Simona Storchi
Costruire il moderno. Bontempelli, «Quadrante», e il fronte unico dell'estetica

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
Bontempelli e Bardi: letteratura e architettura per un'estetica «a pareti lisce»
Il modello architettonico: funzionalità, modernità, collettività
Bontempelli, Ciocca e il teatro per le masse: edificio pubblico e identità collettiva
Monumentalismo e rappresentazione storica


 

§ II. Il modello architettonico: funzionalità, modernità, collettività

I. Bontempelli e Bardi: letteratura e architettura per un'estetica «a pareti lisce»

Il primo numero del mensile «Quadrante», fondato da Massimo Bontempelli e dal giornalista, critico e mercante d'arte Pier Maria Bardi nel 1933, si apre con la seguente dichiarazione di Bardi:

«Era fatale che con Bontempelli dovessi realizzare una stretta collaborazione. Il decisivo ausilio che egli ha dato traverso alcuni suoi scritti alla polemica da me intrapresa in favore di un'architettura razionale, è indimenticabile [...] Fu così che noi, io gli architetti nuovi, ci intendemmo con Bontempelli in fraternità, scoprendo alcune circostanze e chiarendo alcune idee sulla necessità di costituire qualche cosa come un fronte unico dell'estetica.
«Quadrante» è nato in mezzo a un appassionante dibattito di idee cui hanno partecipato non soltanto scrittori e architetti, ma musicisti, pittori, scienziati, scultori, ingegneri, e persino industriali: e ognuno ha contribuito all'affermazione di alcuni punti fondamentali sull'intesa deliberata di istituire un centro di ritrovo per un'intelligenza spregiudicata, avanzata, originale».1

Bontempelli, di seguito, propone una riflessione speculare a quella di Bardi, presentando la sua proposta per un'estetica unitaria:

«La ricerca più interessante che l'uomo possa fare guardandosi attorno nel proprio tempo è la ricerca dell'unità.
Si vuole intendere: unità di visuale, e perciò di giudizio. Tutti i problemi singoli di ogni attività intelligente dell'uomo sono riducibili a un problema unico. Trovare il centro donde si veda il muoversi della speculazione filosofica, della espressione artistica, dell'azione politica, della curiosità scientifica, del linguaggio del costume, della vita d'ogni giorno - come un solo fatto armonioso. Scovarne il ritmo centrale.
[...]
Ho avuto un'altra volta l'occasione di definire l'unità del nostro tempo: ripeto qui la definizione: Il massimo della espressione, il minimo di gesto, terrore del lento, disprezzo per il riposo, edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce, la bellezza intesa come necessità, il pensiero nato come rischio, l'orrore del contingente».2

