Srecko Jurisic
Gli "oggetti narrativi non identificati" di Don Nené. Spigolature sulla saggistica di Andrea Camilleri

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Camilleri e il NIE
La strage dimenticata
La bolla di componenda
L'umorismo pirandelliano in Camilleri
Confronti e similitudini
Conclusioni


 

§ II. La strage dimenticata

I. Camilleri e il NIE

A più riprese, nel memorandum sul New Italian Epic, si fa riferimento ad Andrea Camilleri e, a scorrere le varie rezioni critiche, sembra che la cosa abbia provocato discrete dosi di stupore tra i fan e presso alcuni addetti ai lavori. La sorpresa è dovuta soprattutto alla difficoltà che si avrebbe ad associare i romanzi di Camilleri (quelli storici e civili e magari Il giro di boa del ciclo di Montalbano) alle altre opere menzionate da Wu Ming nel memorandum (i libri di Lucarelli, Evangelisti, Carlotto, Wu Ming, per intenderci). Checché se ne dica o si pensi del memorandum, Wu Ming ha pienamente ragione ad affermare che «Alcuni, come Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli e Massimo Carlotto, hanno lavorato sul poliziesco in modo tutto sommato "tradizionale", per poi sorprendere con romanzi storici «mutanti» (La presa di Macallè, L'ottava vibrazione, Cristiani di Allah1 come anche nel dire che il vastissimo respiro di Il re di Girgenti rifletta una particolare condizione epica (NIE, p. 14) strettamente collegata allo «sguardo obliquo» e alla conseguente struttura asimmetrica dei svariati romanzi di Camilleri. Viene citato l'esempio di Il casellante della sua "falsa partenza", ma se ne potrebbero annoverare parecchi altri a sostegno di tali ipotesi (la struttura sbieca di Privo di titolo, ad esempio, o in parte anche quella del recentissimo La setta degli angeli che costringe il lettore allo strabismo interpretativo) di modo da fugare tutti i dubbi circa l'inserimento di Camilleri nell'elenco in questione. L'inserimento di Camilleri non è altro che la conferma dell'attenta sensibilità del collettivo bolognese rispetto al movimento di idee culturali in Italia e dell'altrettanto attenta lettura dell'opera dell'autore, pressoché interamente trapunta da un impegno discreto e mai banale (tra l'altro costantemente puntellato con contributi su riviste come Micromega e Limes non che da un nutritissimo repertorio di interviste che Camilleri rilascia infaticabile).
È fuori dagli obiettivi di questo saggio almanaccare circa la presenza di Camilleri nel memorandum o dibattere circa i "requisiti" neoepici del suo corpus di romanzi o entrare nel merito del NIE nel suo insieme. Ci sembra più interessante indugiare su qualche sua opera e sondarne quell'atipicità tutta Italian, inquadrare, cioè, criticamente quella parte dell'opera camilleriana che più sembra refrattaria agli incasellamenti esegetici.

 

§ III. La bolla di componenda Torna al sommario dell'articolo

II. La strage dimenticata

La sorpresa e lo stupore sul binomio Camilleri - NIE vengono meno se si tiene conto di una parte della produzione camilleriana che solitamente, nei computi critici, viene obliata. Ci riferiamo ai saggi camilleriani La strage dimenticata (Palermo, Sellerio, 1984), La bolla di componenda (Palermo, Sellerio, 1993), La biografia del figlio cambiato (Milano, Rizzoli, 2000) e Le pecore e il pastore (Palermo, Sellerio, 2007), dei veri e propri "oggetti narrativi non identificati" (gli UNO).2 Si tratta di libretti sorprendenti, di una genìa indefinita e diversa, recalcitranti agli scompartimenti stagni della critica che, per certi versi e cronologia alla mano, fanno dello scrittore di Porto Empedocle una sorta di decano della neoepica.
L'esordio di Camilleri è indelebilmente segnato dal "sciascianesimo", più o meno consapevole. A più di dieci anni dal termine della stesura (nel 1978) esce per l'editore Lalli di Roma Il corso delle cose (poi riapparso per i tipi della Sellerio vent'anni dopo), un romanzo fortemente improntato al magistero di Sciascia, nel tono e nei contenuti, ed è sciasciano per molti versi anche il volume La strage dimenticata apparso pochi anni dopo, sempre per Sellerio:

