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Matteo Brera e Carlo Pirozzi (a cura di), Lingua e Identità a 150 anni dall’Unità d’Italia, Firenze, Franco Cesati Editore, 2012, pp. 267, € 35
di Carmen Van den Bergh
Le celebrazioni in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia hanno riunito a Edimburgo italianisti di diverse formazioni in eventi (convegni e tavole rotonde) da cui è derivato il volume Lingua e Identità a 150 anni dall’Unità d’Italia, a cura di Matteo Brera e Carlo Pirozzi.
Il volume, la cui la parte centrale è costituita da dieci saggi incentrati sulle due principali tematiche "lingua e identità", presenta una prefazione della Presidente dell’Accademia della Crusca, Nicoletta Maraschio, e due interventi delle istituzioni diplomatiche. In appendice trovano posto i brevi profili bio-bibliografici degli autori nonché i sunti dei vari contributi.
In apertura, uno dei due curatori, Matteo Brera, riflette sulle nozioni portanti del volume e mette in evidenza la bipartizione fondamentale: il «primo nucleo di saggi» è incentrato principalmente «sulla lingua degli italiani all’estero, sull’emigrazione, sulle mescidanze e sulle ibridazioni linguistiche», mentre altri contributi trattano «da un diverso punto di vista [...] le implicazioni "identitarie" della Lingua italiana» (p. 13).
In riferimento a questi due concetti, una scissione netta non è del tutto scontata. Molti scrittori italiani nel corso dei secoli hanno riflettuto sulla "questione", rivelandosi dei veri mediatori culturali, determinando l’uso della lingua o cogliendo l’impatto ch’essa ha avuto sulla costruzione di una propria identità italiana. Da Dante a Manzoni a Leopardi – per citare gli esempi più palesi – si è letto molto sulle qualità dei dialetti, dell’italiano letterario, dei "vulgari municipali" o le forme regionali. Paragonando la lingua italiana, per esempio, a quella francese, l’autore dello Zibaldone ha scritto che «Ciascuna lingua […] ha certe forme, certi modi particolari e propri» che «costituiscono il principal gusto di quell’idioma» e che sono «le più native proprietà, i distintivi più caratteristici del suo genio, le grazie più intime, recondite e più sostanziali di quella favella».1
Nel saggio di Federico Faloppa (pp. 199-222), che si è occupato della costruzione storica e linguistica del concetto di "alterità", viene descritto il processo di creazione identitaria attraverso la lingua. Essa avviene nell’accostare l’idioma nazionale a «gli altri linguaggi», ovvero lessotipi come piemontese, lombardo, ma anche – andando oltre i confini – francese tedesco, spagnolo che «assumevano significati spesso negativi e spregiativi, testimoniando di divisioni [...] dure a morire». Soprattutto dopo l’Unità, bisognava fare gli italiani ovvero bisognava italianizzare tutto e tutti, sebbene si trattasse di un processo alquanto innaturale per la popolazione di allora, prevalentemente dialettofona.
Muovendosi sulla stessa linea, con specifica competenza di storico della lingua, Giuseppe Polimeni (pp. 99-114) tratta le ripercussioni di tali "dibattiti" rappresentati emblematicamente in scritti antologici, come quello di Luigi Morandi (1892). L’antologia scolastica morandiana opera una distinzione fra la lingua dell’uso (con una forte preferenza per la forma fiorentina) dalla lingua letteraria del passato, promulgando la lingua sia nella sua valenza comunicativa sia nel suo spessore diacronico, ribadendo tuttavia «l’utilità didattica della conoscenza degli autori anche nell’insegnamento della lingua dell’uso». Morandi era convinto che l’unica soluzione possibile per unire il paese e realizzare «una condivisione piena della vita sociale e civile» fosse tramite una lingua unitaria. Al contempo condannava la grande varietà di dialetti in uso, dove andava celandosi una "ricchezza pericolosa" essendo essi fonte di autenticità e di saggezza tradizionale.
L’utopia di una lingua unitaria – estensibile anche oltre i confini territoriali dello stivale – si rivela irraggiungibile, impossibile. L’argomentazione di Rosanna Sornicola (pp. 23-48), s’incentra proprio sul sogno fallito di una Greater Italy, principalmente a causa dell’assenza di una lingua unitaria, comune a tutti, e per via della scarsezza di scuole italiane all’estero. Prendendo spunto da un recente studio di Mark Choate (Emigrant Nation. The Making of Italy Abroad, Harvard University Press, 2008), la linguista analizza la formazione di una identità transnazionale delle comunità di migranti italiani, con i relativi problemi e le diverse politiche di stampo linguistico, dagli ultimi decenni dell'Ottocento ai giorni nostri. La stessa argomentazione, ma con uno sguardo più ravvicinato, viene offerta da Margherita Di Salvo che nel suo contributo (pp. 49-64) analizza il fenomeno della variazione linguistica attraverso tre gruppi regionali di migranti italiani nella città inglese di Bedford. Inoltre, indaga su come i diversi usi linguistici possano riflettersi in dinamiche differenziate di costruzione della propria identità regionale. Lo scritto di Franco Pierno (pp. 65-98), invece, esamina la realtà degli italiani in Nord America, soffermandosi sull’impatto che ha avuto la "stampa etnica" nella diffusione di una lingua media e di una maggiore competenza dell’italiano scritto – volutamente ibrido (l’italiano "letterario" fondendosi con prestiti inglesi) – presso le comunità italoamericane. Più precisamente l’analisi è condotta sulle prime annate de la «Gazzetta del Massachusetts» che in poco tempo, sotto l’intelligente guida del barbiere-imprenditore James Donnaruma, si rivelerà «uno dei più importanti giornali italoamericani del New England».
