Francesca Cadel
Intervista a Gian Mario Villalta

 

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Puoi raccontare lo sfondo culturale da cui nasce la tua esperienza umana e poetica, a cominciare dal paesaggio fino ai risvolti storici e sociologici che ti coinvolgono e che, come tu stesso hai indagato da studioso, costituiscono in parte il medesimo orizzonte per un poeta come Andrea Zanzotto?

Ippolito Nievo, un grande scrittore scomparso durante il naufragio di una nave garibaldina all'alba dell'unità d'Italia, racconta l'entroterra veneziano soprattutto nel suo capolavoro Le confessioni di un italiano, e vi descrive il Friuli come "un piccolo compendio dell'universo". Questa espressione, che si riferisce a un ambiente naturale primo ottocentesco, riguarda la varietà dei paesaggi che questa terra presenta, in un breve spazio racchiuso tra le Alpi e la laguna veneta. Tra le montagne e il mare, vi si trovano, a distanza di pochi chilometri, la pianura alluvionale e la pianura morenica, le colline, i canyon, i deserti pietrosi dei Magredi e i greti dei principali fiumi, su tutti il Tagliamento raccontato da Hemingway in Addio alle armi. Vi si trovano i boschi e le risorgive (aree dove le vene d'acqua incontrano un contrafforte argilloso ed emergono in superficie sgorgando tra l'erba, tra i sassi, formando pozze e rivi). Vi si trovano i cieli più belli del mondo, come seppe dipingerli Tiepolo, in virtù del forte contrasto tra la presenza delle acque e delle pietraie candide all'ingolfarsi delle nuvole in gorghi d'afa, purificata di frequente dalla gelida bora proveniente da est, che scatena spaventosi e bellissimi temporali.
Ma il Novecento ha fatto di questa terra il teatro principale di due guerre mondiali. La prima si racconta brevemente guardando le fotografie del Carso, dove combatté il soldato Giuseppe Ungaretti e scrisse le sue belle e strazianti poesie, e poi di Udine, dell'area del Tagliamento. Boschi trasformati in deserti, strade cancellate dalle bombe. La seconda guerra mondiale portò, oltre alle bombe, l'occupazione fascista e la guerra partigiana. Fu una guerra che durò più a lungo di quanto le date storiche dicano: il confine yugoslavo e l'occupazione alleata permisero solo alcuni anni più tardi una definizione (e una chiusura politica traumatica) dei confini.
Dopo il periodo di Ricostruzione, finita la guerra, una rinnovata fiducia e una congiuntura economica favorevole permisero a questa terra, da sempre agricola e, per lunghi anni nel Novecento, povera, segnata da una forte emigrazione, di avviare uno sviluppo industriale straordinario. All'interno del cosiddetto "miracolo economico" italiano degli anni Sessanta, il Friuli si caratterizza per intensità e velocità, così da presentarsi alla metà degli anni Settanta con una inedita forte scolarizzazione, una produzione industriale tra le più alte d'Europa e, però, forti contrasti culturali dovuti all'entità e alla velocità dei cambiamenti.
Nel 1975, pochi mesi prima della sua tragica morte, nel recensire il volume Un po' di febbre del poeta Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini esordisce ricordando "quanto era bella l'Italia degli anni del fascismo e del dopoguerra". Non è certo la nostalgia per la dittatura a guidare la penna dell'autore delle Poesie a Casarsa, ma la constatazione della nuova realtà paesaggistica e antropologica dettata dallo sviluppo industriale. Prendendo spunto da un fatto visibile, la "scomparsa delle lucciole", che egli imputa all'inquinamento ambientale, Pasolini denuncia una catastrofe culturale. Se pure possiamo non essere d'accordo con le sue nostalgie fortemente erotizzate, dobbiamo ammettere che Pasolini, guidato dall'intuizione potente che spesso Eros gli offre, coglie in profondità la frattura antropologica che s'è venuta a creare tra il Friuli arcaico e contadino e la nuova alienata realtà industriale.
Questo sviluppo industriale massiccio e velocissimo è anche, fin dagli anni Sessanta, uno dei temi di fondo della poesia di Andrea Zanzotto, visto in continuità con il terrore seminato dalle due grandi guerre, come fattore di spaesamento e di disorientamento sociale ed esistenziale. La fine della civilità contadina, con la sua densità millenaria di simbologie, di riti, di forme sociali di obbligata solidarietà, lascia il posto alla solitudine tecnologica dell'individuo esposto a una quantità di saperi e di poteri che non riesce a organizzare in un orizzonte coerente. Le comunità famigliari che formano la vita di paese, le parlate locali che racchiudono questi piccoli mondi, sono devastate dalla nuova - e per molti aspetti benvenuta - realtà di aumentato potere economico e di abbondanza dei consumi.
Per quanto mi riguarda, nato nel 1959, e perciò cresciuto negli anni cruciali di questa vicenda, la lacerazione tra il mondo contadino e la nuova realtà industriale è la storia della mia famiglia, delle mie esperienze formative e delle mie scelte di vita. Scelte non sempre consapevoli e volute: la consapevolezza della frattura dolorosa tra il nuovo potenziale economico e l'arretratezza delle istituzioni culturali, per esempio, mi avrebbe spinto fin dagli anni dell'università a voler vivere altrove, a Bologna, per esempio, dove mi sono laureato e dove la cultura mostrava di essersi sviluppata con più armonica continuità, presentando allora pubbliche e private possibilità che in Friuli, e in particolare nella provincia dove vivevo, Pordenone, non esistevano. Ma la mia realtà famigliare non mi permise questa avventura. Sono rimasto. Ho iniziato a fare l'insegnante in un liceo, pur continuando a scrivere e a interessarmi di tutto quello che succedeva nella cultura nazionale e locale.
A questo punto è necessaria un'osservazione: Pordenone si sviluppa enormemente e con una velocità supersonica, tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, sul piano industriale; però manca di tutto, non ci sono medici, avvocati, professori, quadri medio alti dell'industria e della pubblica amministrazione. Avviene quindi una forte immigrazione, che ha caratteristiche ben diverse da quelle di Milano e Torino e, in generale, delle altre città industriali del nord d'Italia: qui la mano d'opera c'è, manca tutto il resto. Da un lato, quindi, i contadini iniziano a lavorare nel settore metalmeccanico e continuano a coltivare il loro piccolo pezzo di terra (fenomeno che vale loro l'appellativo di "metalmezzadri"), dall'altro vi è una forte immigrazione di persone dotate di un titolo di studio e di una diversa esperienza di lavoro. Persone che vengono dalle cittadine vicine ma, soprattutto, da tutta Italia, che presto si integrano in una inedita compagine sociale, piena di lacerazioni ma anche di una insospettabile vitalità.
A cominciare dagli anni ottanta, infatti, librerie, cinema, gallerie d'arte diventano il motore di un processo che porterà, all'inizio del nuovo millennio, a fare di Pordenone il centro più vivace e più innovativo nella cultura di tutto il nordest italiano.