«Il primo saggio arriva nel 1984 con La strage dimenticata, che però poteva essere un romanzo. Aveva forse bisogno di "ragionare" in prima persona, ciò che il saggio consente più che un romanzo?
Come ho detto altre volte, quando ebbi in mano le carte che comprovavano la strage (tra l'altro le agghiaccianti centoquattordici pagine dell'ufficio anagrafe che registravano la morte simultanea di centoquattordici detenuti), le consegnai a Leonardo Sciascia perché fosse lui a scrivere un saggio tipo Dalla parte degli infedeli. Sciascia invece volle che lo scrivessi io. Si parlò sempre di saggio. E io un saggio scrissi, sia pure a modo mio».3

Scrivere un saggio «a modo mio» significava forzare ulteriormente il modello sciasciano, sempre tenuto ben presente, e imbastire quasi un dialogo con il lettore che così diviene complice di un'indagine che Camilleri compie sotto i suoi occhi. L'incipit è quasi fiabesco («C'era tra i libri di mio nonno una tragedia in versi (e naturalmente in cinque atti)...»)4 e spesso il tono è da scrittura intima (quella di un diario o di un libro di memorie) nonostante il libretto indaghi e renda conto di una strage. Camilleri ricorre a citazioni più o meno abbondanti da libri di storia, alle canzoni popolari e alle fonti orali a lui vicine5 e talvolta si abbandona a lunghi excursus personali collocati tra parentesi quadre nel corpo del testo.6
Diversamente da quanto fa con altri libri simili, qui Camilleri non fornisce una bibliografia alla fine del saggio (ma se ne potrebbe ricostruire una di circa una decina di titoli scorrendo il volume). Nell'Appendice (gli elementi paratestuali sono spesso fondamentali in Camilleri) l'autore finisce quasi con l'ammettere il suo fallimento come saggista e tocca un altro punto interessante:

«Ho spiegato che non ho testa di storico, e me ne rendo conto giunto alla fine, quando m'accorgo che non ho consultato che pochi libri di storia e non ho messo piede in un archivio a cercare carte e documenti. Potrò perciò essere smentito in qualsiasi momento, ma si creda alla mia sincerità se dico che di ogni eventuale smentita sarò contento. A me interessa che la seconda strage, quella della memoria, sia in qualche modo riscattata. E mi si perdoni magari il linguaggio, il suo colore, le sue intemperanze, che da storico certamente non è. Ho tra le mani un solo documento, incontrovertibile: il registro dei morti che ho tanto spesso citato. L'elenco dei nomi è stato trascritto con santa pazienza da Pepé Fiorentino, io non faccio altro che ricopiarlo» (SD, p. 69).

L'autore paventa che con la verborrea degli storici miopi che cita e con le cui tesi e le cui narrazioni inquinanti è in disaccordo (Baldassare Marullo su tutti) si possa verificare la «scomparsa dei fatti», un concetto evidenziato, seppur in un contesto diverso, anche da Wu Ming nel memorandum (NIE, p. 132 e poi l'omonimo paragrafo a p. 142 ssg.) e lamentato anche da Marco Travaglio nell'omonimo libro del 2006 (La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, Milano, Saggiatore).7 L'intento dell'autore della Strage dimenticata non è un mero divertissement intellettuale o lo sviscerare di un cold case attraverso il modus del giallo archeologico, tanto per fare. La valenza di quanto scrive non è quella di un faldone impolverato vecchio un secolo e mezzo, ma è quella di de nos fabula narratur. L'allegoria (letteralmente, parlar d'altro) parla paradossalmente proprio di noi e dei nostri tempi. Lo conferma lo stesso Camilleri in una breve intervista dedicata proprio alla Strage dimenticata:

