Andrea Battistini
Ezio Raimondi, lettore inquieto

 

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Ezio Raimondi, che ha sempre creduto alla necessaria esistenza, dietro al lavoro di critico e di lettore, di una responsabilità etica, trasfonde costantemente nelle sue ricognizioni la curiosità, la passione e la generosità del suo carattere. Nel concepire la lettura come un dialogo con l'altro, con l'autore del testo che si ha davanti, applica anche all'indagine letteraria la stessa disponibilità e apertura con cui nella vita ha esercitato la politica del confronto, dello scambio di idee, della sperimentazione di nuovi cammini. Non è un caso che sia solito citare, assumendolo quale personale parola d'ordine, un detto di Lucien Febvre, secondo cui corre a tutti l'obbligo di bussare alle porte del vicino, ossia di non precludersi a nessuna avventura culturale, abbattendo confini e superando di slancio le faglie e i crepacci innaturali e immotivati che separano le discipline finitime, spalancatisi per l'azione corrosiva di uno specialismo parcellizzato. A differenza di certi suoi colleghi che hanno fondato riviste a propria immagine e somiglianza, Raimondi ha creato e diretto soltanto riviste in cui la letteratura è vista all'incrocio con altre discipline. «Lingua e stile» nacque in origine dalla sua collaborazione con un linguista, Luigi Heilmann, e con un filosofo del linguaggio e della scienza, Alberto Pasquinelli, con i quali ha attraversato la stagione dello strutturalismo indenne da vacue esercitazioni formali. E al principio degli anni Ottanta si deve a lui la nascita della rivista «Intersezioni», trasparente fin dal titolo nel perseguire una storia delle idee la cui interdisciplinarità, preannunziata nella testata, è stata garantita dall'essersi preso per compagni di strada uno storico della scienza quale Paolo Rossi e uno storico della filosofia quale Antonio Santucci.
Forse a nessuno meglio che a lui si attaglia la sentenza, promossa subito a discorso di metodo, che secondo Paul Valéry rinviene al fondo del pensiero un incrocio di strada, e fa della ricerca una peripezia, un'esplorazione, un viaggio, un azzardo. Senza dubbio Raimondi di strade e di incroci ne ha percorsi davvero tanti, perché costantemente inappagato, incontentabile nella sfida lanciata ai testi da interpretare e protesa a coglierne il senso più profondo. Non sono pochi i saggi di Raimondi che riverberano fin sul titolo la sua irrequietezza ermeneutica: un suo libro si intitola Rinascimento inquieto, un suo saggio Novecento conflittuale, un altro, sulla storia dell'arte, Gli enigmi dell'ombra, per non dire di un capitolo del Romanzo senza idillio, denominato «La ricerca incompiuta». Questo libro, come è noto, è dedicato a Manzoni, l'autore forse più congeniale a Raimondi, per il suo cristianesimo problematico e tormentato da venature pascaliane, tanto più che proprio Manzoni ebbe una volta a dire che «l'inquietudine è connaturale all'uomo». Certamente è connaturata in Raimondi, animato dall'ansia giovanile di fare scoperte impensate, in un continuo corpo a corpo con i testi da interrogare, affrontati con la speranza di imbattersi in nuove sorprese.
In questo senso il tempo non ha per niente affievolito l'entusiasmo dei suoi vent'anni, compiuti alla vigilia di un dopoguerra rigoglioso di promesse e gravido di avvenire, in una stagione frenetica di studio, quasi a compensare il clima culturalmente stagnante del ventennio precedente. L'età insomma non ha frenato la sua voglia di conoscere, di leggere, di discutere. Idealmente la formazione di Raimondi si colloca all'incrocio tra l'erudita «sodezza» (un termine caro non meno a lui che a Muratori) appresa alla scuola di Carlo Calcaterra e la genialità percettiva di Roberto Longhi, l'uno capace di trasmettergli l'operosità febbrile di chi era stato scolaro di Arturo Graf, l'altro sorprendente nelle sue rivelazioni critiche sporgenti da un fitto reticolato di memorie.
