Enrico Palandri
Letteratura: l'amica e l'antenata

 

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Vorrei iniziare con una definizione dei termini che ho scelto di usare nel titolo:

1. Per letteratura intendo il corpus di opere che viene trasmesso di generazione in generazione sotto forma di testo scritto. Questo corpus include anche testi orali, ad esempio quelli di Omero e di Shakespeare, ma soltanto perché le loro opere sono state ad un certo punto messe per iscritto. Si potrebbe sostenere che molta poesia si trovi solo incidentalmente ad essere scritta, poiché le sue regole formali sono riconducibili all'oralità. La rima, l'enjambement, i versi, sono strumenti che aiutano a tenere a mente un testo senza che questo sia scritto. Anche lezioni come questa, in cui avete di fronte un oratore, sono nella forma della loro esposizione testi orali. Esistono libri, penso alle lezioni di Ludwig Wittgenstein o di Ferdinand De Saussure, che sono stati ricostruiti dagli appunti dei loro studenti. Persino questi testi appartengano però alla tradizione letteraria per via di quella frattura che la scrittura ha introdotto nel nostro modo di pensare. Scrivere non è quindi qui considerato come un semplice atto materiale, ma piuttosto un passo concettuale che abbiamo fatto tanto tempo fa e al quale paghiamo sempre un tributo, anche quando non mettiamo davvero per iscritto i nostri pensieri.

2. Un antenato è ciò che è prima, la nostra intera storia e preistoria. Personale e collettiva. Può interpretare ruoli diversi e avere diversi livelli di rilevanza in momenti differenti della nostra esistenza. Un esempio: sebbene tutto sia parte del nostro mondo interiore, è innegabile che quando una coppia orienta nel tempo la propria relazione, il ruolo di primo piano sia quello interpretato dai propri antenati immediati, ovvero la famiglia. La nostra coppia litigherà, si minaccerà e si riappacificherà al suono di frasi come "sei proprio come tua madre" e in base ad umori che sono solo apparentemente superficiali. Al contrario, quando andiamo a passeggio in montagna, e cerchiamo d'adattarci ad un ambiente in cui l'elemento umano non è quello dominante, la nostra competenza geologica o botanica, i riflessi pre-verbali delle nostre radici paleolitiche diverranno determinanti. Sappiamo come arrampicarci, evitare un sasso che cade, camminare, raccogliere legna per un fuoco e così via.

3. La parola amico in questo contesto indica semplicemente l'ambiente che ospita queste idee sulla scrittura. Leggere è in casa di un amico; non casa mia, ma quella di un amico anonimo eppure sempre presente, quell'amico che noi incontriamo ogni volta che leggiamo i nostri autori favoriti. La letteratura crea questo ambiente e spero che le ragioni per cui ciò accade siano se non più chiare, almeno ribadite.

