Monica Jansen
Scritture dell'estremo, postmoderno e narrativa del nuovo millennio

 

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Sommario
I.
II.
Nebulosa epica e scritture dell'estremo
Traumi fantasmatici e piedi impigliati


 

§ II. Traumi fantasmatici e piedi impigliati

I. Nebulosa epica e scritture dell'estremo

All'interno di una sezione dedicata al New Italian Epic, non è fuorviante soffermarci sul saggio Senza trauma di Daniele Giglioli,1 che il critico propone come tentativo di cogliere il «sintomo» che meglio rappresenta la narrativa del nuovo millennio.
Mentre il Memorandum dei Wu Ming partiva dalla «temperie post-1993» indicando inoltre due «punti di svolta» nel G8 di Genova e nell'11 settembre 2001 a New York,2 «l'epoca del trauma senza trauma» (p. 7) viene postulata da Giglioli come chiave di lettura della contemporaneità senza una datazione precisa. Il suo ragionamento non si appoggia su date o nomi, perché a detta dell'autore non ha voluto fare critica nel senso consueto del termine. Si basa invece sull'analisi dei singoli testi che insieme sono dei «pretesti» ed è giusto che sia così, aggiunge Giglioli, perché «ogni interpretazione è sempre un uso» (p. 102). Si tratta, motiva Giglioli, di far entrare le opere «nel mondo, scorniciandole dal contesto sterilizzante in cui la letterarietà le pone. Non per farne degli enunciati pseudo-referenziali [...] ma per pensarci e sentirci attraverso» (p. 102).
Accanto alla «nebulosa» proposta dal NIE, consistente di opere con «affinità profonde»,3 si stila l'elenco di scrittori formanti secondo Giglioli una «rete di affinità» (p. 12). Mentre la prima converge nelle varie accezioni dell'«epico»,4 la seconda viene tenuta insieme dalla «scrittura dell'estremo» (p. 12). In parte i nomi coincidono - Bertante, Biondillo, Carlotto, De Cataldo, Evangelisti, Genna, Janeczek, Moresco, Saviano, Siti, a cui Giglioli somma i Wu Ming - ma, mentre i Wu Ming giustificano le loro scelte in base alle opere, menzionando in nota che «l'elenco delle opere NIE è in fieri»,5 Giglioli conclude il suo elenco di autori con «...», osservando che accanto a loro tanti altri avrebbero potuto essere nominati (p. 12). La sua pare perciò una «rete» a maglie aperte e abbastanza aleatoria che serve più forse a distaccarsi da un approccio che potrebbe apparire normativo, come quello del NIE, che a sostenere la tesi centrale del libro, e cioè che il «trauma dell'assenza del trauma» si esprima in queste e altre narrazioni contemporanee attraverso una «scrittura dell'estremo» (p. 7). Con tale formula Giglioli intende una scrittura che rappresenta il «non traumatico sotto le spoglie del trauma» (p. 9), esprimendo così l'idea personale che «l'identità contemporanea riesce a pensarsi solo tramite il dispositivo dell'identificazione vittimaria» (p. 10).
Centrale, e attuale, dunque il concetto della vittima, sul quale Giglioli si è anche soffermato nel suo precedente saggio All'ordine del giorno è il terrore (2007) e al quale sarà dedicato un articolo in corso di pubblicazione intitolato «Critica della vittima» (pp. 25-26). Egli contestualizza la figura vittimaria all'interno del dibattito sociologico-storico che identifica nel genocidio degli ebrei il parametro estremo con cui vengono misurati i vari gradi delle vittime coinvolte, miseramente, in una «concorrenza» reciproca, come ha osservato Jean-Michel Chaumont (p. 10). Non è però questa vittima «reale» che interessa a Giglioli ma proprio