Entrando nella consorteria spesso stagnante della letteratura italiana, che in termini accademici gli ha fatto pagare la sua originalità, Raimondi l'ha innovata con le sue interpretazioni, favorite dalle competenze a tutto campo che, applicate ai suoi lavori, hanno ampliato l'accezione meramente umanistica o bellettristica della letteratura. Le sue letture corsare, le sue scorribande nei territori di altrui competenza, sono state ininterrotte. Negli ultimi anni di guerra, deportato in Germania, si è imbattuto nelle opere di Heidegger, leggendole di prima mano quando ancora in Italia nessuno conosceva nemmeno il suo nome. Quando negli anni Cinquanta le «Annales» non erano ancora diventate una sorta di mito per gli storici, Raimondi leggeva le opere di un Febvre non ancora tradotto in italiano. Intanto attraverso due strade diverse come la romanistica e la storia dell'arte prese l'abitudine, con la mediazione di Ernst Robert Curtius e Henri Focillon, di considerare il testo letterario come sistema di relazioni. Nella seconda metà degli anni Sessanta, solo leggendo un articolo di Julia Kristeva apparso su «Critique» intuì l'importanza di Bachtin e del suo pensiero dialogico, garanzia di una testualità polisemica e complessa. E poiché l'altruismo intellettuale lo portava a condividere le sue intuizioni con i suoi studenti, subito i suoi allievi furono messi a parte di questa scoperta, nello stesso periodo in cui, ben prima che Feltrinelli traducesse La grande catena dell'essere, tenne un corso su «Letteratura e storia delle idee», facendo loro conoscere le opere di Lovejoy.
In Raimondi questi «maestri in absentia» hanno fruttificato come e forse più di quelli «in praesentia», con la conseguenza che la sua ricerca è sempre condotta senza professare appartenenza di scuole, senza schemi interpretativi prefissati e ripetizioni del risaputo. Il suo profilo è quello di un uomo di prospettive, non di appartenenza, vocato a tracciati plurimi e a una dialettica pluralistica che lo rendono estraneo a sintesi teleologiche e armoniche. Ne consegue una spregiudicatezza che lo pone fuori dai consueti e consunti quadri sindacali, nemica del diffuso conformismo, combattuto con quel tipo di intelligenza che Osip Mandelstam ha definito «geologica», con cui scavare sotto la crosta inerte delle verità convenzionali.
Dai nomi che qui è occorso di fare, sembrerebbe di essere al cospetto di un teorico della letteratura. In realtà, per prendere a prestito un'espressione di Gianfranco Contini, Raimondi si schiera «contro la metodologia scissa dall'applicazione». Se ne ha conferma nell'ultima pagina delle sue Anatomie secentesche, dove è citata una massima di Goethe secondo cui è il fatto stesso a essere teoria e quindi «Man suche nur nichst hinter den Phänomenen; sie selbst sind die Lehre». La sua straordinaria conoscenza della saggistica, che spazia dalla storia dell'arte alla storia della musica, dalla filosofia alle altre letterature, impiegate per interpretare gli autori della letteratura italiana, fanno loro assumere una fisionomia inedita, così da autorizzare a definire Raimondi, piegando ad altro senso la formula di Elias Canetti, un «custode delle metamorfosi» che, nel ritornare ai classici, li fa diventare qualcosa di diverso. E in effetti, dopo che la sua penna è intervenuta a interpretare uno scrittore, questi non è più stato letto come prima. Si pensi a Manzoni, con cui Raimondi condivide e vive un cattolicesimo non meno turbato e intimamente conflittuale, oggi non più letto, dopo la sua interpretazione, in chiave idillica e pacificante. Se una lettura ingenua dei Promessi Sposi è stata per tanto tempo incline a riconoscersi nella parola di Don Abbondio, al quale l'ironia feroce di Manzoni fa dire che la peste «ha dato di bianco a di gran cose» prendendosi «l'impegno di raccomodar tutte le malefatte» e aggiustandole con la punizione dei malvagi e il trionfo dei buoni, Raimondi ha messo bene in evidenza - e in modo irreversibile - che invece i conti non tornano mai e che se alla fine «tutto in conclusione si sistema per il meglio, nella quiete agiata della famiglia», resta pur sempre «l'ombra del "dolore" che è "un po' per tutto", la domanda sul senso profondo dell'esistenza». Per il critico acuto il lieto fine è solo apparente e illusorio, perché il vero significato del romanzo non è un facile esito consolatorio, ma la consapevolezza che la vita sia, per parafrasare un capitolo già evocato del Romanzo senza idillio, una «ricerca incompiuta», nella quale a contare diventa semmai la formulazione di interrogativi più che dare risposte, il «dibattere e cercare insieme», secondo l'espressione manzoniana nell'ultima pagina dei Promessi Sposi.