«Smontando la tesi di Marullo e accreditando quella di nonna Carolina lei arriva a ipotizzare che, nel caso del funerale dei detenuti uccisi e dell'arresto di Sarzana, si sia avuto un esempio di "tragediatura" collettiva. Ma ci si può ingannare in nome collettivo sapendo di farlo? Che categoria dello spirito siciliana è questa?
Ci si può ingannare collettivamente sapendo benissimo di farlo. Lei la chiama categoria dello spirito siciliana, io lo chiamo modo d'agire abbastanza abituale italiano. Esempi? A josa. Guardi come ci vengono raccontate le stragi che hanno insanguinato il nostro paese nella seconda metà del secolo scorso».8

Le stragi borboniche vengono, dunque, equiparate a quelle odierne, legate al terrorismo di stato, allo stato a doppio fondo e viene sottolineata l'universalità del crimine. La risposta alla domanda successiva dell'intervista (e il saggio successivo di cui ci occuperemo) potrebbero considerarsi una sorta di corollario non solo a tutta l'opera di Camilleri ma anche al paragrafo del memorandum di Wu Ming, Accade in Italia (NIE, pp. 18-20). Leggiamo la risposta di Camilleri alla domanda di Bonina:

«La messinscena, come nel caso di Sarzana in arresto, ma come anche nel caso di Giuliano, che lei richiamerà in La bolla di componenda per indicare appunto una "componenda", è un genere che ritiene siciliano o tutto sommato nazionale?
Mi pare che il primo esempio di componenda che faccio nel mio libretto, e se non il primo tra i primi, è una componenda tra contrabbandieri di sigarette, produttori di sigarette, Guardia di Finanza e direttore del Tg1. Non si svolge nemmeno in Sicilia».9

 

§ IV. L'umorismo pirandelliano in Camilleri Torna al sommario dell'articolo

III. La bolla di componenda

Camilleri scrive La bolla di componenda a cavallo tra il 1991 e il 1992 (è, tra l'altro, l'anno delle stragi, quella di capaci (23 maggio '92) e, soli 57 giorni dopo (19 luglio 1992), quella di via Amelio) e il libretto vede la luce nel '93 sempre per la Sellerio. Ancora una volta il nume tutelare è Sciascia e forse il magistero dello scrittore di Racalmuto si sente, qui, ancor di più10, almeno in alcune parti del libro in cui la scrittura di Camilleri è meno sciolta e più controllata anche se lo scrittore ammette di non essere tagliato per una simile fatica («Mi scuso di avere integralmente citato (con qualche piccolo taglio) senza riassumere, ma devo confessare d'essere cosciente di non saper nemmeno lontanamente scrivere come invece lo sanno coloro che di tali questioni sottilmente si occupano. Sono troppo rozzo davanti a ineffabili sfumature, a quasi invisibili tinteggiature», BC, 95). La lingua è un italiano quasi puro (innumerevoli le concessioni al dialetto nel "saggio" precedente), ma anche qui abbondano narrazioni romanzate di aneddoti personali (uno aggraziato slalom tra (auto)fiction e faction) e i riferimenti ai libri di storia consultati sono frequentissimi e addensano il tessuto di un volume di cui nel diciottesimo ed ultimo capitolo lo stesso autore dice così:

«Mi sono abbandonato alla fantasia, all'invenzione, e forse è atteggiamento disdicevole in un contesto tanto serio: ma è stato come un istintivo gesto di autodifesa, un tentativo inutile di fuga. Se ho messo mano a questa ricerca, e l'ho magari scritta, è stato soprattutto perché mi è parso giusto dare una risposta, sia pure con centotrent'anni e più di ritardo, a due persone che tentarono di farsi conto e ragione di certi andamenti difficilmente comprensibili dell'animo della mia gente. [...] Tutte le inchieste sulla Sicilia, fino a quella di ieri, nel labirinto delle "cagioni" non hanno mai voluto addentrarsi, sia che venisse offerto loro il filo di Arianna o un sofisticatissimo computer. E perciò si sono sempre limitate a descrivere un paesaggio ai loro occhi di necessità indecifrabile e a cercare di modificarlo con maldestre, rozze pennellate di alti commissariati, superprocure, supergiudici, senza conoscere il tocco del pittore, la tela, la composizione dei colori. Sicché ogni volta è bastato un solvente a portare alla luce il vecchio paesaggio intatto, perfettamente restaurato. [...] Che l'uso della bolla di componenda sia scomparso non può che rallegrarmi anche se rimane la componenda.
Ma se mi tornano a mente quegli anni che furono detti di piombo, della bolla di componenda mi assale una sottile nostalgia. Quelli che ritennero necessaria l'invenzione e l'azione del terrorismo erano in buona parte di provenienza cattolica e pensate con quanto entusiasmo avrebbero accolto la bolla. [...] La bolla però ci avrebbe risparmiato, non la scia di sangue certamente, ma la tarantella dei pentimenti, delle dissociazioni, della crisi di coscienza, dei rimorsi, dei distinguo, dei cristiani perdoni. Tutti, assassini e no, innocenti o colpevoli, avremmo goduto di tranquilla coscienza. Quando il disegno di questo scritto mi divenne chiaro, dissi a Leonardo Sciascia che avrei voluto scrivere qualcosa sulla bolla di componenda. Non ne sapeva niente, conosceva solo la componenda, quella laica. Allora gli spiegai di cosa si trattava e lo pregai di aiutarmi bibliograficamente (altra volta l'aveva fatto con molta amicizia). Dovevo assolutamente trovare una bolla di componenda originale per dare maggior credito a quanto avevo in mente di scrivere. Fece una pausa, mi taliò, sorrise del suo sorriso. "Tu una carta così non la troverai mai" mi disse. E infatti non l'ho trovata».11

Con un'opera ibrida, un oggetto narrativo non identificato, in cui rimastica con agilità il vissuto personale (anche qui a tratti si registra l'ipertrofia dell'io narrante)12, le inchieste parlamentari sulla Sicilia (quella ufficiale del 1875 e quella ufficiosa e d'opposizione del dynamic duo Franchetti e Sonnino), una mezza dozzina di libri di storia (anche qui manca una bibliografia ragionata a fine volume), The Beggar's opera di Gay, L'opera da tre soldi di Brecht, i romanzi di Defoe, e persino il Retablo di Consolo, Camilleri tenta la spiegazione di quella forma mentis inspiegabilmente siciliana che riconosce, in seguito a delle metastasi sociali, nella dolente doppiezza italiana e alla radice di molti mali nazionali.13 La Sicilia come metafora, verrebbe da dire, col titolo della nota intervista a Sciascia di Marcelle Padovani con frasi dal Giorno della civetta che tornano prepotentemente a mente:

«Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffé ristretto, del caffé concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffé forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già, oltre Roma...».14

Camilleri racconta gli atti parlamentari a modo suo, da esperto teatrante qual è, e così quelli che sono dei profili "burocratici" di persone diventano dei veri e propri personaggi da teatro del grottesco o peggio: «E su Bariola devo aprire una parentesi. Quando verrà interrogato a Messina dalla Giunta, il Maggior Generale apparirà per quello che è, una macchietta. Deponendo, si alzerà dalla sedia, farà un inchino, una piroetta, allargherà le braccia, chiuderà gli occhi fingendosi morto, si risiederà, farà un balzo, cangerà voce. Esterrefatto, lo stenografo comincerà a segnare tra parentesi i movimenti del generale e così i seri atti della Giunta si trasformeranno nel copione di una farsa d'avanspettacolo» (BC, p. 51); si continua con svariati altri riferimenti al mondo del teatro («La risposta del generale è, ai miei occhi, assolutamente drammatica nella sua struttura pirandelliana» (BC, p. 60); «Ho detto che di mestiere faccio il regista principalmente di teatro. Presumo quindi di avere le carte in regola per dire che il dialogo tra il generale e i membri della Commissione non quadra, non persuade»(BC, p. 65).