L’articolo di Arturo Tosi (pp. 223-240) prosegue nella scia dei contributi precedenti, facendo il punto della situazione linguistica creatasi nei gruppi di migranti all’estero, più precisamente presso la seconda generazione di emigrati. Un certo "bilinguismo" (cfr. Swain, 1972), di matrice italiana (dialettale) impregnata di influssi stranieri della patria ospitante, che si erige a nuova madrelingua ma che non è da considerare né lingua seconda né lingua materna, ha avuto a che fare con pregiudizi e denigrazioni da parte degli studi "scientifici" con le dovute conseguenze sull’insegnamento dell’italiano. Tosi enfatizza il discorso sull’editoria e sulla manualistica, e l’impatto delle istituzioni e dell’istruzione su di essa; tutt’ora un altro dei "grandi rimossi" nelle ricerche di italianistica. Egli ci propone una visione panoramica per ricostruire l'evoluzione del fenomeno delle "lingue a contatto" nell'arco dei 150 anni, attraverso riflessioni di critica, linguistica e letteratura.
Ci si sposta in campo letterario con le relazioni di Giuseppe Nava (pp. 115-126) e Lisa Gasparotto (pp. 127-144), dedicate alle figure simboliche del migrante – rispettivamente nei lavori di Giovanni Pascoli e Pier Paolo Pasolini. Gli studiosi partono dal testo letterario con l’intento di offrire un’analisi importante dei cambiamenti sociali nell’Italia dialettofona. Il testo come documento simbolico dei flussi migratori, svela una rete di topoi (dal vagabondo allo spaesato, all’uomo senza patria e senza lingua, al migrante di ritorno, alla nostalgia della terra natia…) che si riscontrano in molti scritti di viaggio e di migrazione di altri autori del Novecento (da Vittorini a Pavese a Satta a Meneghello – a cui anche il contributo di Tosi accenna). Mettendo a confronto certe letture, si possono individuare alcune importanti prospettive storiche ed esistenziali secondo le quali è inquadrato un ritorno alle origini destinato a risolversi in un congedo definitivo dal passato. Il racconto viene così a coinvolgere alcune delle questioni più dibattute dalla cultura contemporanea: il rapporto fra i sessi e le generazioni, la dialettica delle classi sociali, il contrasto fra città industriale e civiltà agricola, paesana.2
Una tematica per certi versi simile si trova nello scritto di Daniele Comberiati (pp. 145-164) che parte dagli stretti legami esistenti tra emigrazione e colonialismo nella letteratura in lingua italiana. Per ciò che concerne la "letteratura della migrazione" sono stati presi in considerazione due romanzi dello scrittore algerino Amara Lakhous (che è anche interprete, traduttore, giornalista), che offrono un ritratto polifonico (e a tratti anche satirico – con richiami alla "commedia all'italiana" – dell'Italia attraverso la figura dell'immigrato a contatto con più lingue e culture. Per quel che riguarda le scritture propriamente postcoloniali, opera di scrittori provenienti dalle ex colonie, traspare con insistenza il desiderio di riscrivere la storia coloniale, spogliata da falsificazioni e mistificazioni, includendo anche voci di chi la colonizzazione l'ha vissuta di persona. «Tali voci "postcoloniali" [...] hanno la volontà di entrare di diritto a far parte della memoria condivisa italiana per integrarla e non fungere da semplice polo oppositivo».
Tracciando la storia della «retorica patriottica e civile in 150 anni di canto popolare italiano», Matteo Brera (pp. 165-198) inquadra i molteplici rapporti che intercorrono tra testo, musica, ideologia e comunicazione di massa. Ai canti popolari possono essere attribuite varie funzioni; dal divertimento all’informazione all’identificazione alla costruzione di un’identità nazionale, essendo essi coinvolti in una relazione complessa e certamente non univoca fra modi autonomistici e eteronomistici di porsi. Sfilacciati fra ricerca artistica individuale e dimensione comunitaria, tra idioletto privato e lingua collettiva, cultura alta e cultura popolare, il Nabucco risorgimentale può essere accostato a canzoni dell’epoca fascista come Faccetta nera e Giovinezza, nonché alle canzoni dei lavoratori e dei migranti, fino ad arrivare alle canzoni "contro", le canzoni di satira, di protesta politica, e parodie che ironizzano sulle convenzioni culturali e sulla politica odierna. Da non dimenticare è certamente il Festival di Sanremo che da più di sessant'anni entra nelle case degli italiani determinando i nuovi idoli della canzone leggera. Considerata la giovane età della nazione Italia, l’impatto che il Festival ha avuto (e in un certo senso ancora ha) sulla cultura italiana, non è certo un fattore da sottovalutare.
Per venire ad un bilancio conclusivo, il volume propone «uno spaccato suggestivo della storia d'ltalia, dagli anni del Risorgimento sino ai giorni nostri», attraverso le varie discipline, strettamente legate fra di loro, come tasselli portanti, piccole pezze di stoffa che messe insieme (dall’ago e filo metaforico delle "cucitrici" di Borrani in copertina3) formano una colorata coperta, chiamata italianità.

Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2013
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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2
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