Rita Fresu
Lingua e stile del racconto «Giovine anima credula»
di Massimo Bontempelli

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
Introduzione
La medietà linguistica
L'organizzazione sintattica e la progressione testuale
L'uso dei tempi verbali ed effetti fonico-evocativi



§ II. La medietà linguistica

I. Introduzione

Solo recentemente si è registrato un insolito fervore editoriale, anche fuori d'Italia, intorno alla figura di Massimo Bontempelli, e più in generale la critica ha manifestato una maggiore attenzione contribuendo, con monografie e interventi specifici, a rischiarare la figura dell'autore comasco e la sua vastissima produzione narrativa, poetica e teatrale, oltre che la sua attività di saggista, giornalista, musicista e critico d'arte.1 A tale riflessione "corale"2 sulla figura di Bontempelli come intellettuale e come operatore culturale a tutto tondo manca tuttavia la voce degli storici della lingua, della cui attenzione, infatti, questo autore, complesso ed enigmatico, non ha ancora goduto.
Al pari di Tommaso Landolfi e di Dino Buzzati, il cui ordito linguistico è divenuto oggetto di ricognizioni soltanto di recente,3 anche la produzione di Bontempelli risulta trascurata, come se la categoria del fantastico e la suggestione delle esperienze surrealistiche che accomunano questi scrittori costituissero un motivo sufficiente a relegare in un cono d'ombra la portata linguistica e stilistica delle loro opere. A parte qualche cenno di carattere generale,4 infatti, Bontempelli rimane escluso dalla maggior parte delle rassegne storiche dell'italiano letterario e dai contributi, anche quelli più recenti, dedicati alla lingua del XX secolo.5
Questa breve nota propone un primissimo accertamento su alcune strategie linguistiche, già in parte riscontrate nella narrativa bontempelliana,6 del racconto Giovine anima credula (1924), spunto principale del più noto e travagliato dramma teatrale Minnie la candida (1925-1927), successivamente trasformato in opera lirica nel 1942 dal musicista Riccardo Malipiero junior.7

 

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II. La medietà linguistica

Scritta nel 1924 a Parigi per il «Corriere della Sera», poi confluita nella raccolta La donna dei miei sogni e altre storie d'oggi (1925-1927),8 la novella fu definita da Pirandello «adattissima», finanche nel titolo.9 Il racconto nasce, come noto, «da un scherzo e un terribile equivoco» che «sottolinea la soggettività e relatività del reale».10 L'inganno, per il quale la giovane Minnie crede che i pesciolini rossi nella vasca siano finti - e che molte persone, apparentemente "vere", siano in realtà automi artificiali - si origina, appunto, proprio da un gioco di parole:

«- Dio - esclama Minnie giungendo le mani - come sono belli!
Io l'ho raggiunta; acconsento assai seriamente:
- Sì, sono molto ben fatti.
Minnie mi redarguisce:
- Che modo di parlare! «Ben fatti» si dice delle cose che si fanno con le mani, come voi e i vostri amici quando parlate di quadri, di poesie; oppure i vestiti delle sarte...
- In primo luogo vi faccio osservare che io, e specialmente René Clamart, certo anche altri - e così dicendo la avvolgo dal capo ai piedi in una occhiata d'intenditore benevolo - vi abbiamo detto chi sa quante volte che voi siete ben fatta; eppure non siete stata fatta con le mani.
- Ma io non sono un pesce.
- Del resto - continuo io inflessibile - ho detto che quei pesci sono ben fatti, appunto perché sono pesci finti» (755-756).

Il costrutto ben fatti/a diviene dunque sinonimo di 'finti/a' e malgrado la rassicurazione del giovane alla ragazza di non essere stata fatta con le mani, Minnie si convincerà di essere una di quelle donne, fabbricate (761).
La medietà linguistica della novella appare, sin dall'inizio, nell'andamento essenzialmente dialogico che ne ha evidentemente favorito la trasposizione teatrale. Numerosi gli sconfinamenti in moduli tipici del parlato (talvolta anche al di fuori dei dialoghi), alcuni dei quali, come noto, già accolti dalla riforma manzoniana, tra cui, ad es., le forme apocopate come guardan (tutti) 757; l'uso di loro e di lei come pronome personale soggetto (loro lo diranno 759; loro credono d'essere veri 759; E loro non lo sanno 760), soprattutto nel drammatico momento finale D'un tratto lei s'irrigidisce 761 (ma di contro occorrono anche le forme standard Ella spalancò gli occhi 756; ella ripeteva il suo pensiero 760); la presenza di inversioni topicalizzanti e di costrutti topologicamente marcati:

«che serve? dappertutto possono essere arrivati» (760);
«A toccarli, sono duri o morbidi?» (757);
«E a levarli dall'acqua, che cosa accade?» (757);
«E a darne uno a un gatto?» (758);
«Loro lo diranno, lo debbono dire, loro, che sono finti» (759);
«Ma lo so, che è vero» (759);
«Ma quelli per farli cantare bisogna dargli la corda» (758).

riferito, quest'ultimo caso, agli uccellini, in cui si nota anche l'allargamento pronominale di gli per il plurale loro, mentre prevedibilmente saldo rimane l'impiego standard per il referente femminile (le faccia compagnia per mezz'ora 755; le giurassimo 759; René provò a dirle 759; Non fu possibile farle abbandonare Parigi 760; andavamo per turno a comperarle da mangiare 760 e passim).
Alla dimensione orale sono ascrivibili anche i frequenti deittici esoforici (è là 754; di 761; , sùbito 761; giù di lì 757; qui è un'eccezione 757; Qui, qui a Parigi 759; E poi, ecco qui il segreto 758; E quei due 756; Prima quelli lì sembravano veri del tutto 758; Forse quello laggiù 759 e passim) e la reduplicazione lessicale con valore rafforzativo del tipo uno grosso in fondo in fondo manda su tante bolle d'aria (756); ma giurate giurate di non dirlo a nessuno (758).11
Stabile anche l'uso del che, fatta eccezione per qualche escursione verso registri più dimessi, come il tipo enfatico incipitario Che modo di parlare! (755) o, viceversa, per sporadiche manifestazioni in direzione di una prosa più sostenuta, come l'ellittico io immaginavo stesse per ringraziarmi (757).
A bilanciare la colloquialità delle strutture morfosintattiche contribuisce la selezione di forme colte, a partire dal titolo in cui compare (su modello manzoniano) la variante giovine,12 l'interrogativo che cosa 757(2) e 761 preferito all'ellittico cosa (ma si noti anche che t'importa [...] Che m'importa? 759), il mantenimento del congiuntivo nella completiva soggettiva E quei due, non pare che mi guardino? (756); l'omissione della reggenza preposizionale in io e René Clamart tentassimo distrarla (759).
Nella medesima direzione agiscono alcune scelte lessicali come accade (757) preferito a un più comune succede in una struttura tematizzata tipica del parlato (E a levarli dall'acqua, che cosa accade?); additava 'indicava' (761); giungere13 'congiungere, unire' (in giungendo le mani 755 e giunse le mani 756); ingiovanisce14 'sembra più giovane' (757); redarguisce 'riprende' (755); volgarizzare e volgarizzarla15 'diffondere, divulgare' (758); e ancora uscio 'porta' 761(2) e la forma camicia di velo16 'sottile indumento per dormire' 761(2); interi sintagmi, infine, come Gemeva e si dibatteva 759; sonno deperito pieno di singulti 760; il che faceva un grazioso vedere17 757.

 

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III. L'organizzazione sintattica e la progressione testuale

Anche nella novella è riscontrabile il meccanismo della progressione graduale, già osservato come introduttore dell'elemento surreale in altri racconti bontempelliani.18 Tale procedimento mira, attraverso particolari espedienti linguistici (talora, come in questo caso, anche grafici), a preparare il lettore, ad avvisarlo, conducendolo lentamente verso una presa di coscienza, quasi profetica, dell'evento drammatico, e a generare, nel contempo, un senso di attesa, mediante una concatenazione di elementi anaforicamente ripetuti, ciascuno dei quali si espande semanticamente rispetto al precedente:

«Questo non avvenne.
Avvenne di peggio.
Avvenne una cosa più spaventosa, cui non avevamo pensato: la cosa più spaventosa.
Spaventosa oltre ogni immaginazione possibile» (760).