 

§ V. Confronti e similitudini Torna al sommario dell'articolo

IV. L'umorismo pirandelliano in Camilleri

I riferimenti al teatro e a Pirandello, poco più su, obbligano a toccare un punto importante della linea letteraria raccontata dal memorandum e un aspetto fondamentale dell'opus camilleriano, ovvero il riso. Sovente a Camilleri viene rimproverato il tono comico o ridanciano. Accade probabilmente ai critici che si limitano alla macchietta di Catarella nella serie di Montalbano e a una lettura tutto sommato epidermica degli altri romanzi camilleriani. Il riso di Camilleri, nelle sue varie declinazioni (dall'ironia al grottesco ecc.) e negli intenti s'innesta perfettamente su quello proprio della linea siciliana della narrativa moderna15 che parte dall'ultimo Verga, passando per Capuana, Pirandello, Rosso di San Secondo, Brancati, Sciascia ecc. Solo accettando la profondità del riso camilleriano lo si può vedere prossimo allo stimmung della nuova epica. Ogni situazione legata al riso in Camilleri cela un grosso sforzo costruttivo. Scrive Wu Ming a proposito del riso nel memorandum:

«Giusto e serio. I due aggettivi non sono scelti a caso. Le opere del New Italian Epic non mancano di humour, ma rigettano il tono distaccato e gelidamente ironico da pastiche postmodernista. In queste narrazioni c'è un calore, o comunque una presa di posizione e assunzione di responsabilità, che le traghetta oltre la playfulness obbligatoria del passato recente, oltre la strizzata d'occhio compulsiva, oltre la rivendicazione del "non prendersi sul serio" come unica linea di condotta. Va da sé che per "serio" non s'intende "serioso". Si può essere seri e al tempo stesso leggiadri, si può essere seri e ridere. L'importante è recuperare un'etica del narrare dopo anni di gioco forzoso. L'importante è riacquistare, come si diceva al paragrafo precedente, fiducia nella parola e nella possibilità di "riattivarla", ricaricarla di significato dopo il logorio di tópoi e clichè» (NIE, pp. 23-24. Corsivi nel testo).

Wu Ming parla di un riso empatico, partecipato e responsabile, un riso che non resta, glaciale, in superficie, ma che, consapevole di quello che è e dei mezzi, le parole, di cui si avvale, discende in profondità. Mai nelle opere NIE ci troveremo dinanzi ad un riso rappresentabile in maniera vettoriale con un'orizzontalità dispersiva. Per avere il peso necessario esso deve viaggiare su una linea verticale che gli consenta il movimento pressoché pendolare tra l'alto dell'epifania illuminante e il "basso" della profondità intesa sia come la riflessione, sia come la compartecipazione emotiva.
Confrontiamo il passaggio wuminghiano appena citato con un altro brano, arcinoto, dedicato all'argomento:

«Ebbene noi vediamo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma di sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionatamente; ne scompone l'immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi e che difatti chiamo il sentimento del contrario. Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico».16

L'umorismo di Camilleri è, a nostro avviso, la diretta filiazione di quello pirandelliano. Non ne è una pallida copia in carta carbone, ma la sua logica evoluzione e la lettura attenta dei due passaggi non può, fatte le proporzioni del caso, non rilevare una certa prossimità, delle affinità tra quanto teorizzato da Pirandello e l'atmosfera captata da Wu Ming nel suo saggio. A questo punto, i detrattori potrebbero interrogarsi sull'originalità delle affermazioni fatte da Wu Ming (come infatti è stato fatto da Benedetti, Di Stefano e altri), ma ciò tirerebbe in ballo anche quella di Pirandello che, ad esempio, di certo non è stato l'inventore del metateatro, ma probabilmente il suo più felice rappresentante e che non è stato l'unico a tentare di dare una sistemazione teorica all'umorismo in quegli anni, ma gli va riconosciuto il merito di una definizione riuscita: estremamente semplice e particolarmente adatta all'interpretazione critico-letteraria. Grosso modo, negli stessi anni escono anche Il riso. Saggio sul significato del comico (1900) di Bergson e Il motto di spirito (1905) di Freud. Pirandello giunge terzo (1908) e scrive il suo saggio per esigenze accademiche e a ritroso, potremmo dire, fissando in teorie quanto già applicato in precedenza nel romanzo umoristico (Il fu Mattia Pascal, apparso nel 1904) e in una manciata di novelle. Il suo merito, come quello di Wu Ming, non sta necessariamente nell'originalità, ma nella sensibilità, nella percezione di una temperie letteraria e culturale condivisa. «New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro di (dei?) Wu Ming [...] [è], altamente meritorio per il solo fatto, - raro, ripeto, - di entrare nel merito».17