l'assenza del trauma che farebbe da perno a queste cosiddette scritture dell'estremo, in cui «estremo» non è da intendere in senso tematico ma in senso performativo (p. 15). L'attrazione verso l'indicibile ci fa capire, secondo Giglioli, che proprio nell'inestricabilità della scrittura letteraria dal Reale risiede una dimensione di riscatto e una possibilità per superare la crisi dell'esperienza. Fondamentale è in questo senso l'analisi dell'autofinzione di Aldo Nove, La vita oscena (2011), perché dimostra che proprio il superamento del trauma vorrebbe dire conformarsi a quelle scritture che dell'assenza fanno una condizione globalizzata. Conclude Giglioli: «Non ha di fronte a sé, lo scrittore, un pubblico che vuole guarire. Da cosa, poi? Dalla ferita di ciò che non è mai accaduto? Guarire sarebbe il trionfo del silenzio, o del frastuono senza stile della comunicazione. Chi ha un trauma vero se lo tiene caro, gli altri raccolti intorno a lui, angosciati e deliziati, ad ascoltare le sue storie» (p. 91).
Due scritture sarebbero le più adatte per giocare la carta dell'assenza: quella di genere e quella dell'autofinzione. Generi che tra l'altro vengono anche menzionati nel Memorandum come pertinenti per il NIE, il primo perché fa parte della popular culture6 e in quanto tale serve a creare comunità,7 e il secondo perché attraverso la tematica dello «sguardo obliquo»8 la prospettiva si alterna tra l'io e la sua voce collettiva.9 In questa lettura l'epica acquista una dimensione etica a livello di una comunanza tra finzione e realtà. Per Giglioli, invece, la crisi dell'esperienza rende materiale la non-coincidenza tra la «realtà» e il «Reale», che sarebbe «ciò che testardamente resiste a ogni tentativo di simbolizzazione» (p. 16). Tale visione mette in questione la pretesa di «realismo» del NIE, che viene presentata come una proposta che diverge da quella basata sulla «denotazione»10 perché tiene conto delle connotazioni, del pensare «figurato» e dell'allegoria, ma che in quanto tale può sempre essere considerata una «rappresentazione "oggettiva"».11 Nella visione di Giglioli, al «Reale indicibile fa appello chi si sa prigioniero senza scampo della lingua» (p. 22). Egli lega la funzionalità dei due generi al concetto dell'«osceno». Mentre la letteratura di genere attraverso la «finzionalità più scoperta» (p. 23) offre la possibilità di vivere l'estremo in quanto «eccezionalità» (p. 27) - «l'estremo è un Virgilio infido che ti porta all'inferno e ti pianta in asso sul più brutto» (p. 38) -, l'autofinzione mirerebbe invece a una «pretesa di autenticità» (p. 23) mettendo però in mostra, con esibizionismo, il «nodo borromeo tra autentico e inautentico, tra esserci e non essere» (p. 55). In comune avrebbero appunto la «strategia dell'oscenità», ovvero rappresentare «un processo di effrazione» e insieme «il rimedio» che cura le «intensità affettive disturbanti» prodotte dalla finzione (p. 24). Bisogna qui anche distinguere modi «sinceri» e «maliziosi» nell'appropriarsi del male altrui, illustrati da Giglioli con gli esempi di Roberto Saviano e Babsi Jones: mentre l'impatto di Gomorra (2006) sta nel proporsi dell'autore attraverso l'immaginario della vittima il che dà un valore esistenziale al suo «io c'ero» (p. 61), Sappiano le mie parole di sangue (2007) avrebbe dato espressione alla «spensierata malafede ontologica con cui tanti odierni scrittori di autofinzione credono di fondere realtà e finzione senza pagare il dazio» (p. 69).