4. Date queste premesse, la prima domanda che voglio porre è: Cosa succede quando la scrittura appare nella nostra vita e che ruolo prende? Come di certo saprete, l'invenzione della scrittura segna il confine tra storia e preistoria. Questo confine è di solito indicato dalle Susi di Babilonia, piccole sfere di argilla su cui sono disegnate delle vacche che rappresentano gli animali in carne e ossa che erano affidati alle cure di una stalla pubblica. La storia delle Susi copre in realtà centinaia di anni, ma per questa lezione faremo finta che sia un momento, una frontiera. La Storia, quella con la "esse" maiuscola, inizia con una rappresentazione simbolica. Forse qualcuno lo troverà ironico, ma le Susi non sono altro che una forma di rendiconto bancario, simboli che rappresentano la ricchezza. Con la loro apparizione, iniziamo a distinguere la realtà materiale dalla sua rappresentazione. Con gli anni abbiamo trovato molti altri modi per distinguere i simboli dalla realtà che essi rappresentano e abbiamo articolato questi simboli in linguaggi che hanno finito per diventare indipendenti e persino opposti alla realtà. La fantascienza e la narrativa fantastica sono generi che si oppongono deliberatamente al nostro senso della realtà, ma anche un romanzo realistico fa la stessa cosa, perché costituisce un'alternativa alle cose, un mondo di finzioni opposto alla realtà.
La finzione presuppone anzi l'esistenza della realtà e gli si oppone, e questo in un certo modo la produce. Sappiamo distinguere tra le due cose fin quando qualcuno non ci chiede cosa siano.
Le polemiche che hanno tanto caratterizzato i realismi, in cui in nome della politica si contrapponeva un romanzo buono, che avrebbe avuto a che fare con la realtà, a un romanzo cattivo, frutto della pura fantasia e dell'immaginazione, non sono solo contraddette da grandi libri di immaginazione che in questa strettissima definizione di realtà sarebbero cattivi, ma dalla natura stessa del linguaggio che è sempre metaforica, persino quando lo stile è descrittivo, e non si lascia mai confondere con la realtà. Se mai appunto la produce. La Russia di Tolstoj o la Milano di Manzoni non sono altro che ciò che il romanzo produce, non un reale storico che in qualche modo resiste in noi stessi o da qualche altra parte al racconto dell'autore. Allo stesso modo la nostra idea del mondo è costantemente prodotta e metaforizzata da racconti, letterari e non letterari, e solo la consapevolezza della loro metaforicità riesce a caricarli di quelle attese di senso che abbiamo tutti. Al contrario, la realtà filmata dei reality o dei notiziari televisivi, proprio perché non ha metafora, nel bene o nel male ci fa sentire il linguaggio come un'altra cosa. Cercare di ravvicinarli, come a volte si invoca, è un disastro. Dall'antica Babilonia in poi abbiamo sempre avuto da una parte le cose e dall'altra la loro rappresentazione simbolica e linguistica.

4) Quasi immediatamente, questa invenzione ha preso a parlare il potente linguaggio degli Dei, in primo luogo con Hammurabi e subito dopo con la Bibbia. Vorrei dare un esempio della separazione tra linguaggio e realtà. Non possiamo leggere la parola "è" senza pensare immediatamente che "è", una volta scritto, in realtà "è stato", perché qualunque presente che leggiamo deve venire da un momento precedente che lo ha scritto. Siamo sempre il futuro della scrittura, e la scrittura quarda il futuro, ne ha una nostalgia infinita. Siamo condannati, a causa della scrittura, a rimanere per sempre la proiezione di un'origine.

5) Sappiamo di parole e linguaggi che precedono questo momento e in cui forse il significato non si era ancora separato così drammaticamente dalla forma. Esistono esempi di linguaggio pittorico, ad esempio, che devono magicamente funzionare in sincronia con la realtà circostante, ma la lingua scritta invece non può sfuggire all'opposizione fra realtà materiale e rappresentazione. Si pensa che il momento che sto descrivendo, una vera rivoluzione che ha prodotto tutto ciò con cui noi abbiamo a che fare culturalmente, dalla filosofia, al tempo, dai simboli, all'agricoltura e alla società, sia avvenuto fra i 4.000 e i 6.000 anni fa nelle pianure della Mesopotamia. In quel momento, alcune tribù nomadi dell'era Paleolitica, abituate ad orientarsi con le stelle, sono divenute stanziali e hanno sviluppato un nuovo tipo di rapporto con la natura circostante, differenziandosi da essa e costruendo città e canali.