Come e quando hai iniziato a scrivere poesia, quali sono stati i primi incontri con altri poeti.

Chi non ha iniziato a scrivere poesia tardi e in relazione a un preciso evento, si compiace di dire che i primi versi risalgono ai rimbaudiani sette anni. Piacerebbe anche a me. Ma dubito che i miei "pensierini" (allora si chiamava così l'esercizio di scrittura più diffuso nella scuola elementare) fossero particolarmente poetici. Cercavo di scrivere bene usando una lingua italiana bella. Per me che ero approdato alla scuola parlando in famiglia fino ad allora soltanto dialetto (e non possedevamo ancora un televisore), scoprire insieme la scrittura e la lingua italiana è stato un evento straordinario. Il fatto che la maestra corresse a mostrare i miei "capolavori" alla sua collega dell'altra pluriclasse significava forse condividere lo stupore per l'uso della lingua, non tanto per gli effetti poetici. Ho un solo ricordo "poetico", ed è che avevo usato la parola "proda" (del fosso), che c'era in una poesia di Pascoli e forse un'espressione come "sonnolento schiudersi delle gemme", ma forse quest'ultima cosa me la sono inventata dopo e adesso mi pare un ricordo vero. Però Pascoli e Leopardi si imparavano a memoria già dai primi anni delle elementari. La poesia l'ho incontrata così.
Gratificato perché "scrivevo bene", con una gran passione per la lettura (non altrettanta per lo studio, quella è venuta dopo), ho sempre scritto, in seguito, anche con intenzioni "artistiche". Ma è stata una grande delusione personale, legata alla musica, di cui ero innamorato pazzo verso i sedici anni, a indirizzarmi definitivamente verso la poesia. Conoscevo abbastanza i poeti italiani allora considerati i più importanti, ma so che l'acquisto e la lettura di The Waste Land di Th. S.Eliot ha determinato l'inizio vero di tutto. Curioso forse dire che oggi Eliot non sarebbe mai tra i primi poeti da me suggeriti.
Tutto questo senza riferimenti diretti, personali, a poeti o critici. Solo all'università, nella classe di Estetica di Luciano Anceschi, ho incontrato degli amici con la stessa passione. Nel 1979, al primo anno di università, in quattro andammo da Bologna a Milano per seguire i lavori di un lungo convegno su La parola innamorata, che aveva presentato in un'antologia con il medesimo titolo molti dei nuovi poeti venuti allora alla ribalta, tra i quali Maurizio Cucchi, Giuseppe Conte, Milo De Angelis e il giovanissimo Valerio Magrelli.
Da quel momento posso dire di aver cominciato a legare la mia passione per la poesia alla realtà poetica effettiva di chi in Italia la poesia la faceva. Ma è stata una cosa molto lunga. Sono andato a trovare una prima volta Andrea Zanzotto nella primavera del 1980, senza appuntamento. L'ho incontrato sulla soglia di casa, stava uscendo, mi ha liquidato con poche parole. Però in seguito mi ha sempre risposto, quando gli inviavo qualcosa da leggere, con delle cartoline postali. Poche frasi ma per me importantissime.
Solo con l'86 ho visto stampate ufficialmente due mie poesie su una rivista importante (Alfabeta) e dopo due anni ho pubblicato un libretto, Limbo, legato ad una piccola editrice, che faceva anche una rivista, e che aveva tra i suoi principali attivisti un poco più che ventenne Davide Rondoni. In quello stesso anno ho scritto e pubblicato la mia prima plaquette in dialetto. È stato sempre nell'88 che ho conosciuto Amedeo Giacomini e che Andrea Zanzotto mi ha ricevuto "ufficialmente" a casa sua.
