Danilo Breschi, La Cura del Tempo, Reggello (FI), FirenzeLibri, 2005, pp. 109, € 7

di Milva Maria Cappellini

 

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La possibilità di intendere la specificazione in senso duplice, oggettivo o soggettivo, conferisce al titolo dell’ultimo volume di poesie di Danilo Breschi, La Cura del Tempo, una preziosa ambiguità: è il tempo a curare, a curarci, oppure è il tempo a essere – o a dover essere – curato? A giudicare dalla copertina, e da molti versi disseminati nella raccolta – di struttura solida, distesa in due atti, tra un prologo e un epilogo –, non si direbbe che il tempo possa esserci amico, se è necessario «medicarsi dal tempo, dalle ore / che ti sfregiano l’anima, più del volto / è come cucirsi uno squarcio nella carne / con uncini o aghi infettati di nostalgia» (medicandosi dal tempo).

Verrebbe voglia di chiamare in causa – anche ripensando agli interessi filosofici e storici dell’autore – i pensatori che, alla fine dell’Ottocento e poi lungo tutto il Novecento, hanno riflettuto sul tempo e sui suoi effetti di disorientamento, di rapina. Ma, ancor prima, torna alla memoria la considerazione di Seneca: «Tutto ci è estraneo, Lucilio, solo il tempo è veramente nostro». Non nostro del tutto, forse, piuttosto un prestito amaro («Avaro è il tempo prestato a noi / che al plurale ci esercitiamo a sera / con l’umiltà di una cena senza padri / mentre le madri sono tardive scoperte / e, come sempre, trovi lo spartito, / quello giusto, quando la nota è dolente»: Latitanza) e ingannevole: «la solita questione del tempo che non fermo / non dico per sempre, ma se almeno oggi / se almeno me ne andassi in cortocircuito» (Paleontologia industriale).

Neanche la giovinezza può salvaguardare dallo sterminio o dall’erosione del tempo, dalla sua verità che denuda: «...resta il tempo / senza cui far conti è crociata degna di mancia / da servire sulle mani callose del becchino / ché sempre sottoterra va a finire la storia» (il ragazzo e la ragazza). La condizione umana è stritolata dal tempo («Così, tu che fosti per me meridiana / ti assottigli sotto la macina del tempo»: Don Chisciotte e la sua donna scarlatta) e ad esso crocifissa, eppure la vita è tanto calda e insopprimibile che continua a sgorgare come sangue («ché il sangue versato con cuore è vita / consumata e nondimeno sempre pura»: medicandosi dal tempo) e a chiedere, con imperiosità, di essere scritta: «parlo di quel versamento interno / che il sangue me lo fa inchiostro [...]. fino a che la tua blanda vita / non sia che un’emorragia infinita» (Vita a perdere). Il senso di accettazione della vita, che emerge a tratti in queste poesie, quasi commuove («grato di esserci, di esser qui / indomita puntina di stagno che ferma / i fogli della vita, ogni giorno uno nuovo»: La puntina di stagno), perché sfida parimenti la consapevolezza («E se il diavolo in corpo non fosse euforia / ma sentirsi una condanna ficcata nel ventre / dalle tue stesse mani che tremano alla vita?»), l’inesorabile paura («ché non sapere è paura, come del resto sapere») e perfino l’incombenza di un nulla che disfa e sparpaglia («e nella dispersione è l’antifona del niente»: Malinconia). Neanche l’equilibrio fra il «trattenersi» e il «dispendio obbligato / che la nostra venuta, ogni venuta, ha da pagare» (Trattenuta la nostra venuta) frena lo slancio vitale: è anzi proprio in questo che si legittima il vivere, così come nel miracolo della sincronia («divina concessione»: il ragazzo e la ragazza) si azzera per un attimo il battito maligno del tempo. Rimangono alla fine all’uomo, come agli eroi delle fiabe, «tre desideri»: «tre desideri, volare e avvincere / gli altri, il tempo, te e le muse stralunate» (e, anche, avvincere l’ombra tenace alle spalle: Il mistero del bambino con fata e vampiro).