Lo stesso si potrebbe dire di un Machiavelli che, dopo le pronunzie di Politica e commedia, è stato messo in relazione con la filosofia naturalistica del Rinascimento, i cui influssi sembrano comparire nel finale del Principe. A questo proposito Raimondi fa notare che abitualmente, quando Machiavelli fa sfoggio di un linguaggio profetico e oracolare per esortare l'Italia a liberarsi dal dominio dei barbari («el mare si è aperto; una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acque; qui è piovuto la manna»), si pensa che il passo non sia altro che uno sfoggio di eloquenza, un espediente oratorio che segna la sconfitta della realtà effettuale, il rifugio nel mito e nell'utopia. In realtà, applicando il metodo della «history of ideas», egli svela che in questo eloquente epilogo non c'è soltanto la retorica del movere, ovvero la tonalità espressiva e passionale, ma anche un momento riflessivo, "speculativo", fondato sull'idea circolare dello sviluppo storico, che conferisce al discorso di Machiavelli una dignità filosofica senza che si possa definire un vero e proprio filosofo. Non importa che il Segretario fiorentino avesse letto le opere di Pietro Pomponazzi e nemmeno che conoscesse il suo nome per sapere che secondo il naturalismo astrologico, dal filosofo professato scientificamente ma diffuso più genericamente nel Rinascimento, il mondo della natura e quello dell'uomo erano governati da un ferreo determinismo imposto dal moto dei corpi celesti. Ciò limita la libertà dell'uomo, ma a volte il cerchio si può rompere, in momenti in cui la natura si manifesta con prodigi fuori della logica razionale, mostrando così che è venuto il momento in cui si allenta l'azione del fato. Sono questi i segnali del kairòs, il tempo eccezionale che subentra al kronos, il tempo meccanico che avanza imperturbabilmente. È l'occasione di un periodo rivoluzionario di cui l'uomo può approfittare per rovesciare radicalmente lo status quo. Ecco perché nella chiusa del Principe l'esortazione a liberare l'Italia è preceduta dall'enumerazione dei prodigi che con un linguaggio biblico segnalano l'avvento del kairòs, decisivo, all'uomo che lo sappia intendere, per compiere una radicale rivoluzione politica. In questo modo, conclude Raimondi, il «naturalismo di fondo aristotelico-astrologico» viene a congiungersi, in Machiavelli come nei primi umanisti, «con la serietà della vita civile e col travaglio dell'impegno politico».