La continuità argomentativa è garantita da ripetizioni lessicali19 che, preferite all'utilizzo di pro-forme deboli (come ad es. le riprese pronominali, meno referenziali e poco tematizzanti) convogliano l'attenzione sull'elemento nuovo per poi ritornare sul precedente in una strategia di collegamento altamente coesiva:

«esposta fuori d'una bottega di strumenti da pesca. Tra gli strumenti da pesca sono compresi pesci, rane e altri animali acquatici vivi» (755);
Un giorno, lo stesso giorno, allo stesso minuto» (760);
Fu di notte, notte della primavera che era scoppiata con indifferenza su Parigi» (760);

spesso è ravvisabile anche una sorta di riecheggiamento a distanza:

«La notte nel sonno urlava, io e René la vegliavamo. Triste vita (759) [...] io e René andavamo per turno a comperarle da mangiare. Triste vita, gonfia di rimorso» (760).

Alcuni indicatori testuali, variamente specializzati, come, ad es., ma ed e incipitari, oppure l'elemento (e) poi, contribuiscono a un avanzamento essenzialmente paratattico e seriale (strutturato, talvolta, in moduli binari o ternari):

«Ma i pesciolini rossi finti» (757);
«Ma li ho visti, alla Chaussée d'Antin» (758);
«Ma erano vestiti?» (759);
«Ma lo so, che è vero» (759);
«Ma che cosa c'è dunque, di là?» (761);
«Ma quelli per farli cantare bisogna dargli la corda» (758)
«E io immaginavo stesse per ringraziarmi» (757);
«E a levarli dall'acqua, che cosa accade?» (757);
«E perché non volgarizzarla?» (758);
«E poi, ecco qui il segreto» (758)
«Minnie pensava lungamente; e apriva la bocca; e diceva: - E a darne uno a un gatto?» (758);
«Ella spalancò gli occhi in faccia a me, poi in faccia ai pesci, poi a me ancora. E di nuovo giunse le mani con stupore infinito» (756);
«Voleva rifugiarsi in casa, poi nella stanza più nascosta, poi nell'angolo più scuro» (759);
«boccheggiano, danno due o tre strappi, e poi s'irrigidiscono e non si muovono più. Come se morissero.
- E poi?
- E poi... poi si buttano via, e dopo un po' di giorni fanno come se marcissero» (757-758).

Ne risulta un'organizzazione testuale lineare, destrutturata, costituita dall'accostamento, o al massimo dalla sovrapposizione, di segmenti frastici alleggeriti degli introduttori tipici della subordinazione che, quando necessaria, viene realizzata soprattutto mediante costrutti impliciti (con una preferenza per i gerundi) oppure mediante strutture formalmente parallele e simmetriche attraverso cui si intravedono nessi logico-semantici più elaborati, come la causalità, la temporalità, la finalità, la consecutività, la concessività.

 

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IV. L'uso dei tempi verbali ed effetti fonico-evocativi

Un'attenzione particolare merita l'uso connotativo dei tempi verbali20 che risponde a esigenze stilistico-funzionali. L'alternanza tra presente storico e tempi passati sembra oltrepassare la distinzione meramente cronica per esprimere, anche in prospettiva aspettuale, la mescolanza di piani temporali differenti, volutamente fusi in un'unica dimensione indefinita, quasi atemporale.
All'avvio il racconto è "drammatizzato" mediante una sequenza di azioni espresse al presente:

«René Clamart mi affida Minnie perché le faccia compagnia per mezz'ora, sul Lungosenna del Louvre. Andando per il Lungosenna del Louvre, d'un tratto Minnie lascia il mio fianco e fugge via: è corsa a piantarsi davanti a una vasca quadrata di vetro [...]. La vasca [...] è piena d'acqua limpida e di pesci rossi: una tribù di pesciolini fiammanti, che nuotano» (755).