Come si vede da questi sparsi esempi, è una poesia, questa di Danilo Breschi, che niente concede alla facilità, e che sembra anzi raccogliere l’ammonizione di Rainer Maria Rilke al giovane poeta: «Poco noi sappiamo, ma che ci dobbiamo tenere al difficile è una certezza che non ci abbandonerà; è bene essere soli perché la solitudine è difficile; che alcuna cosa sia difficile dev’essere una ragione di più per attuarla». La «difficoltà», prima di tutto, è segno dell’alterità radicale del linguaggio poetico, che vieta a Breschi qualsiasi concessione alla scorrevolezza e alla facilità dei significati e dei suoni. Eppure qui il linguaggio della poesia è conficcato nel vivo, nella carne: proprio per questo la poesia apre – o tiene aperta – una ferita. Se nella prima raccolta (Congiunzione carnale, astrale, relativa, 2004) il mot clé ci era sembrato essere «tensione» (di intelletto, soprattutto, o tra intelletto e carne: ma già inevitabile e dolorosa), qui lo spazio dei significati è piuttosto sotto il dominio, appunto, della «ferita», della piaga, dello squarcio, di tutto ciò che taglia e separa e non smette di dolere: «ora che sono come uno che / trova il respiro solo taglio dopo taglio / nella carne svaginata dalla lama. // Pensare una piaga sempre dopo / il sangue versato dietro l’occhio / dà una cupa calma oscura» (La paura che le sia fratello). E ancora: «cosa allieta di tante notti / calanti a colpi d’ascia / sopra una ferita creduta socchiusa / come una palpebra assediata da troppa luce / ma che di luce resta una spia assetata?» (Notte calante). La luce, la palpebra, l’occhio circoscrivono un’altra area semantica centrale in questa poesia così intensamente visiva: «ho l’occhio più vecchio della carne che indosso / più rughe lo solcano più fatica l’opprime / così una parte di me morirà prima di ogni altra» (Vecchio di primavera). È la vista ad assicurare una certezza che pure non soddisfa perché non si lascia possedere («non resta che l’occhio per credere, / come bastasse credere per stringere davvero»: Nella casa che stanotte consiglia), ed è «lo sguardo a scavare parole / ancora non dette / ché di scavata poi non resta / che l’orbita orfanata / dell’occhio mio che anela / visioni non altro che convesse» (Uscita introversa).

Esattamente come le tensioni di Congiunzione, la ferita che leggiamo in questi versi ha origini nel profondo e tende alla conoscenza: conoscenza del mondo, conoscenza dell’altro e, anche, di sé. Solo nella resecazione, infatti, ci si riconosce, e ritrovarsi è un atto impietoso e cruento per taglio di lama: «I tendini recisi staranno lì, a dirmi io chi fui» (Fummo schiavi del nulla). Della ferita, e del lavoro doloroso che chiede, è bene pertanto essere grati: «e ti ringrazio per la ferita apertami / sanguinando a me, che, ogni notte, ti scucio e ti ricucio» (La tela di Penelope). L’affondo della ferita mima poi, nella carne, lo scavo dell’abisso – quello nietzschiano? – che aspetta («e l’abisso è ciò che segue»: L’acrobata). Va da sé, allora, che anche l’intrusione del reale, della storia, viene detta con parole nette, feroci: «...ma solo due battiti. / Con uno s’accende con l’altro s’esplode» (La vigilia di un kamikaze), così come richiesto da un presente devastato dalla colpa: «con rame e spine forgiamo le maschere / per coprire l’assenza di un volto esploso / a carponi tastiamo un deserto oscurato / noi che invochiamo un dio guastato» (I colpevoli).