La fondazione della rivista si radica nelle precedenti esperienze artistiche ed editoriali dei due direttori. Bardi aveva diretto la Galleria Bardi a Milano e la Galleria d'Arte di Roma, aveva collaborato a vari quotidiani tra cui il «Secolo» e «Corriere della Sera», era stato redattore dell'Ambrosiano dal '30 al '33 e nel 1929 aveva fondato il periodico d'arte «Belvedere», che dal '29 al '33, anno della cessazione delle pubblicazioni, aveva ospitato dibattiti sull'arte contemporanea, sostenendo la sindacalizzazione dell'arte voluta dal fascismo e mettendo a fuoco il problema architettonico, esprimendosi contro l'architettura accademica e promuovendo le battaglie del razionalismo. Come nota Francesco Tentori, nei primi anni '30 la posizione di Bardi in campo architettonico è intransigente verso qualsiasi espressione artistica che non rientri strettamente nel linguaggio plastico-percettivo del razionalismo, mentre in campo artistico fa riferimento a pittori quali Carrà, de Chirico, Soffici e Sironi, e in seguito agli artisti della Scuola Romana, mantenendo un certo scetticismo nei confronti dell'astrattismo di Carlo Belli (nonostante Bardi abbia con Belli stretti rapporti e ospiti i suoi scritti su «Quadrante»).3
Bontempelli, dal canto suo, aveva usato la rivista «900» (1926-1929) come piattaforma per la teorizzazione di una letteratura «antistilistica», che rifiutava tanto i parametri artistici della tradizione letteraria, quanto l'elitarismo avanguardista. La proposta bontempelliana poneva il letterato come figura integrata nei processi di produzione, che si rivolgeva ad un pubblico ampio di cui allo stesso tempo assecondava e formava il gusto, un gusto trasformato dalle modalità percettive e fruitive apportate dai nuovi mezzi di comunicazione e di intrattenimento quali la stampa, il cinema, lo sport, la pubblicità. Il compito del letterato bontempelliano era quello di inserirsi in questo contesto da artigiano della parola, attento alle esigenze della modernità, capace di inserirsi nei processi comunicativi e di utilizzarne i media in senso produttivo. Ciò comportava la rinuncia all'impronta autoriale, all'ossessione dello «stile», del «bello scrivere», della «bella pagina», del «capolavoro», a favore di una letteratura «anonima», fondata sull'intreccio e basata sui modelli forniti dal giornalismo e dalla letteratura d'appendice.
Sul fronte artistico Bontempelli aveva manifestato sin dai primissimi anni Venti un'attenzione particolare ai motivi della metafisica di de Chirico e Carrà, che aveva trasformato in atmosfere letterarie sia nelle cosiddette «favole metafisiche» (La scacchiera davanti allo specchio del 1922 ed Eva ultima del 1923), sia nei racconti dei primi anni venti. Lo scrittore comasco aveva inoltre partecipato a partire dal 1932 ai dibattiti sull'architettura con alcuni interventi sulla stazione di Firenze in cui aveva manifestato il suo sostegno al razionalismo architettonico e aveva dichiarato il suo interesse per l'architettura in quanto espressione fondamentale e duratura dello «spirito dell'epoca».4 Bontempelli aveva identificato il carattere squisitamente «politico» del dibattito sull'architettura contemporanea, in quanto discorso relativo alla formazione di una nuova estetica della collettività.5 Per Bontempelli, come sottolinea Giorgio Ciucci, il fascismo era l'interprete di un'epoca popolare:6 riteneva che compito dell'architettura fosse guidare le arti nella costruzione di una modernità artistica incentrata sulla ricezione collettiva dell'esperienza artistica e sul ripensamento dell'idea di pubblico.
«Quadrante» nasce dunque come pubblicazione di sostegno ad alcuni ambienti del razionalismo comasco e milanese, che la sostengono anche finanziariamente.7 Dalla corrispondenza Bontempelli-Bardi si evince innanzitutto che l'intenzione dei direttori è di creare una sorta di continuità progettuale - di intenti e di collaboratori - fra «900» e «Quadrante». Ciò che emerge in secondo luogo è l'ecletticità della rivista: Bardi propone a Bontempelli un primo numero composto da articoli su architettura, pittura, scultura, politica, musica, giornalismo, ingegneria, cinema, e «pezzi vari, sport, moda, vita politica, ecc.». Si intendono pubblicare illustrazioni di Cagli, Martini, Sartoris, ma anche figurini di moda e fotografie. La lista dei possibili collaboratori include Bottai, Bodrero, Arturo Martini, gli architetti di Milano e Como, Cagli, Malipiero, Zavattini, Pirandello, Belli, Balbo, Casini, Ciocca, Bragaglia, Birolli, Notari, Pannaggi, Sartoris, Interlandi, Bompiani, oltre ad una nutrita quanto sconosciuta schiera di tecnici ed esperti in svariate discipline, dall'agricoltura alla neurologia.8 Insomma, una variegata congerie di artisti, intellettuali e tecnici, a cui si propone il compito di creare un fronte attento alle proposte della modernità culturale e tecnologica e capace di assorbire e trasformare tali proposte in un progetto di rinnovamento nazionale, da condurre sotto l'egida del credo fascista (bisogna infatti ricordare che ogni numero di «Quadrante» doveva essere aperto dalla ristampa di un discorso mussoliniano). L'impostazione fascista è un elemento prominente della rivista: del resto, sia Bontempelli che Bardi hanno stretti rapporti con il regime. Eppure, osserva giustamente Tentori, il fascismo propugnato da «Quadrante» non si muove sulle linee dell'ortodossia di regime: è utopico, modernista e corporativo da un lato, nostalgico di un rivoluzionarismo antiborghese dall'altro.9 L'operazione «Quadrante» rientra nel programma bontempelliano di creazione di una funzione specifica per l'intellettuale, che ne difenda la professionalità, lo liberi dal ruolo restrittivo e soffocante di mero funzionario dello Stato e gli permetta di ritagliarsi spazi per un'azione culturale di respiro internazionale, contro l'autarchia culturale avviata dal regime.10

 

