Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda, Milano, Mondadori, 2006, pp. 495, € 19

di Eleonora Conti

 

Scheda bibliografica Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni Inserisci testata Salva il frame corrente senza immagini Stampa il frame corrente




Con il nuovo romanzo-fiume Come Dio comanda (Mondadori, 2006), Niccolò Ammaniti torna su uno dei temi centrali della sua produzione narrativa, il rapporto padre-figlio e, più in generale, il rapporto tra mondo degli adulti e mondo dei bambini-adolescenti.
Fedele a una tendenza pulp con cui fin dagli esordi lo scrittore rappresenta il lato oscuro dell'uomo e della società attuale, Ammaniti dà vita a una storia in cui si intrecciano (con un serrato montaggio alternato, di stampo molto cinematografico) le disavventure di un trio di emarginati-balordi pieni di conti aperti con la società (Rino, Danilo e Corrado Rumitz detto Quattro Formaggi); del figlio di Rino, Cristiano, adolescente complessato e timido, più a suo agio con gli adulti che con i suoi coetanei; della coppia di giovani amiche per la pelle Esmeralda e Fabiana; e di qualche personaggio minore, utile all'intreccio e alla costruzione dell'atmosfera e dell'ambiente sociale in cui si svolgono i fatti (dall'assistente sociale Beppe Trecca al ricco e fortunato Tekken).
La storia si svolge in una pianura industrializzata e inquinata, priva di riferimenti geografici precisi eppure ben collocabile nel Nord Italia, in preda a una natura sconvolta. Non solo l'industrializzazione ha alterato i connotati di un paesaggio che è ormai un unico, indistinguibile nonluogo (caratterizzato dalla strada statale, da capannoni industriali, da mastodontici centri commerciali, da pretenziosi comprensori residenziali in stile messicano, dagli argini di un fiume in piena), ma la notte nella quale si colloca lo snodo centrale del romanzo e che porta molti personaggi verso la catastrofe, è battuta da una pioggia infinita e distruttiva, contrappunto invasivo delle vicende, che spinge i personaggi a manifestare la loro natura più vera e accelera in qualche modo il loro destino. Il rovescio, di proporzioni eccezionali, quasi apocalittico, fa dunque da sfondo imprescindibile all'intreccio e provoca una piena dei corsi d'acqua della zona che porta a galla - metaforicamente e non solo - turbamenti, misfatti e drammi personali. Non si può non pensare, per contrasto, al Sud assolato di Io non ho paura, dove era piuttosto il vuoto dell'estate a celare orribili segreti; un topos da Bildungsroman: si pensi all'estate che fa da sfondo al racconto Stand by me di Stephen King o a La sottile linea scura di Joe Lansdale, che narrano parimenti la perdita dell'innocenza e la scoperta della tragicità del mondo adulto (mentre il romanzo a cui Ammaniti si è ispirato per Io non ho paura - il francese La settimana bianca, di Eugène Carrère -, lasciava che la scoperta dell'inquietante verità sul padre avvenisse nell'isolamento di una baita e di un paesino di montagna immerso nella neve). Ma viene anche in mente, sia per contrasto sia per la medesima sensazione di spaesamento, di intorpidimento della ragione e di accumulo della tensione che la pioggia torrenziale di Come Dio comanda porta con sé, l'umidità insopportabile che caratterizzava la pianura lombarda - altrettanto alienante che quella del romanzo di Ammaniti - del Sopravvissuto di Scurati. Anche lì, una pianura industrializzata e trasformata in nonluogo, còlta però in una costante nebbiolina estiva da inquinamento all'ultimo stadio, faceva da sfondo al dramma dello studente killer e del suo professore e opponeva senza soluzione mondo degli adulti e mondo degli adolescenti.