Da qui cominciano anni più veloci, quando inizio a organizzare gruppi ed eventi a Pordenone e dintorni, mentre scrivo sempre di più per riviste e conosco sempre meglio i poeti più famosi e interessanti di quel periodo (da Loi a Baldini, da Giudici a Fortini). Due i momenti per me decisivi: l'avvio della serie di incontri con i poeti intitolata La voce della poesia e l'uscita del volume La costanza del vocativo, uno studio sulla "trilogia" di Andrea Zanzotto composta da Il Galateo in Bosco, Fosfeni e Idioma. È il 1992. Da quest'anno inizia una fase diversa che mi porta a contatto diretto con i maggiori poeti e allo stesso tempo segna l'inizio di un lungo rapporto di lavoro e di amicizia con Franco Buffoni, e poi con Stefano Dal Bianco, in seguito con Mario Benedetti e Antonio Riccardi.
La voce della poesia è, in un certo senso, oltre che una novità, la premessa al successivo sviluppo di pordenonelegge. Fino ad allora gli incontri con i poeti erano sostanzialmente o convegni (in cui il poeta vestiva i panni del critico o dell'esperto di poesia) oppure presentazioni di novità editoriali, che si svolgevano così: c'erano un critico letterario (o due) e un poeta; il critico parlava per un'ora in linguaggio strettamente accademico di temi universali e di particolarità infime del libro proposto - quando aveva finito al poeta restavano le vaghe e perplesse domande del pubblico disorientato dall'intervento precedente. Invece, per La voce della poesia avevo voluto che accadesse questo: il poeta doveva raccontare la sua esperienza formativa e artistica attraverso la lettura e il commento di alcune sue poesie e di altre scelte tra i principali dei suoi autori di riferimento. Un'ora e un quarto, non di più. Durante questo tempo parlava e leggeva solo il poeta ospite, mentre io, come da accordi meticolosamente presi, facevo da spalla intervenendo solo per collegare i temi e, se occorreva, porgendo i libri che stavano impilati su un tavolino posto tra me e lui (o lei). Niente domande dal pubblico.
Un successo mai visto. Anche duecentocinquanta persone. Applausi sonori e frequenti. Persone del pubblico che cominciano ad arrivare anche da cittadine a sessanta chilometri di distanza.
Sul piano più personale dello scrivere, approfondire la conoscenza di un'opera abissale come quella di Zanzotto mi stava portando a nuove consapevolezze. La prima era la necessità di una riflessione radicale sulla lingua in rapporto alla tradizione poetica. Senza risparmiarmi contraddizioni. Non rinnego, al proposito (anche se non è finita bene), la mia breve esperienza con il gruppo sperimentalista che faceva capo alla rivista "Baldus", di cui mi resta di buono se non altro l'aver conosciuto Lello Voce e Massimo Rizzante. Devo dire però che è stato dall'amicizia con Amedeo Gacomini, e poi dalle discussioni con Dal Bianco, Benedetti e Riccardi che si è andato delineando un mio cammino di poesia personale, non sempre lineare, è vero, ma spero autentico. Per quanto riguarda questi ultimi, ho scritto un libro, uscito nel 2005, che si intitola Il respiro e lo sguardo, dove parlo anche di loro (e di altri) e dove soprattutto provo a mettere a fuoco con semplicità alcuni temi di poetica fondamentali per me nel decennio (e più) che ha portato infine alla pubblicazione di Vanità della mente


Come nasce quel "laboratorio culturale" che è oggi la città di Pordenone?