Ma forse l'esempio più significativo per comprendere quanto sia originale e influente (ma forse è ancora più efficace l'equivalente inglese seminal) il magistero di Raimondi riguarda l'interpretazione che negli anni Sessanta egli diede di D'Annunzio, uno scrittore su cui allora gravava una damnatio memoriae dovuta al suo superomismo e soprattutto alla sua adesione al fascismo. La critica ne deprecava lo stile oratorio, di cui condannava la falsità, la biografia all'insegna dello scandalismo e della dissipazione, il "decadentismo" dei costumi. Raimondi, con una lettura sociologica, interpretò il suo esibizionismo e la sua mondanità non già come l'atteggiamento di un debosciato, ma come uno dei primi esempi di una forma di divismo quanto mai funzionale, nella nascente èra della réclame, a «quel fenomeno tipico dell'industria culturale moderna che è il midcult, il gusto sofisticato che può conquistare la massa». Criticabili quanto si vuole, i comportamenti di D'Annunzio non sono più il semplice risultato della stravaganza e della corruzione morale ma i segni di un nuovo rapporto tra la letteratura e il pubblico governato da una legge di mercato pronta ad assecondare «il bovarismo che fermenta nel cuore delle masse moderne». Talché, concludeva Raimondi rovesciando i luoghi comuni della critica letteraria, «il cosiddetto istinto dannunziano appare anche, in fondo, il frutto di un calcolo, di una intelligenza che anticipa e asseconda con le proprie invenzioni le inquietudini, i furori nascosti di una società in equilibrio precario». Da quel momento, la critica dannunziana ha cambiato decisamente rotta.
Lo stesso è accaduto per Renato Serra che per giunta, a differenza di D'Annunzio, era stato in parte dimenticato o irrigidito dalla critica, per lo più frainteso per il suo stesso understatement di flâneur solitario. Raimondi, intitolando Il lettore di provincia la sua prima raccolta di saggi serriani, ha dimostrato che dietro l'appartenenza a una consuetudine risalente addirittura alla scuola classica romagnola, votata allo studio umbratile e tranquillo, vive un intellettuale che avverte la crisi del classicismo, dominato dal sentimento fortissimo di un «contrasto» e di una «rottura» tra due età, tra la generazione sua e quella del suo maestro Carducci, tra le quali intercorre più distanza di quella tra lo stesso Carducci e l'aureo Rinascimento di tre secoli prima perché, dopo Nietzsche, sul desiderio di identificarsi nella tradizione viene a prevalere la coscienza dell'impossibilità di possederla. Dietro la maschera di una quieta cultura provinciale si agita, sotto la lente ermeneutica di Raimondi, la fine traumatica del «mito della perfezione», di cui Serra «fa un problema, un oggetto di dubbio e di inquietudine». In questo modo il «lettore di provincia», una formula tanto felice da dare il titolo a una rivista e da essere entrato da tempo nell'uso comune, guarda agli orizzonti della modernità, al destino tragico della crisi europea e pur senza smarrire la discrezione e l'abito dell'umanista viene a sostituire la felicità di possedere i beni spirituali trasmessi dai grandi modelli del passato con la malinconia e il rimpianto dovuti alla perdita dell'armonia e della serenità propria dei classici. Una volta di più Raimondi sa vedere in un homme des lettres in apparenza smagato ed elegante la tensione di un'antinomia più profonda, piena di contraddizioni.
Dietro tutti questi risultati, tanto sorprendenti quanto persuasivi, ha sempre agito non tanto l'intuito rabdomantico quanto una diffusa rete di letture che nel caso di D'Annunzio si estendevano fino agli intellettuali che avevano analizzato la letteratura in prospettiva sociologica, da Julien Benda a Walter Benjamin e a proposito di Serra chiamavano in causa Romain Rolland e Daniel Halévy. Dalla dialettica tra la conoscenza ravvicinata dello scrittore e le altre conoscenze acquisite con l'interrogazione dei testi meno prevedibili scaturisce una nuova prospettiva, un'angolatura diversa, un risultato pieno di sorprese. D'altro canto, se per Baudelaire «l'inspiration c'est travailler», Ezio Raimondi non può che essere considerato un critico molto ispirato.

 

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Giugno-dicembre 2014, n. 1-2