6) Il modo in cui il mondo classico guardava questa realtà preistorica è ben diverso dalla nostra maniera di guardarvi oggi. Platone ne parla nel Timeo, scrivendo di Atlantide, come di un mondo diverso dal nostro, ma non primitivo. Un mondo da cui già in Platone ci separa la parola scritta. Anche San Giovanni, all'inizio del suo Vangelo, parla del Verbo che era Dio e che si è fatto uomo per scendere sulla terra. San Giovanni si riferisce a Cristo, e scrive circa 4.000 anni dopo la frontiera da me indicata, ma in lui ritroviamo comunque la trasformazione fondamentale della rivoluzione neolitica, perfettamente rappresentata dalla Genesi e dalla Bibbia. C'è stato un momento, un istante, che si può considerare come l'origine del tempo; tutto è iniziato lì, siamo partiti da quel punto e abbiamo cominciato a seguire la linea del tempo. In questo senso il tempo, come la storia, ha un inizio e uno svolgimento (una parola che ricorda lo svolgere delle pergamene perché possano essere scritte). Il tempo e la scrittura sono teleologici, hanno un fine che può essere l'arrivo del Messia, la fine dei giorni o il raffreddamento del sole. La fine del libro. La fine che è implicita in ogni libro.
Questa grande cornice cosmica, in cui si articola la stessa teoria del Big Bang, replica la nostra interpretazione dell'esperienza umana, ha lo stesso andamento del nostro viaggio biologico: nasciamo, attraversiamo il tempo e infine moriamo. Aldilà dello svolgersi lineare della narrazione siamo costantemente posti di fronte ad un altro genere di tempo, quello inerente la religione e la poesia. Un tempo che non passa, ma resta presente in eterno. Sant'Agostino fa riferimento a questa dualità del tempo in numerosi passaggi, per esempio quando dice che la nostra anima conosce la dimensione dell'eternità, è solo la nostra attenzione mentale ad essere limitata nella sua portata.

7) Il nostro senso del tempo ha dunque una duplice natura: da una parte è eterno e ci permette di leggere autori di generazioni diverse, che scrivono in contesti completamenti differenti dal nostro (e questo non solo perché decostruiamo e ricostruiamo costantemente quei testi). Dall'altra esiste il senso del tempo di cui noi stessi facciamo parte, il tempo che passa e che ci riempie di malinconia perché sappiamo che tutto ciò che è intorno e dentro di noi continua a morire, che non facciamo altro che separarci e dirci addio, come scrive Rilke in una delle sue Elegie Duinesi.

8) Un solitario pensatore moderno che ha provato una grande attrazione per le epoche che precedono la parola scritta è stato Giorgio De Santillana. La sua percezione è molto diversa dalla nostra idea della preistoria come di un'età barbarica e sottosviluppata, che è poi la tipica percezione Positivista e Neo-Positivista, sostenuta ad esempio da Karl Marx in Grundrisse. Marx descrive la nostra attrazione per la tragedia greca come una forma di nostalgia per l'alba dell'umanità. Una nostalgia dell'infanzia. Potremmo riassumere il suo punto di vista, totalmente coerente con un'idea positivista del tempo, con questa formula: c'era un prima, piuttosto che c'è un prima. Questo prima, questo passato, ha lasciato dietro di sé una sorta d'infanzia dell'umanità, qualcosa di non completamente sviluppato, che ci commuove perché è una memoria, ma è anche sostanzialmente inferiore, precedente e passato. Santillana, al contrario, considerava questo stadio originale come un'epoca di misteriosa grandezza. Secondo il suo punto di vista, i nostri antenati dovevano avere, per prima cosa, un enorme talento per il calcolo matematico: da loro, infatti, abbiamo ereditato la capacità d'osservare i movimenti delle stelle, ovvero lo Zodiaco, e anche una serie d'idee che sono il nocciolo della mitologia e che formano il substrato della cultura del periodo Storico. Nel suo libro Il mulino di Amleto, Santillana suggerisce che c'è un legame fra numerosi miti e che non potrebbe essere spiegato dalla nostra percezione dell'età preistorica come di un'età "non evoluta". L'idea stessa di una lingua indoeuropea è una prova della portata e della potenza di questa era precedente alla scrittura.