Pordenone diventa rapidamente, alla fine degli anni Ottanta, una città ricettiva, aperta agli stimoli, vivace di esperienze compiute fuori e poi riportate "a casa" da ogni parte del mondo. Cinema, musica, fumetto, teatro, arte arrivano per primi. La letteratura arriva più tardi, ma in modo più massiccio. Dello sviluppo industriale e dell'immigrazione ho detto prima, di altre particolarità di Pordenone accenno ora: la presenza in città e nella provincia di una quantità impressionante di militari di carriera e di leva e quella della base aeronautica e missilistica statunitense di Aviano, a cinque chilometri dal centro cittadino (il Friuli Venezia Giulia è in quel periodo, con Berlino, il punto più caldo della mappa politica europea). Un po' Berlino est (quantità di militari italiani e stranieri) e un po' American Graffiti (hamburger e bowling, steakhouse e bar a luci rosse per i soldati della base Nato). A questo si aggiunga che Pordenone è diventata dal 1968 la prima "nuova provincia" dell'intera amministrazione italiana. E' accaduto non per meriti storici o culturali, ma perché aveva un polo industriale enorme, ingestibile dalla sede provinciale di Udine, da cui dipendeva. Perché è interessante tutto questo? Perché fino al '68 non c'è praticamente niente, a Pordenone. E poi si fa tutto nuovo. Soprattutto, non ci sono istituzioni culturali consolidate. All'inizio degli anni Ottanta, quando in tutti i capoluoghi di provincia d'Italia il sistema è già così invecchiato che se non hai cinquant'anni non ti danno neanche la parola, a Pordenone dei trentenni iniziano a guidare la cultura e dei ventenni già pensano come superarli.
Poi viene anche un grande lavoro di conoscenza e relazione. Per quanto riguarda la poesia inizia una stagione fortunata per il Friuli Venezia Giulia e Pordenone non tarda a diventare il maggior punto di riferimento, grazie al lavoro di molti, Aldo Colonnello, Ida Vallerugo, Pierluigi Cappello, Amedeo Gacomini, oltre a me (e poi, Francesca, c'è stato anche il tuo contributo da lontano - Parigi, New York - e da vicino quando tornavi). Pordenone diventa un posto di curiose coincidenze: mi ritrovo a lavorare, a trent'anni, con una futura produttrice cinematografica di culto (Indigo film), a incrociare senza conoscerlo (diventeremo amici più tardi) un ragazzo che un giorno vincerà due David di Donatello per le colonne sonore cinematografiche (Teho Teardo), a trattare come un pivello (non me lo perdonerà mai) un protagonista della scena musicale degli anni successivi, nonché importante autore di graphic novel (Davide Toffolo)... e l'elenco potrebbe continuare. Persone che possono fare esperienze e mettersi alla prova, per confrontarsi con il mondo e poi ritornare. E poi tornare via, ma lasciando una traccia, mantenendo una relazione. Pensa a come ci siamo conosciuti noi, Francesca: una tua compagna di liceo, tua amica, era la fidanzata del già citato Stefano Dal Bianco. Lei di famiglia siciliana, lui di Padova, abitavano a Milano: ci siamo incontrati a Pordenone.


E un fenomeno come pordenonelegge come si afferma?

Quando ho avuto l'incarico di guidare pordenonelegge, la manifestazione, consumato con insuccesso il suo secondo anno, era alquanto depressa e provinciale. Era provinciale soprattutto perché voleva imitare qualcosa che si faceva altrove, mantenendo un forte complesso di inadeguatezza rispetto ai "centri" riconosciuti della cultura nazionale. Già allora avevo una convinzione: i "centri" non esistevano più, non secondo la logica novecentesca del rapporto centro-provincia. La rivoluzione telematica stava cambiando il mondo. Non era più permesso essere provinciali. La provincia italiana, che tanto aveva dato alla cultura, non esisteva più: nell'attuale conurbamento telematico, il "centro" è dove le cose accadono. Quindi, se fai accadere qualcosa di bello, di importante, quello diventa uno dei centri del mondo. E arrivano centomila persone. E ne parlano tutti i giornali. E gli scrittori e i poeti, che le prime volte, quando li chiamavo per invitarli, chiedevano immancabilmente "Dov'è Pordenone?", poi lo imparano, e "manifestano il desiderio" di partecipare alle loro case editrici o direttamente all'organizzazione.
Per quanto riguarda come fare, avevo solo due intuizioni, che venivano dalla mia esperienza. La prima era che il modello Voce della poesia funzionava, quindi occorreva un dialogo diretto con gli autori, se possibile focalizzato su qualcosa di stimolante. La seconda era quella di imparare ad ascoltare e accogliere le proposte e le collaborazioni che venivano dalla città e dal terrritorio. E infine, il progetto condiviso con Mauro Covacich, Alberto Garlini, Valentina Gasparet e Sara Moranuzzo (in ordine alfabetico, i miei "soci") era da subito quello di coinvolgere l'intero, gradevole, centro storico della cittadina in una specie di "festa", che avesse caratteristiche di popolarità, ma proponesse anche occasioni di incontro con autori raffinati e di culto. E' andata bene. La città si è riconosciuta, molti hanno fatto a gara per dare il loro contributo. Infine - ho lasciato per ultimo questo particolare assai rilevante - la Camera di Commercio di Pordenone, da cui nasce l'impulso originario della manifestazione e che ha la proprietà del "marchio", ha sempre dato il suo fondamentale sostegno e non ha mai interrotto la sua opera di consenso istituzionale. Proprio così, la Camera di Commercio, Industria, Artigianato di Pordenone è promotrice, sostenitrice e organizzatrice di uno dei due più grandi festival di letteratura in Italia: anche questo fatto illustra in modo evidente le "stranezze" di questa piccola città.