La narrazione continua a snodarsi sul piano temporale concomitante (io l'ho raggiunta; acconsento; Minnie mi redarguisce; io ribatto; la avvolgo 755; continuo io inflessibile 756), non senza qualche commistione, come in Minnie sorrise con gratitudine, e risponde senza logica: - Ma io non sono un pesce 756.
Non appena subentra l'elemento surreale (l'affermazione che i pesciolini sono finti), si passa all'uso del perfetto, tradizionale tempo della narrazione:

«Ella spalancò gli occhi in faccia a me, poi in faccia ai pesci, poi a me ancora. E di nuovo giunse le mani con stupore infinito» (756)

e si prosegue nei tempi storici, per lo più passato remoto (tornò, scostò, gridò; dissi; si prestò) e imperfetto (conosceva; riusciva; eravamo; domandavo; spiegava; stava; apriva e passim).
Bruscamente si torna al presente nell'unica azione che introduce, come una didascalia nella parte diegetica (infatti è tra parentesi tonde), una lunga sequenza di battute che sviluppano il momento in cui la ragazza viene a conoscenza dell'esistenza degli uomini artificiali:

«(La sera dopo, nel salottino di Minnie, mentre aspettiamo René Clamart che è andato a comperare dei sigari)» (758).

L'evoluzione drammatica della vicenda prosegue nella dimensione temporale passata:

«Minnie diventava pazza. Non servì a niente che io e René Clamart tentassimo distrarla, le giurassimo che avevamo scherzato [...]. In ognuno che incontrava, sospettava di vedere degli uomini finti [...]. L'ossessione non l'abbandonava un momento» (759)

fino al tragico epilogo del suicidio della giovane in cui le forme verbali presenti si inseriscono in un tessuto narrativo al passato lacerandolo, quasi fotografando, in un incalzante sequenza di scatti, il concitato susseguirsi degli eventi, fissati nel deittico crono-temporale ora:21

«D'improvviso ci colpì nelle spalle un opaco ululo disumano. Ci voltammo allibiti. Minnie era sollevata nel letto, e spingeva le braccia tremando.
Corriamo a lei. Ci scansò, precipitò giù dal letto, nella camicia di velo. S'era buttata davanti allo specchio [...]. Noi urliamo: - Minnie! [...].
E tentiamo di prenderla per le braccia. D'un tratto lei s'irrigidisce, sembra fissarsi, poi a lungo avvilupparsi in un pensiero enorme, che la schiacciava; sotto il peso di quello il suo volto era quasi fermo ora. Allora alzava una mano, poi tutt'a un tratto come una grande commediante gridò: - Ma che cosa c'è dunque, di là? [...]. Una luce maliziosa corse, come un lampo in un cielo, nella sua faccia e si spense via. La gola rauca ripeté - Là, sùbito là - e non abbiamo capito l'inganno; per rassicurarla corriamo là ma non eravamo arrivati all'uscio che sùbito ci voltammo come chiamati da un fulmine. E appena riuscimmo ancora a vedere Minnie come una larva bianca volare alla finestra; con un urlo la raggiungemmo, ma s'era buttata sotto: uno straccio della camicia di velo resta nelle mani scheletriche di René» (761).

La caduta nel vuoto di Minnie è scandita dall'imperfetto e dal passato remoto che sottolineano l'aspetto durativo, e nello stesso tempo, l'inevitabile compiutezza dell'azione, riconducendola entro coordinate temporali nette:

«Il corpo di Minnie precipitava, per un tempo che ci parve infinito: poi udimmo in fondo sul lastrico il tonfo».

L'ultimo vocabolo, quello che chiude la novella, provoca una forte suggestione fonica,22 concentrata nel binomio fondo-tonfo, in cui gli scambi di posizione e di sonorità degli elementi consonantici, rappresentano soltanto una delle numerose soluzioni fonico-ritmiche, tipiche di un'elaborazione poetica della lingua (spesso amplificata dall'artificio retorico),23 già notata nell'autore.24

Nel complesso, dunque, la compagine linguistico-stilistica del racconto sembra mostrare solidarietà con parte della scrittura letteraria coeva, con cui condivide un fondamentale equilibrio realizzato mediante il ricorso alla componente orale nei dialoghi (con rari cedimenti negli altri piani narrativi) su una base colta e tradizionale. Su tale ordito testuale si innesta, attraverso peculiari strumenti linguistici, l'elemento surreale/fantastico che costituisce l'aspetto specifico del racconto bontempelliano. In tale prospettiva, un ulteriore apporto potrebbe provenire dall'indagine (che si spera in futuro di realizzare), già condotta per altri scrittori,25 sulle strategie linguistiche mediante le quali l'autore ha operato il trasferimento dalla pagina narrativa alla dimensione teatrale «permeabile istituzionalmente agli influssi del parlato».26

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2005-2006

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Giugno-dicembre 2005, n. 1-2