9) Quindi abbiamo due idee opposte: da un lato la caduta nel tempo, come la chiama Cioran, la cacciata dal paradiso di Adamo e Eva, la costruzione di un tempo storico. Dall'altra la continua evoluzione da un primitivo, che resta dentro di noi, è clica, un eterno tornare su se stesso. Le due concezioni si intrecciano costantemente e da sempre. Sognamo di rompere la ciclicità (il destino dei personaggi) per entrare nella storia, ma la storia è ripetitiva, incapace di innalzarsi dall'elencare il susseguirsi degli eventi, e ci arrampichiamo allora sulle somiglianze, le assonanze, cerchiamo di forare l'orizzonte lineare in una direzione trascendente e questo riesce solo alla ciclicità del tempo.

10) Il mio scopo comunque non è quello di verificare la validità delle idee di Santillana. Voglio solo usare la sua disponibilità nei confronti della preistoria per attirare l'attenzione sul confine che corre fra paleolitico e neolitico, fra la pre-scrittura e la scrittura, fra la parola che esiste indipendentemente dalla scrittura e la parola con cui scriviamo. È questo il momento in cui si produce il significato, che prende la forma di un'entità interna a qualsiasi espressione. Il senso viene sottratto, grazie al tempo, alla sua funzione immediata. Diventa maiuscolo, si sostanzia di astrattezza e di assenza. Attira al suo interno il nostro terrore del vuoto e della morte, diventa l'ombra dello scorrere e andarsene dalla vita vivendo, resta, si eterna, ritorna.
L'epoca cibernetica, che separa ulteriormente realtà e rappresentazione, ci offre anche un nuovo sviluppo del significato; siamo tutti ben consapevoli di come le e-mail abbiano trasformato i posti di lavoro e le relazioni interpersonali in scambi in cui vogliamo soltanto la sostanza. Vogliamo un significato, e lo vogliamo subito. Vogliamo espressioni che siano prive di tutto ciò che non è necessario e più insistiamo con questa idea più tutto diventa accidentale, esterno e privo di significato.
Con i moderni sistemi di comunicazione, la vita è diventata così veloce che vogliamo sempre e solo arrivare al punto e, di conseguenza, ci annoiamo molto facilmente. La nostra esistenza sembra essersi trasformata in una serie di bullet points, in un elenco di cose da fare e che possiamo spuntare col passare degli anni, come in una carriera lavorativa. La frase di Hitchcock sul cinema che è come la vita con tutti i momenti noiosi lasciati fuori, è ormai diventata il nostro motto. Quando siamo in treno, invece di guardare il paesaggio o osservare gli altri passeggeri, preferiamo prendere il cellulare e aggiornare persone lontane sui nostri movimenti, oppure tiriamo fuori il portatile e ci mettiamo a lavorare. I nostri dipartimenti sembrano ancora abbazie medievali, con le celle sistemate una dopo l'altra, ma le nostre vere celle sono ormai i computer sui quali leggiamo del mondo e grazie ai quali pensiamo al mondo, ne scriviamo e comunichiamo col mondo stesso. Un messaggio ad un collega, che magari lavora nella stanza accanto alla nostra, sembra esistere davvero solo quando è stato trasmesso con un'e-mail. Siamo ormai entrati nell'epoca del pensiero digitale che ha aumentato la distanza fra il reale e il simbolico. La capacità, non solo di descrivere ciò che è stato, ma anche di produrre modelli che emulano la realtà e creano nuovi scenari, ha fatto crescere la nostra dipendenza sul futuro. Il tempo che viviamo è un tempo preso a prestito dal futuro; è come se lo scopo ultimo, l'obiettivo finale, avesse assorbito la realtà delle nostre vite quotidiane. I ragazzi che misurano i confini del proprio mondo su quello dorato delle celebrità televisive, sottomettendosi ancora prima di iniziare a vivere a regole ferree di competizione e obbedienza, e i generali che pianificano il conflitto in Iraq come se fosse un videogioco, fanno parte di questa rivoluzione digitale. Sembra quasi che il peso del futuro stia soffocando il presente. T.S. Eliot non poteva immaginare questa situazione, ma essa è comunque la domanda fondamentale che si pone in Burnt Norton, nei Four Quartets:

«Time present and time past
Are both perhaps present in time future
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.
What might have been is an abstraction
Remaining a perpetual possibility
Only in a world of speculation.
What might have been and what has been
Point to an end, which is always present».