 

§ VI. Conclusioni Torna al sommario dell'articolo

V. Confronti e similitudini

Nel 2000 Camilleri pubblica La biografia del figlio cambiato (Milano, Rizzoli) e il volume reca in bella vista, sulla copertina dell'edizione paperback, la dicitura «Il romanzo della vita di Luigi Pirandello». Lo stridore tra i termini "romanzo" e "biografia" esisterebbe solo in virtù di una rigida concezione del romanzo. Camilleri nella nota che chiude il volume definisce così il libro:

«Questo libro ambisce ad essere la trascrizione di un mio racconto orale sulla vita di Luigi Pirandello da un punto di vista limitato e del tutto personale. L'idea mi nacque da un breve intervento da me fatto al convegno "Le parole del teatro", nel 1996, a San Miniato, nell'ambito dei corsi di "Prima del Teatro". Per la trascrizione, come il lettore facilmente si accorgerà, ho adoperato due diversi registri di scrittura, uno dei quali, via via che il racconto procede, si fa sempre meno presente fino a scomparire del tutto. Il racconto non è destinato agli accademici, agli storici, agli studiosi di Pirandello ché queste cose per loro son risapute, ma al lettore più che comune. Senza la fondamentale biografia di Gaspare Giudice (UTET, 1963) scrivere questo racconto mi sarebbe stato impossibile. Ne ho largamente approfittato e lo ringrazio. Non cito qui articoli e saggi che pure mi sono stati utili, ma solo alcuni volumi che ho consultato e utilizzato (a parte, naturalmente, l'opera omnia di Pirandello pubblicata da Mondadori)».18