Hai scritto la tua prima plaquette di poesie in dialetto, Altro che storie!, nel 1988. Nell'ultimo tuo libro di poesia, Vanità della mente (2011), il dialetto occupa la parte centrale del libro. C'è una nota, però, a questa sezione, che racconta di un tuo cambiato atteggiamento, nel tempo, rispetto agli inizi. E forse anche una possibile presa di distanza: parli di "congedo". Puoi fornirmi qualche precisazione?

Partiamo da una considerazione: quando ho cominciato a scrivere in dialetto, per diversi motivi, tra i quali l'influenza di Zanzotto, l'ho fatto perché sentivo necessario pormi radicalmente la domanda su quale fosse l'essere me stesso dentro la mia lingua. È qualcosa che un poeta deve fare. Da lì deve partire per interrogarsi sulla tradizione, sullo scrivere e sul suo tempo. Nella lingua si costituisce, in un rapporto originario, la relazione tra sé e tutto ciò che a questo sé si relaziona, anche quando si relaziona per diffrazioni o frattali di assenze.
Quando ho iniziato a scrivere in dialetto, sono partito dall'interrogare la mia condizione di parlante "nativo" e allo stesso tempo di "rinato" dentro l'italiano (e altre lingue letterarie), dove avevo acquistato una mia identità - personale e sociale - differente. La mia condizione era diversa da quella dei miei maestri: mentre per loro l'opposizione dialetto/lingua letteraria era maturata con la loro vita, in una realtà ancora molto simile alla tradizione secolare della cultura italiana, nel tempo in cui si compiva la mia formazione era accaduto qualcosa di assolutamente nuovo e straordinario - la radio, la televisione, la nuova mobilità delle persone, l'aumento della frequentazione della stampa, l'accresciuta scolarizzazione, avevano inventato la lingua italiana. Una lingua italiana nuova, attaccata dai letterati perché banalizzata e standardizzata, ma per la prima volta lingua - uso un'espressione ottocentesca - "di popolo", ovvero comprensibile ed effettivamente parlata da tutti gli italiani. Per secoli c'era stato un italiano letterario e una lingua parlata regionale e locale. Queste ultime lingue nutrivano la letteratura, ma ne erano escluse, o costituivano una tradizione (quella dialettale, appunto) di eccezionalità. Dalla metà degli anni settanta, e in modo più evidente nel corso degli anni ottanta, non solo gli italiani hanno per la prima volta - bella o brutta - una lingua comune, che comprendono e parlano, ma anche cominciano a riconoscere le varie altrui parlate regionali, acquisendo diversa coscienza della propria. Per me il dialetto non poteva essere quindi "lingua della poesia", come era stato per molti, né "lingua della realtà", intendendo per realtà la vita quotidiana opposta a quella letteraria. Non poteva neppure essere la lingua di un "io" alternativo, antropologicamente più arcaico e psichicamente più profondo, com'era stato accennato in Pasolini, come emergeva in Zanzotto e nel miglior Giacomini. Perciò Altro che storie!, quel mio primo poemetto dell'88, verteva soprattutto nel far brillare le contraddizioni in cui mi dibattevo, chiedendomi cosa fosse davvero per me quel dialetto, nel quale ero cresciuto, completamente immerso per tutta l'infanzia e parte dell'adolescenza.
Non vorrei annoiare insistendo troppo, perciò passo alle conclusioni, dopo venticinque anni e molte altre pagine scritte, delineando l'itinerario di riflessione che mi ha portato fino a quella nota a Vanità della mente che hai menzionato.