§ III. Bontempelli, Ciocca e il teatro per le masse: edificio pubblico e identità collettiva Torna al sommario dell'articolo

II. Il modello architettonico: funzionalità, modernità, collettività

Il fronte unico dell'estetica auspicato da Bardi nel suo editoriale d'apertura al primo numero della rivista è legato ad un'idea specifica di rinascita artistica nazionale ed è fortemente radicato nel progetto palingenetico propagandato dall'ideologia fascista e corroborato dagli intellettuali del regime.11 L'istanza unitaria della politica culturale promossa da Bardi e Bontempelli attraverso «Quadrante» trova il suo motivo unificante nel discorso architettonico. Bontempelli si riferisce in particolare all'architettura razionale come portatrice di quei valori estetici di funzionalità e anti-soggettivismo che egli stesso era venuto sviluppando a partire dagli anni Venti, quando aveva individuato la funzione fondamentale del referente architettonico nella definizione di un'estetica della modernità. Secondo Bontempelli l'architettura infatti non solo costituiva un'importante metafora sulla costruzione all'interno del discorso palingenetico dei primi anni del dopoguerra; essa si poneva come riferimento essenziale all'interno di una riflessione impostata sulla concezione di una modernità culturale in cui il prodotto artistico fosse pensato come momento costruttivo e mitopoietico, emancipato dalla figura dell'autore. Scriveva Bontempelli nel secondo numero di «900»:

«L'architecture modèle à nouveau la surface du monde; elle se complète et se continue par les formes de la nature. La poésie doit faire de même, en façonnant des fables et des personnages qui puissent courir le monde comme des jeunes gens émancipés qui ont su oublier la maison où ils ont vu le jour et où ils ont atteint leur maturité».12

Nel suo articolo per il primo numero di «Quadrante» lo scrittore comasco si riferisce al modello architettonico come fondamentale per un ripensamento dei sistemi di connessione fra il tessuto artistico e quello sociale, fra la produzione e la ricezione del prodotto culturale, all'interno di un sistema estetico e comunicativo rinnovato e ripensato al di là delle formule autoreferenziali della tradizione artistica e letteraria.13 Bontempelli conferisce a «Quadrante» lo scopo di porre le basi per un'estetica del moderno, basata su criteri di funzionalità e di popolarità dell'opera d'arte e su un ripensamento dei termini della produzione e della ricezione artistica. Tale estetica si basa sulla critica del decorativismo, sull'organicità della concezione estetica e sulla critica del concetto di autore, punti che erano già stati discussi da Bontempelli su «900» ed erano stati sviluppati dai razionalisti, che a loro volta ne avevano rilevato le basi nei maestri del Movimento Moderno. Bontempelli si riferisce in particolare al programma sviluppato dagli architetti milanesi del «Gruppo 7», il nucleo iniziale del razionalismo architettonico italiano. Il gruppo, formato da Ubaldo Castagnoli, Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava e Giuseppe Terragni, aveva pubblicato il proprio manifesto in una serie di articoli apparsi sulla rivista Rassegna italiana fra il 1926 e il 1927.14 I punti fondamentali del manifesto erano: riconoscimento di una tradizione del nuovo che trovava i propri punti di riferimento nei maestri del Movimento Moderno (in particolare Le Corbusier, Gropius e Mies van den Rohe); nazionalismo artistico che tendeva a mediare la tradizione moderna e la tradizione secolare italiana; distacco dal futurismo e dal cubismo e ricerca di chiarezza, revisione e ordine; architettura funzionale; rifiuto dell'individualismo.15 Le attività del razionalismo italiano, almeno all'inizio, si erano collocate all'interno di un contesto europeo (fra il 1928 e il 1931 i razionalisti avevano partecipato a varie esposizioni internazionali in Europa e negli stati Uniti e già nel 1928 i razionalisti italiani erano stati invitati a partecipare in Svizzera al primo Congrès International d'Architecture Moderne), in cui dominava una forte componente di impegno sociale, che si esprimeva nella progettazione di abitazioni a basso costo e nella pianificazione razionale dello spazio urbano. L'elemento estetico era determinato dal fattore funzionale.16
Attraverso la lettura dei contributi di Bontempelli, Bardi e dei collaboratori di «Quadrante» è possibile identificare un percorso di costruzione di un'estetica della moderno, concepita in senso unitario attraverso le varie discipline artistiche, che passa attraverso alcuni punti chiave: creazione e definizione dell'opera d'arte in un contesto di ricezione collettiva; elaborazione del concetto di prodotto culturale da contrapporre a quello più tradizionale di opera d'arte, con particolare riferimento ad un contesto ricettivo sempre più massificato, anche in senso politico; rifiuto del soggettivismo e di ogni prerogativa autoriale a favore di un'arte al servizio della mitopoiesi del moderno. Come nota Jeffrey Schnapp, nonostante sia centrale al dibattito promosso da «Quadrante», il concetto di architettura nella rivista viene inteso e utilizzato secondo un'accezione ampliata, che si riferisce ad un intero complesso di significati considerati necessari per la costruzione di un'Italia fascista «ultramoderna», ovvero un'Italia modernizzata dal punto di vista tecnologico, ma anche sociale, culturale, giuridico, politico e psicologico.17
È quanto emerge a partire dal primo numero di «Quadrante» nel programma d'architettura firmato da undici architetti del fronte razionalista, il quale propone una serie di punti: distinzione netta fra razionalismo e «pseudo-razionalismo formalista», contro le tendenze neoclassicheggianti e novecentiste, razionalità intransigente e appoggio alle tendenze più integralmente razionaliste (Le Corbusier, Gropius, Mies Van Der Rohe), necessità della coesistenza del «fatto morale» da porre accanto al «fatto artistico» come momento di confronto dell'individuo-artista, affermazione all'interno del razionalismo europeo di una linea italiana basata sui concetti di «classicismo» e «mediterraneità», da contrapporre al «nordismo,» «barocchismo», «arbitrio romantico» di alcune tendenze della nuova architettura, presenza infine sulla scena internazionale grazie a scambi e partecipazione a convegni.18 Il programma razionalista viene corroborato, sempre nel primo numero di «Quadrante», da un articolo di Alberto Sartoris, in cui la costruzione di un'estetica del moderno viene identificata nella ricerca di un'opera d'arte concepita secondo «necessità e ragioni che contano col fattore economico e sociale».19 L'aspetto funzionale dell'opera secondo Sartoris si estrinseca in una forma di astrazione estetica che ha le sue radici profonde nella tradizione architettonica occidentale, per cui funzionalismo e senso estetico non sarebbero in dissidio, ma scaturirebbero dalla medesima concezione delle proporzioni e dell'uso dei volumi. Il ritmo imposto geometricamente ai volumi architettonici sarebbe lo stesso ritmo vitale che anima l'esistenza e l'essenza funzionale dell'edificio. Dichiara Sartoris:

«[l]'uomo secondo la tecnica e l'arte trova nelle relazioni ritmiche della vita introdotte spontaneamente dal fattore economico la volontà manifesta di immedesimarsi nelle misurazioni plastiche del tempo d'oggi. L'uomo dadaista (che alcuni additano come l'uomo della rivoluzione), "l'uomo approssimativo" di Tristan Tzara, nella sua incoerenza organica, sarà certamente perfetto se inteso nel senso poetico della parola, ma non in quello lirico e geometrico del mondo architettonico moderno, che non è soltanto la manifestazione di una rivoluzione artistica ma pur quella della ricerca dell'ordine, della grandezza e della bellezza di forme nuove».20

Grandezza, bellezza, ordine: imperativi estetici di inevitabile risonanza politica. Attraverso «Quadrante» il sostegno al razionalismo si propone come lotta contro gli stili decorativi e la contaminazione stilistica ed è soprattutto teso all'impostazione di una proposta estetica in cui il motivo artistico si esprima nella funzione, ma non solo: il valore estetico deve misurarsi in quanto espressione del popolo. Lo dichiara Bardi in una severa critica all'«imborghesimento» della V Triennale, in cui afferma che «è finita l'epoca del villino, e [...] l'architettura rappresentativa della nostra epoca è l'architettura delle case economiche, delle caserme, dei sanatori, delle case del Fascio, degli istituti del Regime. [...]» e che «il problema centrale del rinnovamento dell'architettura converge nelle soluzioni delle costruzioni popolari e d'uso popolare. [...] Anche con le esposizioni d'architettura bisogna andare verso il popolo, e, dunque, verso quelle realtà che il popolo concreta traverso il suo lavoro e la sua disciplina».21 Bontempelli si pone in dialogo con le riflessioni di Bardi in un intervento del '33, intitolato «L'architettura come morale e politica», ripubblicato in seguito nell'Avventura Novecentista (1938). Nel suo articolo Bontempelli estende la riflessione di Bardi sull'architettura d'uso popolare e la pone al centro di un nuovo paradigma estetico, promosso dall'avvento del fascismo, in cui l'imperativo popolare si esprime attraverso uno scardinamento delle categorie estetiche pre-esistenti tale per cui l'essenza estetica dell'opera d'arte diventa intrinseca alle sue significazioni funzionali. Bontempelli, come Bardi, utilizza l'immagine del villino borghese come sintomatica di un mutamento dei parametri estetici e culturali contemporanei; mentre per Bardi il rifiuto del villino corrisponde ad uno spostamento dell'attenzione dall'individuale al pubblico, Bontempelli approfondisce la riflessione e ne fa un problema di rivoluzione estetica intesa in senso collettivo:

«Il villino non ha più importanza; e il monumentale non si confonde più con il decorativo, perché il monitum deve rampollare dal fondo, dalla sostanza stessa della cosa. Teatri per grandi folle, sanatorii, case del Fascio, strade, ponti, porti, scuole. Se gli ultimi decenni dell'Ottocento furono rappresentati da compassati monumenti e dai frontoni in falda e tuba dei palazzi accademici, se i primi anni del secolo non ancora nuovo rispecchiano la loro mollezza negli sciami di ridicoli villini liberty, il dopoguerra e il Fascismo vogliono essere interpretati ai secoli futuri dalle opere di destinazione collettiva.22»

La nuova architettura, indirizzata ad una fruizione collettiva e massificata, assume per Bontempelli il significato paradigmatico di un'arte che si allontana dal soggettivismo tipico della cultura ottocentesca e che invece si pone come espressione di una modernità estetica espressione di un imperativo politico. Il fascismo, annullando ogni nozione di individualità, rivendica l'espressione di una modernità massificata, che annulla l'individuo in quanto tale, ma che allo stesso tempo lo riscatta attraverso la creazione di identità collettive da cui esso è assorbito e attraverso cui si esprime. L'edificio pubblico rappresenta il monumento della nuova collettività: la sua funzionalità prescinde da ogni necessità decorativa, anzi diviene essa stessa fatto morale, in quanto la funzione stessa costituisce l'essenza del suo significato, il motivo centrale della propria espressività; essa pertanto gode di ampia comprensione, è accessibile, popolare.23
Il senso del collettivo permea anche l'articolo di Corrado Cagli «Muri ai pittori», che auspica il ritorno della pittura murale, non solo in quanto legata all'afflato di primordialità che anima i dibattiti sul moderno, ma anche come desiderio di abbandono del frammento e recupero di un'arte «ciclica e polifonica», che rievochi un nuovo spirito corale, sia dal punto di vista della produzione che della ricezione artistica.24 All'articolo di Cagli risponde Carlo Carrà, ribadendo il bisogno di far uscire l'arte dal ristretto perimetro del soggettivismo di marca tardo-ottocentesca e dichiarando la necessità di riportare l'arte sui muri, sviluppo consequenziale, secondo l'artista, di un'estetica originata negli anni della guerra. È interessante il fatto che nel suo intervento Carrà polemizzi contro coloro che associano la pittura murale con l'arte a «contenuto sociale». Non è tanto il contenuto a interessarlo, quanto la modalità di produzione e ricezione artistica, quindi, più in generale, il ripensamento del sistema estetico e la ridefinizione del significato del fatto-arte, che si richiama, come nota l'artista, ad un'elaborazione teorica già proposta dall'avanguardia che mette in crisi il sistema di produzione-ricezione individuale della società borghese capitalista.25

 