Camilleri ci racconta Pirandello passando in rassegna momenti della biografia a suo avviso topici concentrandosi soprattutto sul rapporto dello scrittore con il padre Stefano. La ricostruzione della parabola biografica di Pirandello non segue affatto l'ordine cronologico, pur rispettando una scansione temporale essenziale in tre epoche. Procede piuttosto come un'esposizione orale, per nuclei tematici e/o più o meno libere associazioni di idee, procede identificando vita e linguaggio (viene in mente Joyce e quel capitolo dell'Ulisse in cui lo scrittore irlandese ripercorre tutta la storia della lingua inglese, da Chaucer a se stesso). La lingua con cui ci viene raccontato Pirandello "matura"19 seguendo la maturazione dello stesso Pirandello.20 Camilleri costruisce il personaggio Pirandello attorno alla definizione di Pirandello come "figlio cambiato" rinviando a un racconto popolare, diffuso in molte parti del mondo, che Pirandello ebbe modo di ascoltare dalla domestica Maria Stella e che gli ispirò anche una novella intitolata appunto Il figlio cambiato (1902), una composizione favolistica da essa tratta (1932)21 e persino una parte del capolavoro incompiuto I giganti della montagna. Il racconto tradizionale, nell'area del Mediterraneo, parla di una donna disperatamente convinta che il suo bambino brutto e storpio non sia realmente suo figlio, ma sia stato scambiato dalle streghe. Per lungo tempo Pirandello (e Camilleri stesso per un breve periodo dell'infanzia) si sentì un "figlio cambiato" e cresciuto in una famiglia che non era la sua. Il dubbio sull'appartenenza, e il conseguente burrascoso rapporto con il padre, è il concetto cardine attorno a cui ruota l'intero "saggio".
Limitandosi «a tirare fuori con le pinzette alcune cose e metterle l'una affianco alle altre», senza fare «nessuna scoperta»22 Camilleri reinventa - riscrive a modo suo - il genere della biografia letteraria offrendo ai lettori il romanzo di una biografia, ulteriormente caratterizzata dalla cifra personalissima dello stile e della lingua. E forse stavolta l'"oggetto narrativo non identificato" di Camilleri, quasi a confermare la propria ambiguità letteraria, ha un equivalente proprio tra le opere addotte nel memorandum da Wu Ming come «narrazioni maestose e indefinibili» (NIE, p. 12). Ci riferiamo, fatte le dovute proporzioni, a Hitler il romanzo di Giuseppe Genna (con la parola romanzo rigorosamente sbarrata sul frontespizio).
Camilleri, lo dichiara egli medesimo, segue la monumentale biografia di Giudice e Genna "sceneggia" gli studi di Joachim Fest. In ambedue i casi si procede per quadri, scene quasi simboliche e si fa ricorso al folklore o al materiale presunto tale (rispettivamente, la favola del figlio cambiato e il leit motiv Lupo Fernir). Il lettore si trova dinanzi a opere che non possono pretendere di spiegare niente e si limitano a liberare la potenza evocativa della parola (o fanno, in maniera squisitamente letteraria e proficuamente, finta di farlo). In entrambi i casi, terminata la lettura, si ha la sensazione che lo scrittore voglia gettare la storia che ha appena raccontato, la voglia azzerare o allontanare in qualche modo. Qualche punto di contatto non è certo il crisma di appartenenza vista anche l'estrema diversità dei soggetti dei due libri, ma fa sì che le due opere rientrino in quel particolare clima rilevato da Wu Ming.
Allo stesso modo si potrebbe accostare, sempre con moltissima cautela, il camilleriano Le pecore e il pastore (Palermo, Sellerio, 2007, d'ora in poi PP seguito dal numero di pagina) a Gomorra di Saviano (uscito l'anno precedente per Mondadori). Anche qui, come nel caso dell'accostamento al libro di Genna, il confronto è "penalizzante" per Camilleri, soprattutto per la scelta dell'argomento (anche se Camilleri in parte tocca la "sociologia della mafia" o i temi caldi quali l'eutanasia)23, ma l'intento ci sembra analogo: un viaggio di studio (o d'indagine) nelle realtà oscure e perniciose della storia italiana, un viaggio da compiere con partecipazione emotiva (la storia si svolge, ci dice l'autore, «dalle mé parti» e si susseguono avventure personali che coinvolgono direttamente lo scrittore nei fatti riferiti). Oltre a fare osservazioni metaletterarie24 e coinvolgendo massimamente il lettore a cui Camilleri si rivolge a più riprese (ponendogli domande da whodunnit quali «Allura chi era stato?» (PP, p. 72), o dando risposte («Via, non babbiamo», PP, p. 78); richiamando la sua attenzione («Attenzione, però!», si esclama a p. 59); costringendolo ad arrestare la lettura («Fermiamoci un momento», PP, p. 74) o fornendo commenti riguardo al caso in questione («Non credo che la facenna stia accussì», PP, p. 79) o, addirittura, commenti ironici a fatti tutto sommato macabri (uno smembramento viene definito «una maldestra autopsia», PP, p. 61).
Camilleri apre il suo libro con rimandi danteschi (il luogo in cui si muovono i personaggi è «selvaggio et aspro e forte» (PP, p. 11) per poi continuare con una voce narrante che imporrà di prepotenza ma che non si presenta come onnisciente. Camilleri porta avanti la sua indagine ancora una volta in maniera strutturalmente sbieca perché l'attentato al vescovo Peruzzo è solo apparentemente l'argomento principale del libro (che invece vorrebbe fare luce sul presunto sacrificio al Signore di dieci giovani suore) e si muove, artifex abilissimo, tra fiction e non-fiction riempiendo egli stesso i vuoti tra le verità storicamente provate.25 Saviano costruisce Gomorra con reportages, articoli di giornale, verbali della polizia ecc. e Camilleri fa più o meno la stessa cosa in Le pecore e il pastore, ricorrendo a una bibliografia (stavolta elencata alla fine del volume), ai documenti storici e ai materiali d'archivio.
Non è nostra intenzione parlare di intertestualità o di confronti serrati tra le due opere, ma ci sembra che la loro natura, ibrida e marcatamente italiana, sia la stessa. L'intento di scrivere di realtà tutto sommato note ai più, ma che comunque necessitano di essere ricordate e (ri)scritte perché così si "capiscono" meglio ci sembra analogo. Nella scelta dei temi Camilleri spesso si perde negli incartamenti addirittura ottocenteschi e non va a sfruculiare la gente di Scampia, ma ciò non toglie nulla alla carica allegorica delle sue opere, le sue storie hanno sempre senso e l'urgenza di essere raccontate. Il sentore dell'impossibilità di controllo e di padronanza sulla struttura, a volte molto forte nelle opere neoepiche, sulla lingua e sul contenuto (e conseguentemente sulla reazione di pubblico e critica) è nello scrittore siciliano meno percettibile. Tra gli autori di cui si dice nel memorandum Camilleri è quello più "classico" perché si muove sul terreno del già noto, strutturalmente e linguisticamente parlando. La sua sperimentazione, fortemente novecentesca, non spiazza del tutto il lettore e centra, pertanto, più spesso il bersaglio. Gli espedienti quali i manoscritti ritrovati, dossier messi insieme quasi alla rinfusa o seguendo il gusto per il paradosso (che a Pirandello qualcosa pur dovrà), l'onomastica parlante ecc. altro sono tra i topoi letterari (per non dire tra i clichè) da secoli, ma vengono opportunamente risemantizzati e rimessi a nuovo per essere utili alla causa.