Il presente e il materiale sfuggono in avanti proprio a causa di questo aumento di significato, di questa separazione fra il valore di una cosa e la cosa stessa. Non possiamo che interpretare il mondo che attraverso una varietà di simboli, di parole che stanno al posto delle cose (il martello, la sedia) e di parole più complesse, come amore ed infinito, che sostituiscono entità più difficili da definire, e spingiamo sempre più il senso, l'interno della metafora, costringiamo tutta la realtà ad avere un significato e proprio per questa ragione ce ne sentiamo progressivamente svuotati. Quello che voglio dire è che la nostra epoca digitale ha contirbuito ad aumentare questa separazione e ha reso il significato di martello più denso e intercambiabile di quanto un martello non sia mai stato.

11) Questo confine fra la realtà e la sua rappresentazione, che sembra essere sepolto e nascosto nel passato, è con noi ogni giorno. Quando finiamo con i nostri computer e usciamo all'aria aperta, guardiamo il cielo e vediamo se piove oppure no, quando qualche volta osserviamo le stelle o quando avviciniamo le mani al fuoco per scaldarle. O quando, dopo uno stupido litigio col nostro partner, abbiamo voglia di toccarci, di baciarci e di fare l'amore. Quando la rappresentazione ci rende impazienti e desideriamo la cosa vera; in tutte queste circostanze cerchiamo di attraversare quel confine che c'è fra la parola e la realtà, quel confine fittizio che ha trasformato tutti noi in contrabbandieri di contenuto e che ci fa andare disperatamente alla ricerca di quella primavera in cui le cose e la parola erano insieme, i due lati della stessa medaglia. Siamo inquieti nei nostri finti status symbol, nei nostri vestiti e nelle nostre abitudini. Professori e studenti, uomini e donne, entità culturali opposte ad altre entità culturali, non facciamo che mettere alla prova la distanza fra la realtà tangibile delle cose e la sua rappresentazione linguistica. L'ossessione per la sessualità non è che la paura di non sapere se ci sia un altro. Questo accade quando mangiamo, quando dormiamo. Quando sogniamo e desideriamo qualcosa che non è una cosa, ma una nostalgia, quella sensazione d'essere stati allontanati dal nostro vero essere, di non essere completamente a nostro agio con noi stessi. Ci sembra di vivere da qualche altra parte e pensiamo con affetto ad un altro panorama, oppure ci manca qualcuno che non è con noi. Queste sono tutte tracce del nostro primitivo nomadismo, di quel tempo precedente alla rivoluzione neolitica.

12) Giacomo Leopardi, in uno dei suoi poemi più famosi, Il canto notturno del pastore errante dell'Asia (1830), parla proprio di questo sentimento. Non speculo, anche se trovo straordinario, sul fatto che immagini le stesse pianure asiatiche in cui si svolgono le grandi trasformazioni della scrittura che indico come origine dei nostri guai né sul fatto che il confine tra scrittura e vita gli fosse così presente dopo la malattia agli occhi. Rivolgendosi alla luna, compagna del vagabondare del pastore, scrive:

«Pur tu, solinga, eterna pregrina,
Che si pensosa sei, tu forsi intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorir del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star cosí muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;;
E quando miro in ciel arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dire questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so».