§ IV. Monumentalismo e rappresentazione storica Torna al sommario dell'articolo

III. Bontempelli, Ciocca e il teatro per le masse: edificio pubblico e identità collettiva

All'interno di «Quadrante» uno dei teorici più attivi del rapporto fra prodotto artistico e formazione dell'identità collettiva è l'ingegnere lombardo Gaetano Ciocca. Nel suo articolo sul progetto di casa rurale, Ciocca non solo presenta una casa concepita come macchina per l'abitazione secondo l'accezione di Le Corbusier, ma esprime un'estetica della funzione che presuppone un senso di ordine e disciplina.26 Ciocca ribadisce il medesimo concetto in una serie di articoli sul teatro di massa, ponendo il problema nei termini di un'architettura «cooperativa e anonima».27 Il problema architettonico del teatro di massa è quello di creare un edificio multifunzionale, economico e al servizio della collettività. E la collettività è il fulcro ideologico degli interventi di Ciocca relativi al teatro per le masse: esso infatti non solo presuppone uno spirito cooperativo nella sua realizzazione, ma ha anche la fondamentale funzione di creare e rafforzare un'identità comune attraverso l'autorappresentazione collettiva. Significativa in questo senso è l'importanza attribuita da Ciocca alla possibilità di utilizzare il teatro soprattutto per le parate, ancor più che per le rappresentazioni, in quanto, dichiara, «la parata è la sintesi dell'opera della collettività, la glorificazione delle fatiche del popolo, l'espressione della passioni della nazione. Essa misura l'entusiasmo delle folle e i progressi delle grandi idee assai meglio che non le fredde statistiche e le accademiche commemorazioni. Nel teatro di massa le possibilità di parate sono fantasmagoriche...».28 Il teatro di Ciocca, dunque, non solo ha lo scopo di formare le masse, ma prende forma dalla massa stessa e acquisisce un significato specifico che nasce dall'interazione tra l'edificio e il pubblico fruitore, che nell'edificio e nelle sue funzioni si autorappresenta. Nel teatro di Ciocca, osserva bene Schnapp, lo sguardo autoriflessivo del pubblico elimina la distanza fra palcoscenico e platea, pubblico e attore, fantasia e realtà; è un'allegoria della nazione corporativa in cui non vi è spazio per il dubbio o l'esitazione.29 Nella relazione «Aspetti tecnici del teatro di massa», presentata al Convegno Volta del '34, Ciocca si sofferma sul significato politico e ideologico dell'idea di un teatro concepito per le folle: le sue considerazioni tecniche, sostiene Ciocca, non hanno nulla a che fare l'ispirazione artistica (ambito che non gli appartiene), né con la possibilità fisica di portare a contatto con gli autori folle di spettatori. Secondo l'ingegnere la funzione di tale teatro non è quella di allargare a dismisura i confini dell'arte: «il teatro di massa», dichiara,

«è prima di tutto un'arma politica e culturale di grandissima efficienza. [...] per [l'Italia] politica sociale e cultura sono una cosa sola. Se possedessimo già oggi il teatro per 20.000 [...] la sua funzione sarebbe importantissima. Servirebbe per le parate, per le grandi riunioni corporative e di popolo, per i discorsi di propaganda, per il cinematografo [...] per le grandi esecuzioni liriche e musicali. [...] nel teatro italiano non ci sarà più posto per i drammi erotici e oper i drammi gialli. Esaltando l'energia, la lotta, la velocità, il progresso, il teatro di massa risveglierà la fede e desterà la coscienza corporativa».30

In un intervento successivo Ciocca riprende il discorso precisando che il teatro di massa è un teatro che «insieme alla culture, alla tecnica, all'economia di massa mira ad aumentare l'efficienza degli individui e della collettività»,31 dove il concetto di «efficienza» è inteso come beneficio collettivo, opposto a quello di profitto individuale. Il teatro di massa viene pertanto concepito come strumento tanto educativo quanto, ancora una volta, di autorappresentazione. Al teatro corporativo, sostiene, «accorrerranno le folle, non per alimentarvi basse passioni o volgari piaceri, non per ripagarsi nell'ozio delle durezze del lavoro, ma per raffinarsi, per rendersi più colte, più conscie della propria forza e dei proprii doveri, in una parola più efficienti».32
Bontempelli, dal canto suo, propone l'idea del teatro di massa come espressione artistica tipica della società contemporanea: nella sua relazione si sofferma sulla centralità del concetto di teatro innanzitutto come spettacolo, ovvero non tanto come opera poetica, quanto come forma d'arte che trae la sua vita dall'essere «immediat[a], transitori[a], strettamente legat[a] ai gusti, cioè ai costumi e agli interessamenti anche più caduchi di un'epoca e al suo linguaggio o gergo, perfino alle sue depravazioni e ai suoi capricci».33 Tale carattere d'immediatezza rende il teatro una forma di spettacolo eminentemente popolare (dalla tragedia greca, alla rappresentazione sacra medievale, alla Commedia dell'Arte, fino all'operetta e al balletto russo), legata alle necessità della propria epoca, ma soprattutto sottolinea l'importanza del pubblico. Bontempelli dichiara necessaria una rivalutazione della storia del teatro non tanto come svolgimento dell'opera d'arte, ma in quanto «svolgimento del pubblico, del suo comportamento di fronte allo spettacolo».34 La riflessione sul rapporto imprescindibile fra opera teatrale e pubblico rimanda alla consapevolezza del passaggio inevitabile da opera d'arte a prodotto culturale a cui l'opera si deve sottoporre, non solo per recuperare senso all'interno del mondo produttivo, ma anche per attivare quel processo mitopoietico che, secondo Bontempelli, dovrebbe dare senso all'istanza palingenetica della cultura del dopoguerra.