L'ipotesi di fondo che determina la grande fioritura della poesia in dialetto in Italia dagli anni settanta alla fine del secolo, ha come orizzonte un presupposto comune a tutte le diverse poetiche che ho indicato più sopra e, aggiungo, a un generale atteggiamento culturale che è stato quello della "riscoperta delle radici". Questo presupposto è stato la profezia e l'attesa della "morte dei dialetti". L'industrializzazione, la migrazione interna, l'inurbamento, la mediatizzazione del comunicare erano le cause indicate. Chi vedeva più a fondo, come Pasolini, indovinava in questi processi un grande (secondo Pasolini, catastrofico) mutamento antropologico. L'attesa "morte dei dialetti" non è avvenuta, e come nella poesia di Kavafis Aspettando i barbari, ha lasciato tutti disorientati. Quello che è davvero avvenuto, ed ha davvero determinato un mutamento antropologico, è stata la fine della civiltà contadina. Un mondo è scomparso e, come ha potuto, è migrato dentro il mondo industrial-tecnologico-mediatico dentro il quale tutti viviamo. Ciò non significa che nessuno lavori più la terra. La faccenda è meno banale. Chi lavora la terra oggi è un operatore del settore agroalimentare, che ha portato con sé, quando va bene, nel mondo in cui è "migrato", qualcosa della sua realtà precedente. Invece di morire, i dialetti sono "migrati", a loro volta, e come tutti i migranti hanno molto lasciato indietro, portando con sé e conservando quanto hanno potuto e voluto. Va tenuto conto che assistiamo oggi anche a un fenomeno, che è microlocale e insieme planetario, di accelerazione di uno dei fattori fondamentali del mutamento linguistico: le migrazioni di individui e di gruppi etnici. Oggi dobbiamo leggere, però, questa nozione di migrazione in termini ancora diversi, per quanto riguarda le lingue: le nuove tecnologie della comunicazione hanno riconfigurato tutto il quadro generale della riflessione. Fino a qualche decennio fa, il migrante tagliava i ponti con il luogo d'origine, eventualmente sperava in un ritorno. Oggi, skype e una webcam permettono un dialogo (e un contatto faccia a faccia) quotidiano. Facciamo un alto esempio: la riflessione sulla lingua e sulla poesia, a partire da Dante, ha gravitato per secoli intorno al concetto di "lingua materna" o "lingua madre" (riassunto nel Novecento anche in termini psicoanalitici, ove è riservato al linguaggio del potere e delle istituzioni sociali l'eventuale ruolo di "parola del padre"). Osserviamo quanto oggi, per un bambino anche molto piccolo, vi sia la totale esposizione alla lingua della madre (o di chi ne fa funzione) e quanto invece sia molteplice l'interfacciarsi con i linguaggi della comunicazione mediatica. Linguaggi altri, che vengono da altrove, da fuori del cerchio dell'affettività famigliare (e etnica). Anche il rapporto lingua/dialetto è profondamente mutato, quindi, negli ultimi decenni, come del resto il rapporto con la tramontata civiltà contadina. Abbiamo una realtà ideologica, oggi in Italia, che tende a contraffare la verità della scomparsa civiltà contadina, in favore di nostalgici falsi valori "sangue e suolo", che con la violenta crisi economica in corso trovano facile accoglienza nel desiderio di consolazione. Per questo oggi chi scrive in dialetto deve avere motivazioni vere, forti e allo stesso tempo criticamente pensate. Soprattutto deve avere ragioni nuove. L'ostacolo più grande è quello di un inconsapevole fraintendimento ideologico, e proprio di fronte a questo ostacolo, come scrivo nella nota da te ricordata, ho deciso di fermarmi a riflettere. Il che non significa "aver abbandonato" il dialetto: "prendere congedo" ha molti altri significati, il primo dei quali è che si sta ancora lì, faccia a faccia, parlando e aspettando che l'altro dica qualcosa.


