).24 Un simile sospetto ci viene confermato dalla tavola del Gatto Mammone, dove la didascalia racconta il descritto assalto del felino agli orsi, ma non fa cenno alla pergamena che campeggia in basso a destra e che illustra la morte del gatto fulminato da un lampo. Può ben essere il beffardo trasbordo logico dei "falsi cartelli indicatori"25 che l'orco aveva posto sulla gabbia del gatto per ingannare le sue vittime e di cui Buzzati ci parla appena qualche pagina prima.26 In questo caso la dinamica segno-disegno è rovesciata. E cosa dire del capitolo V, dove sulle prime si racconta degli orsi sopraffatti dai soldati, mentre nel disegno che lo introduce si evince ben altro. Stavolta Buzzati viene allo scoperto:

«E allora perché nel disegno, che certo corrisponde alla verità, si vedono invece gli orsi arrivare al ciglio dei muraglioni e qualcuno perfino in cima ai tetti della fortezza, più alti ancora dei soldati granducali? perché nel disegno sembra che gli orsi stiano per vincere? perché dunque questo scherzo?».27

Buzzati chiude la questione spiegando sbrigativamente che dalla figura «sono passati sette giorni» e nel frattempo le cose sono cambiate: il disegno non è una notifica figurativa, è un momento autonomo. Ma le parole stesse sono una struttura della figura. Raffaele Carrieri, annotando nel 1977 le Storie dipinte, primo vernissage buzzatiano di quasi vent'anni prima, sotto l'evidente effetto di una suggestione del linguaggio del collega giornalista, scriverà che le parole sono «chilometri di formiche […] e ce ne vogliono più di mille per fare una pagina».28 La scrittura è abbinata a uno degli animaletti cari al Bellunese di cui Carrieri sembra farsi interprete. In quella stessa occasione, siamo nel '58, Buzzati espone tra gli altri dipinti Piazza del Duomo di Milano. Come sempre la didascalia non si accorda alla figura: l'autore ci scrive di una piazza frenetica, allude ai palazzi e a tutta la città, accenna al «complesso organismo» fatto di pinnacoli e merlature. Ovviamente nulla di tutto questo compare nel dipinto, dove invece la cattedrale ha un aspetto massiccio, tozzo e quasi informe, collocata superba in una landa desolata, con strutture ai lati che rammentano depresse fortezze. Niente di nuovo, insomma: è il solito dialogo fra due stadi comunicativi, il reale e il fantastico. Il tutto avrebbe, quindi, una spiegazione piuttosto lineare se non fosse che qualche mese prima Buzzati aveva pubblicato la già citata raccolta dei Sessanta racconti inserendovi tra gli ultimi brani La peste motoria, parodia della peste manzoniana. Ad Angelo Colombo dobbiamo la bella e puntuale lettura comparata dei testi parodiato e parodiante;29 a noi in questo caso interessa rilevare - senza pretese di dimostrazione filologica - una curiosa consonanza fra il dipinto della sua prima "personale" e il raccontino, due lavori praticamente simultanei. La peste motoria è una peste dei nostri tempi e, come ben si comprende, colpisce non più gli uomini ma le automobili. La città frenetica, movimentata, poco a poco si spopola: «il centro divenne pressoché deserto e il silenzio già tanto invocato vi si stabilì sovrano come un incubo». Sembra questa la didascalia più adatta al dipinto del Duomo: non vi è forse l'impressione - osservandolo - del "silenzio sovrano", di aree disabitate alla de Chirico, di un'atmosfera da incubo,30 quasi una glaciazione, come confermerebbero i cumuli di ghiaccio ai piedi del Duomo e delle strutture circostanti? D'altronde sono noti alla comunità scientifica i nessi fra le pestilenze e le fasi glaciali. Così Buzzati ha introdotto il terzo stadio, quello favoloso, stavolta addirittura differito in intertesto.
Per ultimo, un inevitabile quanto doveroso cenno al Poema a fumetti.31 È ancora aperto l'eterno dibattito: Poema a fumetti ha iniziato un percorso di sperimentazione del linguaggio tra scrittura e disegno o è una gemma grezza rimasta nel pregiato scrigno del suo autore?
