Silvia Vajna de Pava
Gëzim Hajdari: una voce di pietra nella poesia italiana.

 

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Da sempre la letteratura si nutre delle vicende di scrittori in esilio e oggi la poesia italiana accoglie un autore che ha fatto del suo doloroso viaggio e della sua traversata tra terre e lingue motivo di canto. Si tratta di un poeta di origine albanese, Gëzim Hajdari, che, dopo un ingresso in sordina sulla scena poetica italiana attraverso la pubblicazione di due brevi raccolte nella prima metà degli anni Novanta, ha iniziato a conquistare una certa visibilità nei circuiti letterari del suo paese d'adozione nel 1997, quando gli è stato attribuito il premio Montale per la poesia inedita.
Hajdari nasce nel 1957 in Darsìa, nella provincia di Lushnie. Sotto il regime di Hoxha inizia a comporre una poesia che si colloca in un filone decisamente eversivo rispetto al modello del realismo socialista imposto dal partito: nello studio clandestino di poeti italiani e francesi dei secoli XIX e XX, e nella frequentazione di un poeta perseguitato dal regime come Lazër Radi, egli matura infatti una scrittura lirica e autobiografica, fin dalle prime prove dotata di quel senso dell'universalità della propria esperienza che la caratterizza ancora oggi. Conseguita la laurea in Lettere Albanesi, Hajdari inizia a insegnare al liceo di Lushnie, mentre vede costantemente rifiutate e censurate le proprie poesie da parte dell'unica casa editrice albanese. Al crollo del regime, nel 1991, dà inizio al proprio impegno diretto in politica, sia militando nel Partito Repubblicano Albanese, di cui è uno dei fondatori, sia con la creazione del giornale «Ora e Fjales» («Il momento della parola»), di cui è vicedirettore. Ma nemmeno nella "nuova" Albania la sua voce ha libertà di espressione e, in seguito a ripetute minacce da parte degli avversari politici al seguito di Berisha, salvatosi da una sparatoria, Hajdari abbandona la propria terra e si rifugia in Italia.
Qui si fa cantore di un'esperienza che assomma in sé molteplici destini. Egli adotta la lingua italiana per la propria espressione artistica: canta lo sradicamento che prende forma innanzitutto nell'abbandono della lingua materna, narra un destino di esule che ritrova in sé la forza di «crearsi ogni giorno una nuova patria», celebra le bellezze della patria lontana nello stesso tempo in cui la maledice e ne stigmatizza vizi e depravazione; si rivolge poi alla nuova terra che lo ha accolto esule e in cui è rinata la sua voce, e con uno sguardo distaccato e straniante ce ne rivela un volto inatteso e non sempre conciliante.
Autore estremamente prolifico, Hajdari compone le sue raccolte secondo una logica di rimandi e costanti riprese.
Sebbene i suoi libri siano composti con la coerenza e la compiutezza di canzonieri, ciascuno di essi rinvia ai precedenti o anticipa i successivi in un gioco di richiami costanti che non sfuggono al lettore attento: l'intera produzione del poeta mira alla costruzione di un dialogo con un pubblico fedele.
Hajdari, a differenza di altri scrittori "migranti", adotta la lingua dell'esilio fin dai primi versi scritti fuori patria e le sue poesie sono sempre pubblicate in edizioni bilingui: in italiano con il testo albanese a fronte, frutto di un'autotraduzione dalla lingua adottiva a quella materna. Questa scelta si ripercuote sullo stile dei componimenti e sull'evoluzione del linguaggio poetico.
La forma delle prime poesie, raccolte nei volumi Ombra di cane1 e Sassi contro vento2, è estremamente essenziale: si tratta di componimenti in versi liberi che tendono decisamente alla parola-verso, con una radicale scarnificazione del linguaggio, segno di un possesso ancora incerto della lingua d'adozione. Le raccolte successive mostrano un processo di maturazione compositiva e ampliamento tematico: dal punto di vista formale le composizioni si fanno più distese, abbandonando la forma succinta e tesa delle prime raccolte in lingua italiana, per raggiungere talora le dimensioni del breve poemetto; rimane però come forma base quella del verso libero e senza rima.
Per quanto concerne i contenuti, mentre nei primi componimenti dominano il tema dell'esilio, della solitudine, la pioggia incessante come metafora di una condizione esistenziale dolorosa e cupa, la sfiducia nell'uomo e il dolore della memoria, nelle raccolte successive (da Corpo presente del 1999, a Maldiluna edita nel 2005) nell'orizzonte piovoso dei versi precedenti si intravedono scorci luminosi: appare un nuovo sguardo sulla situazione personale dell'autore, che, pur restando drammatica, diviene possibilità di rinascita, di ri-creazione e riscatto.
Lo sforzo stesso di trasmettere la propria esperienza in una lingua nuova (ma già amata in giovinezza) è sì scelta obbligata e sofferta e spesso cantata come condanna nell'esilio, ma prima ancora necessità profondamente sentita, risposta ad un bisogno del poeta stesso. Chi in patria ha vissuto la censura e l'oblìo fin da giovane, cerca nell'esilio una nuova voce e un altro ascoltatore cui rivolgersi. Così scrive il poeta:

«Partiamo di notte
dimenticando che siamo ciechi
per raggiungere un territorio nudo
del quale ha bisogno la nostra voce
andiamo al mare per parlare
e lanciare sassi contro vento.»3

La voce del poeta ha bisogno di un territorio nudo, di un nuovo linguaggio di cui impadronirsi per poter finalmente parlare, per scagliare quei sassi che simboleggiano la parola stessa. Chi parte per l'esilio lo fa nel buio, alla cieca, senza conoscere il destino della propria voce, ma lo fa anche perché alla ricerca di una libertà di parola che in patria non gli era concessa.
Il tema della cecità è qui sinesteticamente riferito all'insufficienza della propria voce. Dimenticare la propria cecità, superare la paura di non riuscire nel passaggio alla nuova lingua, è il primo passo per entrare in essa, per aprire il proprio orizzonte alla nudità di ciò che ancora non è posseduto. È in questo nuovo territorio, aperto all'esperienza dell'esule, che le parole possono prendere la loro forma essenziale di sassi, ed essere lanciate. Contro vento: con fatica dunque, correndo il rischio che la poesia stessa si prenda una rivincita, apra enormi abissi sul corpo di chi l'ha scagliata. La sfida lanciata dal poeta, la volontà di superare i limiti imposti dalla lingua materna, rischia di essere punita come un peccato, punizione visivamente riportata sulla copertina del volume Sassi contro vento, in cui è riprodotto il dipinto dello Spagnoletto raffigurante Apollo e Marsia (1637).
La pena di Hajdari dalle sue parole si ripercuote anche sul suo corpo, ma la forza del poeta sta nel risorgere dalle proprie ferite, nel continuare a cantare indipendentemente da ogni sofferenza: Apollo può anche impietosamente scuoiarlo come aveva fatto con il suo predecessore Marsia, ma la sua pelle resterà tesa a risuonare, anche nell'esilio, anche in un altro alfabeto:

«È la mia pelle appesa al crepuscolo che suona
e annuncia tori insanguinati nei campi estivi
lucciole nelle valli
voli di uccelli lirici lungo i fiumi

è la mia pelle appesa al crepuscolo che chiama
(così chiama quando viene la primavera)
sogna papaveri e sentieri

è la mia pelle appesa al crepuscolo che ascolta
cerca la mia Voce nella nebbia
di un altro alfabeto.»4

Il corpo del poeta ridotto alla sola pelle non cessa di risuonare, né di cercare quella voce che continuamente si perde, che nella nuova lingua vive sospesa in luoghi di frontiera (il «crepuscolo» dell'ultima strofa è il limite tra il giorno e la notte, tra la luce e il buio, attimo in cui gli opposti si toccano, confine evanescente).
Nella raccolta Corpo presente, che raccoglie i componimenti vincitori del premio Montale e che è stata pubblicata nel 1999, l'effettivo recupero della parola, dimostrato dall'estensione dei componimenti, dalla nuova espressività più ricca, dall'ampliamento tematico, è accompagnato da una costante paura di ammutire, se non dalla denuncia stessa della perdita della voce. Quando cessa di farsi avvertire nascosto nella forma, il tormento dell'abbandono della lingua materna per la nuova lingua dell'esilio viene esplicitamente proclamato attraverso il tema della perdita della Parola, dell'impossibilità di esprimersi:

«Ora non riusciamo a parlare
sotto questi cieli fissi

la nostra lingua si riveste
di un'altra lingua che germoglia
corvi.»5

Ma c'è anche il racconto della ricerca della nuova lingua, e del mescolarsi di questa con la lingua materna:

«cerchiamo parole in un'altra stagione
lì dove caddero i nostri sguardi

i volti che abbiamo amato
sono alla ricerca di un nuovo esilio
e di un altro alfabeto.»6

«Muove una mano appena risvegliata
al crepuscolo. Rompe il silenzio
e intreccia le nostre mute lingue
a modo suo.»7

In questi versi il silenzio viene squarciato grazie all'intrecciarsi delle lingue che erano prima ammutolite. Ora esse possono vivere vicine, il poeta può entrare e uscire dall'una all'altra creando un luogo di scambio in cui esse si incontrano e si arricchiscono. Ma nonostante ciò non si può ancora parlare di una pacificazione avvenuta, il tormento del bilinguismo rimane pur vivo. Nella raccolta Stigmate8 più intensa ancora è l'espressione del sentimento di lacerazione cui il poeta è condannato dalla sua stessa scelta.
Sembra quasi che, una volta maturata una conoscenza approfondita della lingua italiana, stabilito con essa un rapporto d'intimità, il tormento del bilinguismo invece di affievolirsi si accresca. Ciò forse è dovuto al fatto che ormai il poeta è costretto a prendere atto dell'avvenuto allontanamento dalla lingua materna, che gli sfugge, che si prende la propria rivincita. Si sono invertite le parti, ma il poeta, che sta al centro del gioco, vi rimane ancora una volta impigliato: non si tratta più tanto di conquistare la nuova lingua, quanto di non lasciare che si perda la propria:

«la memoria confusa mi tradisce ogni giorno a poco a poco
e i miei libri pieni di errori nella lingua d'origine
Madre ho perso tutto anche la chiave per uscire
da Via del Cipresso dove mi sono chiuso.»9


Si sono accumulati gli anni dell'esilio, la memoria si confonde, e se anche si è trovata una chiave per entrare nella nuova cultura, essa si è rivelata una trappola da cui è impossibile uscire per tornare alla Madre, che è madre nel sangue, ma anche nella parola. Da qui la pena dell'esule: la paura di morire in un'altra lingua: «Ascolto il mio silenzio: è la paura / di morire in un'altra lingua»,10 la difficoltà di restare in una posizione al margine del margine, lontano dalla propria lingua e non pienamente accolto dalla nuova: «come è difficile vivere al confine di una voce della tua voce».11
Ma questa condizione marginale, seppur dolorosa, è necessaria al poeta per sentire con maggior acume il dolore degli altri («Per voi belle ragazze d'Albania / a cui penso in due lingue»12), e per affrontarlo e superarlo attraverso la parola dell'altra lingua, la parola cosciente che filtra il tormento interiore, l'inconscio, vissuto nella lingua materna.

«Per voi che siete soli e fuggite come me
scrivo questi versi in italiano e mi tormento in albanese»13

Lo sguardo del poeta diviene doppio, nei suoi occhi si incrociano gli sguardi e le esperienze di chi come lui vive in cammino, fra partenze e arrivi, di chi è ai margini, di chi ogni giorno cerca una patria che non abbia barriere. Di nuovo l'incrocio delle lingue, con le esperienze e le ricchezze di cui sono portatrici, è riportato allo sguardo, a ricordare ancora una volta che l'esperienza passa dalla vista per arrivare dallo sguardo alla voce che la esprime:

«Sono uomo di frontiera
ferito nella ferita
innamorato del Nulla
e dell'origine del freddo

sono uomo che vive di poche cose
condannato alle frontiere
dalle frontiere

i miei occhi: sguardi incrociati
fra quelli che giungono
ed altri che partono

dentro di me sono un po' nessuno
e un po' tutti
ubriaco di mondi.»14

L'aver ripercorso il proprio tormento, riconducendolo ad un orizzonte di sofferenza comune, come un atto liberatorio permette al poeta di trovare il proprio equilibrio tra le lingue: nella raccolta che cronologicamente segue Stigmate, Spine nere,15 il tormento del bilinguismo pare sopito, per la prima volta Hajdari usa l'aggettivo possessivo in riferimento alla lingua italiana («Ho sete delle tue labbra, dei tuoi occhi / che collegano le mie due lingue»16), inizia a guardare indietro nel proprio percorso: le parole, faticosamente conquistate, scagliate con dolore, hanno lasciato il loro segno nel tempo:

«Sulle spalle del Tempo sono cadute le nostre parole,
pesantemente.»17

C'è ora posto per un nuovo sguardo, una prospettiva di immersione panica nella natura, di ritorno alle origini, dove le cose assumono la voce stessa del poeta, interrompendo il doloroso gioco del bilinguismo, lasciando ad altri quella lingua insanguinata che ha macchiato inesorabilmente i suoi versi, la sua vita stessa; c'è posto per un'espressione alla prima persona plurale, segno di un'avvenuta apertura al mondo, dell'interiorizzazione delle esperienze altrui che già era emersa nella raccolta precedente:

«Un giorno diventeremo anche noi Darsìa
un giorno diventeremo il suo cielo di nuvole e uccelli
i suoi alberi la sua erba, il suo profumo di eternità

la solitudine che ci penetra nelle ossa
come l'umidità dell'inverno
sarà prosciugata

le stagioni avranno le nostre voci
i giorni i nostri occhi
altri parleranno la nostra lingua insanguinata

varcheremo il Tempo
sotto l'occhio del giorno
allontanandoci dai nostri nomi.»18

In questi versi Hajdari dispiega agli occhi del lettore il volgere di un movimento ciclico in cui l'uomo si fa natura, divenendo egli stesso ciò che ha cantato, e la natura si fa uomo, prendendo la sua voce e i suoi occhi, occhi e voce attraverso cui erano passate le sue esperienze.
Varcare il tempo è spezzare questo cerchio, entrare nell'eternità evocata nella prima strofa; e ciò può avvenire attraverso l'abbandono della propria identità («allontanandoci dai nostri nomi»), che viene ritrovata come "allargata"; si perde il proprio nome per essere Darsìa, per tornare all'origine, perché nell'identità dell'esule c'è anche la lontananza dalla patria, che egli ora può colmare.
E infatti quando nella vita non rimane più nulla, è alla lingua, la lingua della poesia, che il poeta può attaccarsi per sopravvivere: «stringo tra le mani la nostra lingua / è tutto quel che mi rimane della vita»;19 una lingua fatta di parole di pietra sopravvive al tempo e all'esilio, si può affacciare sull'abisso e resistere come un epitaffio: «sui muri dei versi una nuova pietra / come epitaffio si affaccia / sul burrone.»20

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2007

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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