 

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IV. Monumentalismo e rappresentazione storica

Simili considerazioni si trovano nella ristampa dell'articolo bontempelliano Proposta per Via dell'Impero, pubblicato sulla «Gazzetta del Popolo» il 13 dicembre 1933 e riproposto su «Quadrante» nell'ottobre 1934. La creazione di Via dell'Impero trasferisce il passato romano in un contesto attuale, eliminandone ogni retaggio archeologico e trasformandolo in «energia della Roma presente»: ciò avverrebbe tramite la visualizzazione istantanea del passato e la sua appropriazione da parte del popolo.35 Bontempelli aveva già espresso tale visione mitica della rappresentazione storica in un corsivo sulla Mostra della Rivoluzione Fascista, in cui aveva osservato come gli eventi storici rappresentati si fossero fatti mito in virtù dell'afflato poetico emanato dallo stesso materiale storico.36 Come è stato puntualizzato da Claudio Fogu, l'utilizzo della rappresentazione visiva è tipico della modalità di produzione dell'immaginario storico fascista, in cui non si utilizzano lieux de mémoire, ma piuttosto si creano luoghi di «produzione» della storia, in cui si rifiuta l'idolatria del passato di marca ottocentesca e si pone in primo piano il concetto di «presenza» nella rappresentazione storica.37 L'idea della creazione di un corto circuito passato-presente veicolato dall'opera d'arte viene ribadita da Bontempelli con la proposta di fare uscire le statue dai musei, dove languiscono senza visitatori, ed esibirle in Via dell'Impero, ovvero di recuperare il significato del monumento reinserendolo nell'ambito del panorama urbano, così da ripensare un contesto di fruizione collettiva e organica alla quotidianità, che modifichi il senso e il significato dell'opera d'arte.38
La concettualizzazione del collettivo nel contesto urbano si ritrova base degli articoli di Ciocca sul suo progetto di città corporativa. Quest'ultima dovrebbe per Ciocca espressione di un corporativismo - quello fascista - in cui la compagine nazionale è potenziata al massimo. Secondo Ciocca il corporativismo si distingue sia dal collettivismo, in cui tutto è prestabilito dallo stato e l'uomo non è che uno strumento, sia dal liberalismo, ove ciascuno rincorre il proprio interesse individuale: per Ciocca il corporativismo è ordine e gerarchia e il suo obbiettivo è quello di «rafforzare al massimo la compagine nazionale» in modo da evitare dispersioni di energia e da rendere la nazione pronta a «resistere a tutti gli assalti e a superare tutte le difficoltà». Nel contesto urbanistico ciò corrisponderebbe al controllo dei confini urbani, ma anche delle attività delle città stesse, con una pianificazione della popolazione, delle attività produttive, delle funzioni culturali e amministrative, e con un occhio particolare alla sanità e all'igiene, puntando alla razionalizzazione massima dell'uso degli spazi, obbiettivi da raggiungere attraverso la collaborazione e la rinuncia all'individualismo tecnico, e soprattutto attraverso il desiderio di porre «l'interesse generale sopra a tutti gli interessi particolari».39 Secondo Ciocca, «il popolo cerca oggi non soltanto la propria elevazione materiale, ma anche e più la propria elevazione spirituale. Ecco il punto di partenza per lo studio della città futura ideale, che non sarà la città più ricca, o la più popolosa, ma quella che fornirà agli uomini la migliore possibilità di raggiungere il perfetto equilibrio della vita».40 A difendere l'esposizione di un progetto ingegneristico quale quello di Ciocca in una galleria d'arte (il progetto era esposto alla Galleria del Milione di Milano) interviene Bardi con un corsivo in cui giustifica la scelta di rompere la consuetudine di mettere in mostra soltanto la cosiddetta «arte pura»: ancora una volta Bardi sostiene il principio del fronte unico dell'estetica e della necessaria correlazione fra le arti visive e applicate.41 La presenza stessa di Bontempelli in quanto letterato co-direttore di «Quadrante» viene spiegata secondo simili criteri e lo scrittore comasco viene citato come maestro di modernità, i cui precetti possono essere utilizzati non solo dagli scrittori: «un architetto, un pittore, un artista di qualsiasi settore, vi possono prelevare un pugno di lievito e servirsene».42
Anche la riflessione sulla natura e sul ruolo delle esposizioni rientra nella più ampia riflessione sul rapporto fra arte e collettività, come si rileva nell'articolo degli architetti del gruppo B.B.P.R. (gli architetti Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers), in cui si ripensa il compito politico-sociale delle esposizioni alla luce delle grandi mostre del regime, in particolare la Mostra della Rivoluzione Fascista e la Mostra dell'Aeronautica. Gli autori dell'articolo sottolineano come in queste mostre si sia riusciti a coinvolgere il pubblico nel fare storia. Il fatto esposizione infatti non deve essere un elenco di dati e fotografie o una rappresentazione statica di un attimo della vita della nazione, ma deve dare al pubblico un senso di unità, una visione panoramica efficace. Commentano gli autori:

«Per educare occorre trovare un "mezzo" che permetta al popolo di dirigersi verso la cultura. Poiché nel nostro secolo la cultura è frazionata in minute specializzazioni, è necessario trasportare le conoscenze dei singoli al di sopra della realtà contingente in un "mezzo" spirituale dove agnuno possa agire liberamente. Poesia, ecco il "mezzo" che ognuno respira, artista, tecnico, pubblico. Il tecnico sale oltre il piano della propria limitata esperienza attraverso l'artista che la rivive, la esalta, e l'offre al pubblico».43

Il fronte unico delle arti viene successivamente invocato da Bontempelli contro il decorativismo: il concetto dell'edificazione senza aggettivi, dello scrivere a pareti lisce, viene utilizzato dallo scrittore per ribadire sia il rapporto che intercorre fra le arti, sia l'istanza di funzionalità alla base della sua estetica del moderno: «tutta la campagna estetica del dopoguerra» - dichiara - «infierisce contro l'arte come decorazione [...], vuole che l'arte nasca con naturalezza dalla funzione; e mira come risultamento a un ritrovato gusto della semplicità. In questo senso ha combattuto contro il decorativismo, in architettura, il dercadentismo in letteratura, l'esagerazione strumentalista in musica, la retorica nel costume».44
In definitiva, Bontempelli, Bardi e i collaboratori di «Quadrante» mirano a utilizzare il paradigma architettonico come modello di fruizione del prodotto estetico, in quando forma artistica in grado di coinvolgere un pubblico in una forma di ricezione massificata. L'architettura si pone come perno di un discorso culturale più ampio che ha al suo centro un progetto di costruzione dell'identità nazionale in cui l'intellettuale riveste un ruolo fondamentale nella definizione dei parametri culturali della nazione. Il fronte unico dell'estetica auspicato «Quadrante» dovrebbe appropriarsi dei mezzi di comunicazione di massa e formare il gusto collettivo, trasformando l'arte da sistema di produzione e ricezione elitario a sistema di comunicazione. L'utopia di rinnovamento rappresentata per alcuni intellettuali dall'avvento del fascismo dovrebbe facilitare l'integrazione del discorso intellettuale nei meccanismi formativi dell'identità nazionale. Ciononostante, il fascismo «modernista e corporativo» a cui «Quadrante» anela, come giustamente osserva Tentori,45 non si realizza. L'emancipazione del pubblico attraverso il ripensamento dell'esperienza estetica in termini collettivi si scontra con la politica di controllo perseguita dal regime e metabolizzata in termini ideologici da alcuni intellettuali (significativa in questo senso è la polemica relativa al dossier «Quadrante» sulla Casa del fascio di Como di Terragni, che chiude le pubblicazioni della rivista nel '36).46 A questo proposito i problemi di Bontempelli con il regime sono ben noti. «Quadrante» rimane una delle testimonianze più significative delle battaglie per la costruzione della modernità culturale nell'Italia fra le due guerre, a cavallo fra politica e ideologia, internazionalismo e nazione, ansia di realizzazione e utopia.

 

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Giugno-dicembre 2012, n. 1-2


 

 

 

 

 

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