Negli anni il più originale tra i lavori buzzatiani è stato sottoposto ad analisi scrupolose, è stato oggetto di convegni e seminari, di riletture, di inquadramenti storici, ovviamente utilissimi e preziosi.32 Poema a fumetti è una summa di Dino Buzzati e dunque come negare che vi troveremo tutti i motivi che hanno segnato la sua parabola artistica? Le raffigurazioni - vi sono studi competenti in materia - sono ora interessanti tratteggi che risentono della Pop-art americana anni '60 ora banali ricalchi di fotografie di riviste ardite;33 ora avvertono gli effetti della crescente fumettistica italiana ora dell'Espressionismo tra il ridondante Lang di Metropolis e l'angoscioso Murnau di Der letze Mann.34 Non mancano manifesti richiami a precedenti illustrazioni e a romanzi del passato: le montagne aguzze,35 la Milano del Duomo, stanze vuote, bestie e uomini spettrali, tutte metafore dello sconquasso cittadino. Proprio a questa altezza, a nostro parere, sembra sfuggire qualcosa, poiché, come talora accade, a furia di cercare col lanternino gli antecedenti o i motivi ispiratori, si finisce fatalmente per perdere di vista la strada maestra. Poema a fumetti è "solamente" metafora. Questa affermazione, all'apparenza ingenerosa, ci pare porti alla luce la questione principe: Buzzati, come (ma solo in parte) era già avvenuto nella Famosa invasione degli orsi in Sicilia, introducendo le immagini nel racconto, sottrae qualcosa al linguaggio verbo-visivo invece di aggiungere; paradossalmente elimina un fattore dal meccanismo "segno-disegno" proprio mentre realizza del tutto la propria aspirazione figurativa. Abbiamo visto che quando egli si è misurato con la sola scrittura è riuscito nella mirabolante impresa di connotare il racconto a tre dimensioni: reale, fantastico e favoloso; e lo scarto tra uno stadio e l'altro era prodotto da un presupposto visivo, secondo una "ipotesi di realtà". Nella prima esperienza di racconto illustrato questo effetto si è ridotto ma non del tutto: ha potuto conservare la propria essenza grazie alla funzione "straniante" del paratesto didascalico. Nel Poema a fumetti mancano le didascalie o, se vogliamo, testo e paratesto coincidono. Ma, stando così le cose, viene a mancare il terreno di "rottura" sul quale, come notava la Giannetto, Buzzati creava l'ambiguità. Sfuma il livello surreale, per lasciare spazio a quello più schiettamente metaforico: la rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice36 è un nuovo viaggio nell'oltretomba37 condito di motivi danteschi, dove scrittura e immagine sono perfettamente allineate nella metafora del sacrificio di sé, del possesso, in vista di una più concreta coscienza della propria stessa vita. Nel momento culminante della propria esperienza figurativa il rapporto segno-disegno perde la "filigrana" surreale che l'aveva informato fino ad allora, anche grazie agli stessi rimandi surreali. Cioè: sono proprio gli evidenti imprestiti di modelli visivi e pittorici che rintracciamo facilmente tra le pagine dell'opera (dal surrealismo bretoniano a quello dechirichiano),38 a ridurre le tre dimensioni a due sole. Come insegnano i maestri dell'architettura contemporanea, «tutto il surreale è metaforico, ma non tutto il metaforico è surreale».39 Ed è proprio quel che accade nel Poema: le istanze surreali sono a tal punto dichiarate che se ne svigorisce la portata. Il surreale pone in evidenza l'idea, il pensiero, con una creazione immaginaria, ma ormai Buzzati è approdato all'ideale, cioè a una percezione vivificante delle cose del mondo che offre la certa speranza che la morte può essere superata, e ciò giustifica il ricorso al modello dantesco capace - come si intuisce dal finale del racconto - di soverchiare quello classico40 che ha fornito lo spunto alla storia. Ecco perché I miracoli di Val Morel,41 ultima autentica esperienza figurativa dell'autore, non sono una pura riesposizione di passati esercizi pittorici col pretesto dell'ex voto a Santa Rita,42 ma un riesame della propria vita. Tra i tanti richiami a tavole passate vi è il Gatto Mammone, già protagonista della Famosa invasione: il gatto assale una donna come anni prima si era avventato sugli orsi. In questa come in quella tavola notiamo un'immagine a lato: lì la pergamena annuncia, spiazzando il paratesto, la morte del gatto, qui la Santa evoca il suo intervento risolutore, ma in assoluto accordo con la didascalia.
Insomma: alla fine di un lungo percorso, il segno, prima atto che superava la realtà disegnata come per trovarne un punto di fuga, ora vi permane dentro, come se il suo autore vi avesse finalmente intuito il nesso definitivo, e l'ironia, il finto scetticismo che Buzzati inserisce tra i miracoli di Santa Rita, sembrano solo un ultimo simpatico tentativo di schermirsi di fronte all'urgenza del mistero.

 

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Giugno-dicembre 2014, n. 1-2