Ma la lingua della poesia non è solo comunicazione, è forma. Uno dei grandi poeti geograficamente vicini (e quindi vicino per lingua, luoghi, storia) del novecento è Saba. L'altro, quasi al polo opposto, da un punto di vista formale, è Zanzotto. Intendo dire che la forma della poesia è determinata a sua volta da un'originalità esistenziale di temi e di immagini, che si confronta però con una tradizione. Non emerge nella tua poesia il bisogno di dichiarare l'appartenenza e la continuità rispetto a una linea poetica precisa.

Vero. Proprio perché ritengo che la lingua sia, ancora una volta, il vero contenuto della poesia. Pensa al tentato effetto di contraccolpo degli anni ottanta, quando molti poeti hanno rivisitato le forme canoniche del sonetto e del madrigale: endecasillabi e rime obbligate. Bene, se andiamo a vedere, queste esperienze non riescono a parlare quella lingua veramente. Ne rappresentano forme, a volta straordinarie, di dissoluzione, di parodia, di feroce e doloroso controcanto ironico. È il sound di quella lingua a non essere più formalmente sintonizzato sull'esistenza, e quindi non può diventare voce diretta, viva, di un'esperienza. Tieni conto di un'altra cosa, che conosci bene (lo so perché ne abbiamo parlato molte volte): la coscienza di un italiano alfabetizzato comprendeva al massimo titolo, fino a qualche decennio anni fa, la poesia. In questo senso era possibile anche un'operazione di provocazione o contrasto dall'interno, come ironia, appunto, parodia, addirittura terroristica "antipoesia". Muoversi in tutta evidenza lungo una o l'altra linea della tradizione poetica, dichiararlo apertamente in termini formali, voleva dire partecipare a qualcosa che la poesia veicolava - nella sua forma - in modo sociale, sovraindividuale, rispetto a un orizzonte di attesa ancora vivo.
Viene da sorridere quando ricordiamo che ci sono state, in un passato abbastanza recente, infinite dispute, che finivano anche sulle pagine culturali dei quotidiani, dove ci si chiedeva se i cantautori erano veramente "i poeti del nostro tempo"? Era un'idiozia, ma significava chiaramente la coscienza di qualche cosa che la poesia generava come attesa e dialogo nell'orizzonte più vasto di una cultura che riguardava anche il lettore di quotidiani. Oggi questa continuità è spezzata. In Italia la "letteratura" è attualmente incardinata al sistema editoriale e mediatico, che ha escluso la poesia. Si parla talvolta di poesia, sui quotidiani, ma per celebrare qualche ricorrenza o per accompagnare qualche necrologio. Le recensioni dei libri di poesia sono quasi del tutto scomparse, le discussioni sull'argomento letteralmente inesistenti. La poesia vive (vive! per fortuna), ma dentro un reticolo di relazioni personali e di occasioni pubbliche circoscritte. Il risultato è che mentre la maggior parte degli italiani (alcuni dei quali anche sedicenti poeti) hanno sentito nominare Pasolini e leggono Alda Merini (l'unica che è diventata un fenomeno mediatico) non conoscono neanche il nome di Sereni e di Caproni, di Baldini e di De Angelis, neppure la maggior parte dei professori di italiano dei licei.
Per tornare alla tua domanda, è forse necessario un richiamo a Saba, tenendo conto che il suo discorso si sviluppa in opposizione ai mediatici avanguardisti e al mediaticissimo D'Annunzio, per quanto concerne il dovere di una poesia che si rivolga con sincerità a un interlocutore diretto, a un "tu", un "volto" individuale capace di riconoscere un altro volto, e non a un orizzonte di attesa culturalmente determinato.


Ma hai detto a un certo punto che la poesia vive, lo hai detto anche con un po' di enfasi...

Oggi in Italia c'è molta buona poesia. E c'è una poesia femminile di straordinario interesse: Antonella Anedda, Anna Maria Carpi, Ida Vallerugo, per fare solo qualche nome. Purtroppo è sommersa in un mare in cui c'è anche tanto velleitarismo e tanta malafede. Ma non importa. Quello che importa è questo: è sentita ancora da più di qualcuno come una forma essenziale di espressione, una possibile voce di autenticità. È un impulso/bisogno non cancellato. Al momento significa molto.


Mi chiedevo se invece il titolo del tuo libro, Vanità della mente, non avesse qualcosa a che fare con questo momento in cui a qualcuno può sembrare "vano" scrivere versi.

In un certo senso. Il rischio della "vanità", intesa come inutilità, illusione, atto che manca il suo scopo, è sempre presente nella vita umana. Oggi più che mai, soprattutto per la poesia, tanto pochi sono i punti di riferimento che ci conferiscono qualche certezza. Non possiamo però fare a meno di dare un senso alla nostra vita, alle immagini che la attraversano, al tempo che inafferrabilmente forma in essa le sue figure. A tutto questo si aggiunge un'altra cosa: la quantità di informazioni che ci investe istantaneamente, la disponibilità quasi infinita di saperi e di poteri, la meravigliosa tecnologia della comunicazione, ci rendono "vani" in un altro senso che la parola italiana può assumere, ovvero ci rendono "vanitosi". In poesia, il passaggio dal Romanticismo al Simbolismo ha visto il "cuore" diventare "anima". La cultura degli ultimi decenni ha fatto sì che l'"anima" diventi "mente". L'era della "mente" è anche l'era delle tecnologie della comunicazione e dell'esplosione dell'universo dei simboli. La mente, nella sua presunzione, crede ormai di poter manipolare i simboli a piacimento, se ne adorna vanitosamente. Poi, di fronte alla sua natura, ai fatti fondamentali di questa sua grazia e condanna naturale che è la vita, questa vanità della mente, presunzione "vanitosa", si tramuta in scacco, in coscienza della propria vanità, intesa come risuona nelle parole dell'Ecclesiaste, inutilità, insensatezza, vuoto di scopo. Il titolo Vanità della mente vorrebbe racchiudere, tra queste due polarità, proprio il significato di quel lavorìo incessante, di quella cura che è formare espressioni, figure che danno senso.


Un titolo, quindi, che invita a leggere il libro nelle sue singole parti come momenti di tensione che "abitano" questa polarità?