Aver messo un confine fra questi due mondi, il mondo del significato e quello senza significato (e in cui il significato emerge dalla scrittura) è un'altra delle straordinarie intuizioni di questo grandissimo poeta. In tutto il poema, egli oppone l'ignoranza della luna e del suo gregge con la nostra ricerca di senso. Se leggiamo nella parola "frutto" significato, comprederemo in questi versi il punto che sto cercando d'affrontare. Nel poema il pastore chiede alla luna il senso della nostra vita, della nostra solitudine. Quali sono le ragioni del nostro vivere, del nostro sopportare dolore e delusioni? Qual è il nostro status di fronte alla dimensione dell'Universo? Il pastore invidia la mancanza di consapevolezza del proprio gregge, il fatto che esso non sia vittima degli errori prodotti dalle parole, dall'interpretazione, dalla scienza, dalla religione e dal pensiero. Sembra così essere d'accordo con i famosi versi di Hölderlin che in Hyperion attaccano il popolo tedesco:

«Barbaren von alters Hera, durch fleiss, und Religion und Wissengschaft selbst barbarischer geworden».
(Barbari di un'altra era, sono diventati ancora più barbari attraverso il lavoro, la religione e la scienza).

13) Ciò che rende molto simili questi due poeti romantici, è l'idea, ad entrambi molto cara, che il mondo antico non sia il passato, ma il nucleo stesso dell'esperienza umana. Che la Storia non sia marxisisticamente e hegelianamente un andare lontani dal passato, ma un girarci intorno. Un nucleo tradito dalla nostra insistenza su idee quali il progresso che non sarebbero dunque altro che un allontanamento dalla realtà. Leopardi guarda il suo gregge e invidia il fatto che esso sia prima del linguaggio e del significato. Esso, semplicemente, esiste.

14) È interessante notare come questo poema sia stato scritto nel momento in cui l'idea di tempo è stata prepotentemente introdotta nel nostro modo di pensare dalla filosofia hegeliana. È attraverso il Romanticismo che abbiamo iniziato a classificare le nostre idee sotto forme di "storie": Storia della letteratura, della scienza, dell'arte, della medicina. Le antologie del XVIII secolo non cercano di definire la "storicità" come il vero significato delle cose. Quando il Romanticismo comincia a definire "soggettiva" la lettura individuale, la Storia inizia a separarci dal passato. Se guardiamo quei libri oggi, ci chiediamo non cosa significhino per noi, ma cosa abbiano significato per loro. Lo sviluppo di questa visiona storica del passato, specie attraverso la filologia, ci ha dato testi attendibili e un atteggiamento scientifico nei confronti degli studi sulla nostra tradizione; Arnaldo Momigliano indica come momento di passaggio la fine del XVIII secolo quando, grazie ad una rinnovata passione per gli scavi archeologici, gli studiosi di scienze dell'antichità hanno cominciato ad avere dati oggettivi e fattuali da opporre ad un'idea del passato totalmente fondata sulla letteratura classica. Mi fermerei però un momento per porvi una domanda: non sarà forse anche colpa di questa storificazione del tempo che non sappiamo più immaginare, come ha fatto Dante, d'avere come guida nell'Aldilà un poeta nato 1300 anni prima e di poter incontrare tutti i poeti e filosofi con cui vorremmo parlare passeggiando per il Limbo? Il nostro tempo separa le generazioni attraverso il severo vaglio dell'oggettività e attraverso un attenzione al significato delle parole che dissipa ogni ambiguità, ma ci fa anche perdere ogni reale vicinanza. Gli autori del passato sono per noi totalmente morti. Persi per sempre.