Dopo le prime prove narrative - il romanzo d'esordio Branchie (1994), i racconti di Fango (1995) e Seratina, scritto insieme a Luisa Brancaccio e raccolto nell'antologia Gioventù cannibale (1996), improntate a uno sperimentalismo e a una poetica dell'eccesso che lo collocarono subito tra i giovani innovatori della narrativa nostrana degli anni Novanta, Ammaniti approda alla misura lunga con Ti prendo e ti porto via (1999), rocambolesco intreccio di avventure e disavventure di personaggi di provincia sempre eccessivi e fuori regola. Di quest'ultimo romanzo è stata notata da più parti una certa affinità con i personaggi perdenti di Come Dio comanda, mentre la polifonia della narrazione richiama soprattutto quella de L'ultimo capodanno dell'umanità (racconto lungo di apertura di Fango e poi testo autonomo), dove le azioni dei singoli personaggi erano scandite da un passaggio del tempo millimetrico, minuto per minuto, con un naturale crescendo in attesa della mezzanotte, e dove i personaggi, oltre ad essere attori, erano anche spettatori delle azioni altrui e le interpretavano dal loro punto di vista parziale e spesso errato. Questo incrocio di azioni era dunque potenziato da un intreccio di sguardi che si ritrova in parte anche in Come Dio comanda. Le azioni risultano spesso come raddoppiate da una sorta di specchio deformante. Dalla visione distorta delle cose, poi, i personaggi traggono conseguenze e compiono ulteriori azioni, spesso fatali, come nella migliore tradizione horror-thriller. Lo sguardo distorto per eccellenza qui è quello di Quattro Formaggi, un disadattato che da goffa macchietta (La Porta lo paragona al Pippo dei fumetti) si trasforma in pericoloso omicida.
Con Io non ho paura (2000) Ammaniti aveva dato una sua visione del mondo a misura di bambino. La rinuncia a una poetica pulp e horror punk, in questo breve romanzo ormai diventato longseller, però, non veicolava affatto un'idea di famiglia innocua e accettabile: l'io narrante Michele, nella torrida estate che cambierà per sempre la sua vita, scoprirà che suo padre è «l'Uomo nero», per usare le sue parole, e niente per lui sarà più come prima; il suo kosmos sconvolto sarà tutto da ricostituire e l'unità ritrovata col padre («E c'era papà, e c'ero io») avverrà con un senso di liberazione, a tragedia sfiorata, dopo una vera e propria discesa agli inferi (il padre spara al figlio per errore).
Allo stesso modo, in Come Dio comanda, è il legame fortissimo fra Rino e Cristiano Zena a rappresentare l'unica certezza positiva della storia (oltre all'amore fra due personaggi minori, Beppe e Ida, la prima delle vicende narrate ad avere un lieto fine), e nel finale, dopo che Cristiano ha cercato in ogni modo di occultare quelle che pensa siano le prove di omicidio a carico del padre, è sempre sull'orlo di una morte sfiorata - ma questa volta chi rischia la vita è Rino - che possiamo immaginare la riunione dei due. Solo che in un certo senso, l'idea di famiglia immaginata da Ammaniti si ribalta, rispetto a Io non ho paura: là, il padre di Michele, apparentemente e fino a quel momento rispettabile lavoratore, marito e padre di famiglia, si era macchiato di un'orribile infamia - il rapimento di un bambino della stessa età del proprio figlio - ed era pronto a uccidere un innocente, in quell'obnubilamento della ragione e dei valori fondamentali (che pure era riuscito a travasare nel mondo morale del bambino), che costituiva il diabolico piano collettivo di un intero paese in cerca di riscatto economico e sociale. E la famigliola di Acqua Traverse rientrava nei canoni tradizionali (padre, madre, figlio e figlia, casa modesta ma sempre pulita, pasti accuratamente cucinati, orgoglio di gente modesta e perbene); mentre la famiglia di Cristiano è senz'altro anomala, tanto che è tenuta sotto controllo da un assistente sociale: un padre spiantato che vive di lavoretti occasionali, fascistoide violento, tatuato e dedito all'alcool, una madre che se n'è andata perché non vuole il bambino, un adolescente che vive in una casa priva di qualunque confort, col pavimento imbrattato di cartoni di pizza da asporto, lattine vuote di birra e cicche di sigaretta. Eppure, a modo suo, Rino è un personaggio positivo e, benché Cristiano sia indotto dalle apparenze a sospettare che abbia commesso un delitto orribile - la violenza e l'uccisione di una sua coetanea -, in realtà è innocente e prova repulsione di fronte al misfatto. Anche tra Michele e Cristiano c'è un abisso: quest'ultimo, educato alla bruta necessità di sopravvivere e di salvare l'unico legame solido della sua vita, è pronto a farsi complice di un delitto, pur di salvare il padre, mentre Michele, con la purezza dell'eroe e dell'infanzia, persegue la sua missione assoluta, mettere in salvo il suo doppio-Filippo, anche se questo andrà a discapito della salvezza del padre.