Sì. Ancora di più, visto che hai subito colto un aspetto essenziale di questo libro, direi che questo succedersi di "momenti di tensione" è il carattere di fondo, che dà forma al libro. Ci sono quindici sezioni, che sono moltissime, in questa raccolta di poesie, che io considero unitaria. Alcune di queste sezioni accolgono poche o pochissime poesie, anche solo due. D'altra parte, è il risultato in un lavoro di più di dieci anni. Cos'è successo? Per semplificare, direi che in questi dieci anni ho combattuto tra due diverse tensioni formali, una è stata quella del "canzoniere" (del "diario" poetico, ovvero del rendere conto "nel tempo" delle occorrenze dell'esistenza), l'altra quella del "progetto", vale a dire racchiudere nella dimensione poematica uno sguardo sulla realtà, parte totale, se così si può dire, di una generale condizione. Saba da una parte, il Bonnefoy di Douve dall'altra. Mi è accaduto di perdermi e ritrovarmi a diversi livelli, dentro questa tensione, ritornando "in uno stesso tempo" nei diversi tempi della progettualità e dell'esistenza che scorre, soffrendo e riproponendo una verità che si faceva pluralità, consonanza, scarnificazione. Di una raccolta di trenta poesie a volte ne sono rimaste una decina, di una decina due. Insieme a questo lavoro di richiamo alla verità "nel tempo" e "col tempo", anche una divaricazione di accenti e di temi, che ho trovato infine costituire, nonostante tutto, un'unità. Si può parlare di nuovo di Saba, a questo proposito. Mentre focalizza meglio un tema, in alcuni momenti della sua opera, insistendo con diversi "pezzi" autonomi, ma coerenti, vi sono dei componimenti eccentrici, dei piccoli nuclei che sembrano sfuggire alla continuità e invece sono lì per dire qualcosa su come ci attraversano, a volte, le esperienze, come agiscono su di noi mentre ci sentiamo catturati in altre sfere. Non sono componimenti soltanto "occasionali", ma inizi, e insieme resti, di possibilità, di errori importanti, di tentazioni/tentativi.


Per questo tuo ultimo libro hai ricevuto nel 2011 il Premio Viareggio, il più importante riconoscimento della tradizione novecentesca italiana. Te lo aspettavi? Ti sei sentito gratificato per il tuo lavoro? L'anno precedente il premio era stato conferito a Pierluigi Cappello, anche lui poeta friulano. Significa qualcosa per questa regione e quello che vi sta accadendo sul piano della poesia?

Il Premio Viareggio mi ha dato molte gratificazioni, che si assommano tutte nel cogliere nei miei confronti il senso di un accettato "rientro" a tutti gli effetti nella schiera dei poeti. Mi ero occupato di critica, di editoria (in fondo è anche questo che fa, chi organizza un festival), avevo scritto due romanzi e una specie di pamphlet socioculturale. La cosiddetta comunità dei poeti italiani perdona e favorisce la prima attività, ovvero l'esercizio della critica e della saggistica letteraria. Invece ritiene che occuparsi di editoria e scrivere romanzi equivalga a schierarsi dalla parte dei cattivi, quelli che sono contro la poesia. È qualcosa che avviene sia a livello conscio che inconscio. Si aggiunga che negli ultimi anni, seppure scrivendo e pubblicando qualche plaquette di poesia, non mi ero più fatto molto presente sulle riviste e nei ritrovi di poeti. Voleva dire aver perso in un certo senso il diritto ad essere considerato un poeta. Ecco che con questo libro e questo premio sono di nuovo un poeta! E che più di qualcuno ha notato che non ho mai smesso di pensare e di scrivere poesia. Davvero bello!
Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda, non solo l'anno precedente aveva vinto Pierluigi Cappello ma, nel 2011, quando ho vinto io, nella prima rosa dei finalisti c'era anche Ida Vallerugo. Non si tratta di segnali insignificanti. È stato importante, in questi anni, non solo lavorare molto ma anche molto ascoltare e condividere, promuovere, facendo un passo indietro rispetto al narcisismo naturale dei poeti in favore di una crescita generale di consapevolezza e di peso. Qualche frutto arriva, oggi, con soddisfazione. Un'intera regione, che sembrava del tutto marginale rispetto alla realtà della poesia italiana, e che aveva avuto in Pasolini e Saba soprattutto due grandi, particolarissime eccezioni, può contare oggi su una nuova attenzione, che spero permetta col tempo di valorizzare anche chi non ha avuto il riconoscimento che meritava, come Amedeo Giacomini, per esempio. Tengo a sottolineare che non si tratta solo di veder emergere due o tre nomi: i lavori in corso dicono altro, e di più. È l'interesse per la poesia, la qualità limpida anche di altri poeti, forse meno conosciuti, da Umberto Valentinis a Silvio Ornella, da Ivan Crico a Giacomo Vit a Federico Tavan, soprattutto nel confronto con le parlate locali, che raccontano una stagione vivace e importante. E ancora di più è la diffusa partecipazione agli eventi poetici ad essere importante e a costituire lo sfondo per una notevole diversità di esperienze di valore che coinvolgono molti altri poeti.

 

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Giugno-dicembre 2012, n. 1-2


 

 

 

 

 

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