 

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VI. Conclusioni

In conclusione, qualche cenno a quello che, insieme al regime delle simmetrie imperfette e ai conseguenti plurimi livelli di lettura, sembra il tratto distintivo degli "oggetti narrativi non identificati" di Camilleri. Si tratta proprio di quella lingua "bastarda" e perennemente al centro di attenzioni (e polemiche) da parte della critica che Camilleri, quasi fosse un souvenir, un calco in gesso del siciliano vende ai turisti lucrandovi assai e godendo del loro sempre nuovo stupore. È soprattutto la lingua che sradica i libri qui presi in considerazione da un potenziale genere d'appartenenza. I saggi (come anche i romanzi) sono scritti con un miscuglio di tecniche narrative (ne La concessione del telefono si separano le "cose scritte" dalle "cose dette"). Per Camilleri conta moltissimo l'oralità, la resa sulla pagina scritta dell'immediatezza della comunicazione orale è la misura stessa della pagina. Donde la definizione che lo scrittore ama attribuirsi: non scrittore ma racconta-storie o, meglio, "contastorie":

«Mi sento, credo di essere, sono orgoglioso di essere un racconta-storie, come certi cantastorie che nella mia infanzia vedevo nelle strade del mio paese. Si mettevano in un cantone e cantavano una storia, generalmente un fatto di cronaca nera, accompagnandosi con una chitarra, davanti a un multicolorato tabellone diviso a riquadri in ognuno dei quali erano dipinti i fatti salienti dell'episodio cantato. Un assistente del cantastorie, con una canna in mano, indicava il riquadro al quale in quel momento stava riferendosi il cantastorie. Dopo era l'assistente, quasi sempre la moglie, la figlia, a passare col piattino per raccogliere le offerte degli ascoltatori».26

L'oralità tracimante è quindi un "requisito" esiziale degli UNO camilleriani, quasi una necessità di poetica, ma si ha a che fare comunque con testi "pianificati" che non riproducono la spontaneità della lingua parlata, ne recuperano solamente alcune caratteristiche per finalità espressive. Il parlato viene stilizzato. Camilleri opera una «mimesi del repertorio orale della lingua, nelle qualità di un mobilissimo 'parlato-scritto'».27 Si stabilisce in questo modo un rapporto di complicità con il lettore, un rapporto diretto, da "contastorie", com'è evidente dal seguente passaggio da La bolla di componenda:

«È un mio difetto questo di considerare la scrittura allo stesso modo del parlare. Da solo, e col foglio bianco davanti, non ce la faccio, ho bisogno d'immaginarmi attorno quei quattro o cinque amici che mi restano stare a sentirmi, e seguirmi, mentre lascio il filo del discorso principale, ne agguanto un altro capo, lo tengo tanticchia, me lo perdo, torno all'argomento» (BC, p. 31).

 

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Giugno-dicembre 2012, n. 1-2


 

 

 

 

 

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