Si precisa qui, anche, la relazione con il mito nelle sue declinazioni: la grecità (si consideri già la posizione iniziale e quindi più esplicitamente metapoetica di Orfeo ed Euridice) con una inclinazione per i miti notturni e ctoni; il fiabesco con le streghe di mare, la bella addormentata e il lupo mannaro; l’immaginario intertestuale con Achab, Tristano, Don Chisciotte, Lancillotto, Quasimodo, Ofelia. Ma ricompaiono anche le immagini di una mitologia che dalla cultura transita subito alla soggettività del poeta: l’infanzia con la sua paradossale sapienza («ora conosco il mio presente / ora che, infante, ammiro / squadernato l’eternamente rovesciato»: Ex adverso), l’estate nella sua pienezza fruttifera, il fulgore meridiano che richiama, più che Montale (ma Nella nera, nella bianca terra è tramata di vocaboli montaliani), D’Annunzio, con «...il silenzio nel meriggio / la splendente fissità di dio» (Rosso Bergman). Tra altri omaggi ai maestri, la poesia colta di Breschi offre una trasparente allusione ungarettiana («con quel po’ di allegria che si addice ai naufragi»: Ti aspetto al mio ritorno) e tributi all’amato Pound («fra la bolgia dei mercati»: Nella nera, nella bianca terra; «la scissione tra me e il mondo / non quello degli affari e degli uomini»: Capro espiatorio). Poesia colta, si è detto, e competente, come dicono i numerosi componimenti metapoetici che scandiscono il volume e che indirizzano alle due dichiarazioni-epilogo, le quali a loro volta segnano, con le parole di Roberto Carifi prima («...con la poesia si entra nell’ombra, punto e basta») e con quelle di Guido Ceronetti poi («Sapendo che il dolore esiste e che la morte esiste si fa qualcosa perché il dolore dolga di meno e la morte faccia meno paura – altro fine non c’è, nell’arte»), una poetica inequivocabile.

Anche l’eros, sia esso intenerito (si leggano, tra le altre liriche amorose, Madramante, Sconfinando in forme di vento, L’ingresso, Amare è come tenere in mano) o notturno (Fine stagione, La seduzione tardiva) è fecondo di scrittura: «in cerca di cimosa sperandoti lavagna / non resta che un libro già iniziato / ancora una matita e continuo a scrivere» (Dormitura). L’amore è quête identitaire («anch’io presi alle spalle il nulla / gli chiusi gli occhi e chiesi: “chi sono”?») che rivela la nostra miserevolezza («il nostro amore è la mendicanza; quale non è?»: Storia in due tempi) e che, come ogni cosa, trafigge e inchioda alla croce, come già nella riflessione delle Memorie di Adriano: «se non ci fosse il tuo corpo che m’inchioda / e devo imparare ad amare questa croce» (Ho ancora la notte negli occhi: e quello dei chiodi, di ciò che si conficca e impala, è un altro leitmotiv di questa raccolta: «sono l’angelo che decade / dal firmamento dei cento chiodi / con cui mi volevi crocifisso nell’amara vendemmia del tuo amore: Fine stagione). Il mito della passione giustifica la prossimità dei temi erotici allo spazio metaforico, che affiora più e più volte, della religione e della mistica: «la dimenata questione del suo ventre / va posta all’attenzione del dio nascosto» (La zattera, il mozzo e la Sfinge). Non sorprende che l’amore abbia a che fare, alla fine, non più con la conoscenza bensì con la fede: «chi crede penetra il mistero e ne resta avvinto / come l’amante che ama e non può dirlo» (né sacro né profano). I corpi e i gesti di chi si ama mettono a tacere perfino la parola («Sì, hai ragione, sto zitto»: Lo Zenit), ma è un’afasia momentanea, poiché il discorso «strutturato» è necessario all’espressione: «senza grammatica l’urlo non è che muto» (La tela di Penelope). Perché il corpo amato può, sì, essere addirittura «l’antidoto» al «meditare troppo il tempo» (Ho ancora la notte negli occhi), ma alla fine è la scrittura ciò che l’uomo oppone al dolore, alla morte e allo scempio della dimenticanza: «ché da piccolo io lo potevo intercettare il tempo / ma non ne avevo la lingua che adesso cerco / e con impeto scrivo e racconto perché niente si perda» (La madre, il figlio e l’anello del tempo). È la scrittura urgente e paziente, è la scrittura poetica che sa disarmare il tempo: «e mi s’addossa la speranza / che la poesia sia imminenza. // Non avevo prima d’ora / trovato mai / l’estate più calda / dentro un inverno così freddo. / È la bellezza che càpita / a chi, paziente, accudisce il tramite» (il tramite). Tornano in mente ancora, in conclusione, le parole di Rilke: «Ché l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri d’ogni ansia. Io l’imparo ogni giorno, l’imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è tutto!».

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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