Oltre ai fili che legano Come Dio comanda alle opere precedenti di Ammaniti, sono presenti nel romanzo vari elementi che rafforzano l'idea di una circolarità di temi e situazioni in alcuni bestsellers italiani degli ultimi tempi. Si pensi all'invasività della televisione, pronta a registrare il dramma collettivo, la psicosi di un paese che deve fare i conti con un mostro in circolazione: così grappoli di microfoni e video e altoparlanti gremiscono la piazza della chiesa in cui si svolge il funerale di Fabiana («Non aveva mai visto tante persone nemmeno l'estate passata quando erano venuti il Gabibbo e le veline», p. 480: il paragone irriverente è di Quattro Formaggi) e la sua amica del cuore, che non riesce nemmeno a leggere una poesia scritta in sua memoria, è tuttavia pronta, il giorno seguente, a partecipare a La vita in diretta. È la stessa situazione che si presenta ne Il sopravvissuto di Scurati, quando il professore superstite deve affrontare le telecamere di un reality approntato sulla piazza del paese, per far progredire le indagini, dicendo "la sua" verità.
Anche in Come Dio comanda entra il tema della scuola, pur marginalmente, e da quel che se ne evince, nell'ottica di Cristiano e di suo padre si tratta di una scuola che contribuisce ad emarginare gli emarginati. Cristiano ci viene mostrato intento a comporre un tema sul Nazismo che, se consegnato, certo avrebbe allarmato i suoi docenti: non si può non pensare all'esilarante tema sul Volgare, opera del fascistello Zazzi, ne Il paese delle meraviglie di Giuseppe Culicchia (2004). Culicchia riesce a trasformare, anche grazie a una comicità deflagrante, in una sorta di eroe del quotidiano un teppista dalla vitalità travolgente, che alla fine è l'unico a non nascondere la sua vera natura e risulta totalmente innocuo; Ammaniti usa probabilmente lo stesso espediente per meglio costruire l'identità del suo personaggio, anche perché sono veramente poche nel romanzo le pennellate comiche, rare occasioni in cui si manifesta un umorismo che ancor più sottolinea la drammaticità degli eventi e delle vite dei personaggi.
Al di là delle polemiche e dei giudizi nettamente contrastanti che hanno accolto il romanzo (polemiche innescate da due recensioni totalmente opposte apparse sui quotidiani - la stroncatura senza appello di Cortellessa su «La Stampa» e la lettura positiva di La Porta su «XL», mensile de «La Repubblica», che addita in Ammaniti il nuovo Dickens - e rimbalzate sui blog di post in post), va detto che senz'altro Ammaniti ha il pregio di avvincere, di costruire una trama molto sapiente che si spoglia di ogni farraginosità - anche se non rinuncia in certi episodi a effetti di accumulo ed eccesso presenti anche in Branchie e in Ti prendo e ti porto via -, per convergere più ordinatamente verso un finale solo suggerito. La scrittura è funzionale e riflette l'orizzonte sociale e culturale dei personaggi, i dialoghi in cui maggiore è l'effetto trash sembrano quelli più adatti a dire tutta la miseria e la disperazione degli attori di questo dramma collettivo, quasi senza via di scampo.

 

Precedente Successivo Scheda bibliografica Torna all'inizio della recensione Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni

Acquista questo libro su

Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2007

<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2007-i/Conti3.html>

Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

Free counter and web stats