 

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II. Traumi fantasmatici e piedi impigliati

C'è però in quest'analisi stimolante e complessa, frutto di un modo di fare e intendere critica sicuramente condivisibile, qualcosa che non quadra, e Giglioli stesso mette le mani avanti nella sua postilla, e cioè come la mettiamo se le vittime di cui si parla sono vere? «Chi parlasse di trauma fittizio a un migrante, a uno che ha perso il lavoro, o a un precario che non lo troverà mai, potrebbe benissimo sentirsi rispondere che ha sbagliato indirizzo» (p. 105). Da quest'obiezione Giglioli si difende con l'argomentazione che l'assenza in tal caso si traduce in «impotenza», che la «scrittura dell'estremo è la poesia di un tempo in paralisi» (p. 106), e che il vuoto in fondo ha anche una connotazione politica: «Questo è il vuoto, la mancanza, non metafisica ma politica, attraverso cui circola e si diffonde l'energia traumatica della scrittura dell'estremo: autofinzione e genere, Io abnorme e complotto universale sono il parto gemellare di un difetto di politica che non sarà l'invenzione di qualche nuova forma artistica a sanare» (p. 108). È convincente?
Come i fautori del NIE, che nel Memorandum liquidano i «postmodernismi da quattro soldi»,12 anche Giglioli è polemico nei confronti del postmoderno, sia in quanto indicazione di una condizione - «Parlare di postmoderno non è qui sufficiente: dà nome a una situazione, non la spiega» (p. 42) -, sia in quanto cifra poetica di un'ironia fine a se stessa - con riferimento alla letteratura di genere; egli sostiene che a «personaggi piatti e intrecci chiusi corrisponde una testualità aperta verso un infinito potenziale che è tutt'altra cosa dell'ironico citazionismo postmodernista» (p. 39). Il critico di Bergamo scaglia contro la destrutturazione del soggetto che sarebbe il risultato della decostruzione poststrutturalista (p. 107) e cita il famoso incipit di Woobinda (1996) di Aldo Nove, quando era ancora «cannibale», che non può essere scambiato per scrittura postmoderna: non lo «si può ridurre a un mero irridere la lingua e l'immaginazione degradata del consumatore compulsivo sperduto nella triste postmodernità italiana» (p. 91). Come i Wu Ming, Giglioli parla di «responsabilità» del soggetto ma con un senso diverso: non «di fronte a quello che accade su scala planetaria»,13 ma nei confronti della scrittura che introduce «come terzo termine la verità» (p. 106). Dunque, non si tratta tanto di incidere sulla realtà, ma di resistere alla rimozione della dimensione fantasmatica del trauma proprio con l'aiuto di una scrittura insufficiente, impotente e incapace di narrare e quindi di integrare o di sanare l'indicibile. Il principio di «double bind» (p. 84) da Giglioli preso in prestito dalla psichiatria per spiegare i paradossi dell'autofinzione (p. 85), non è estraneo però alla metafinzione postmoderna concepita per esempio da Linda Hutcheon intenta a confrontare la finzione della finzione (la metafinzione) con quella del reale storico, esattamente come vorrebbe la «strategia dell'osceno» messa in atto da Giglioli per spiegare i paradossi del noir. La differenza tracciata tra il «trauma effettivo» della modernità e il «trauma fantasmatico» invece della contemporaneità (p. 17) potrebbe infine benissimo coincidere con la svolta postmoderna concepita tra l'altro da pensatori come Fredric Jameson.
Se si assiste a qualcosa di diverso nei due generi discussi in questo libro, dei quali tra l'altro l'autofinzione viene illustrata con Troppi paradisi (2006) di Walter Siti, che da Giuseppe Genna è stato indicato come il primo romanzo italiano veramente postmoderno14, non basta parlare di un «sintomo» o di una «rete di affinità», ma bisogna anche contestualizzare e storicizzare il fenomeno, nonostante tutto. Sintomatico è in questo senso il finale del saggio sulla pertinenza della scrittura dell'estremo: «Interpretata come un sintomo [...] essa ci mostra quale sia il terreno su cui poggiamo il piede. Il piede sinistro, quello debole. Ora si tratta di decidere dove mettere l'altro» (p. 109). E se l'altro fosse «impigliato nella storia» come recita il titolo dell'autobiografia di Anna Negri? Allora il paradigma del «trauma senza trauma» perde la sua incidenza, anche con le premesse di impotenza e di politica del vuoto fatte da Giglioli. Cito da Con un piede impigliato nella storia: «E allora ti accorgi che quando si tratta di figli non ci sono vittime o carnefici, siamo stati tutti bambini traumatizzati da una Storia che non abbiamo scelto. E ho scoperto una cosa crudele: che i figli portano sulle spalle le colpe dei genitori, e prima o poi con queste colpe devono misurarsi».15 È vero che Giglioli tratta anche la differenza generazionale tra vittime e familiari quando discute le autofinzioni di Helena Janeczek dedicate rispettivamente alla madre (Lezioni di tenebra, 1997) e al padre (Le rondini di Montecassino, 2011): «La realtà senza sconti cui si è trovata contrapposta la generazione dei padri e delle madri si è trasformata nel Reale fantasmatico che aduggia come un'ombra sinistra la vita dei più giovani. Sono anche loro dei sopravvissuti; ma a una minaccia che non si palesa mai di fronte, e campeggia invece imponente nell'Immaginario» (p. 71-72); ma in questo caso la «doppia menzogna» della finzione convive con un autentico bisogno di «guarire» dal trauma e di trovare una dimensione comune non tanto nel desiderio di sentire storie estreme in assenza di esperienza vissuta ma nel concetto di pietas verso un'umanità che possa andare avanti anche quando «'l piè fermo» è sempre «'l più basso».

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2012

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Giugno-dicembre 2012, n. 1-2


 

 

 

 

 

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