15) Arriverò presto alle mie conclusioni che, naturalmente, non potranno che essere provvisorie e forse persino auto-distruttive. La prima vittima del mio argomentare sarà l'idea di letteratura da cui sono partito. L'idea latina della letteratura, un passo fondamentale per la nostra evoluzione, se seguiamo Leopardi e Hölderlin nella loro linea di ragionamento. Un'idea che implica una conseguenza: che i testi, presi da soli e appartenenti alla tradizione della lingua scritta o ad una specifica area di specializzazione (storia, poesia, scienza), possano costituire un campo separato dalla realtà. Questo non è sicuramente auspicabile. Noi non siamo i custodi di questa separatezza. Se lo fossimo, la letteratura diventerebbe quella descritta da Ted Hughes in God Help the Wolf After Whom the Dogs Do Not Bark, quando, parlando delle reazioni alla poesia di Sylvia Plath, scrive:

«The Colleges lifted their head. It did seem
You disturbed something just perfected
That they were holding carefully, all of a piece,
till the glue had dried. And as if
reporting some felony to the police
They let you know that you were not John Donne».

Se questa è la letteratura, e credo di sapere bene di cosa parla Ted Hughes, se la consideriamo un reame speciale in cui la sensibilità viene difesa a suon di competenze storiche, e dove non c'è posto per i non-iniziati, allora credo che nessuno di noi abbia voglia di lavorare per lei. Questa è letteratura trasformata in privilegio e Ernst Gombrich si è già liberato di una tale falsa ambizione molto più eloquentemente di quanto potrei fare io nell'introduzione alla sua Storia dell'arte; noi non vogliamo alimentare una lotta di classe. Quello per cui io combatto, al contrario, è una poesia che non è letteratura e che si tiene al di fuori della storia. Questo perché anche io, come molti di voi, passo un sacco di tempo sui libri, guardando la luna e le stelle come Leopardi e Dante, e mi muovo lunga la frontiera in cui significato e parola sono ancora un'unità e sembrano parlarci per la prima volta, come a quel primo pastore dell'età neolitica. Quando parole dal significato ancora misterioso per noi, come amore ed essere, portano nella nostra epoca il peso scomodo e benvenuto di una presenza antica. Questo è il miracolo di cui siamo testimoni e che desideriamo sperimentare ogni volta che prendiamo fra le mani un nuovo libro e speriamo nel ripetersi di una nuova fainomai, una nuova apparizione. Succederà anche questa volta, come già ci è successo leggendo Anna Karenina e l'Iliade? Verremo di nuovo trasportati così lontano? Arriveremo a superare la distinzione fra il tempo e ciò che è senza tempo? Da qualche parte dentro di noi, speriamo che questo libro non letto che abbiamo appena preso in mano possa riuscirci di nuovo, lo desideriamo in quel dialogo segreto che noi lettori, attraverso l'autore, intratteniamo con il mondo reale di cui sappiamo di essere parte, ma che spesso non ci sentiamo parte. Un reale che è dentro e fuori di noi, di là dal linguaggio, in attesa di metafore che lo rimescolino, lo peschino dal suo torpore indistinto facendone balenare le forme come acqua di una fontana che costruisce figure inafferrabili, effimere, nei riflessi di luce che balenano e illuminano e poi scompaiono mano a mano che procediamo nella lettura. Con entusiasmo speriamo che i testi riescano ad abolire il tempo e lo spazio, che ci aiutino a viaggiare attraverso di essi, che ci spingano oltre le limitazioni della nostra esperienza e allo stesso tempo mettano alla prova tutto ciò che crediamo di sapere e di sentire riguardo a questo mondo. Vogliamo vedere cose succedere, vogliamo che le parole ci aiutino a vederle e che non permettano al tempo di consegnare la forza di queste percezioni a un'altra epoca, remota e separata da noi. Cerchiamo di sistemarci, come quel pastore stanco, nel villaggio neolitico delle parole, intorno a un fuoco caldo, con un senso di grandezza che non abbiamo dimenticato, un senso di grandezza che vogliamo rinnovare. Un senso di grandezza che nutriamo con la nostra continua lotta alla ricerca della comprensione. Questo è il nostro patto d'amicizia con i libri.

[Traduzione dall'inglese di Giuseppe Nava e Cristina Massaccesi]

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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