Boubacar Boris Diop
La vecchietta

A Jean-Luc Raharimanana, che capirà

 

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Avevano appuntamento con Lucie de Braumberg alle undici del mattino all'hotel Bateke. Al loro arrivo, un impiegato venne a informare Lamine Keita che c'era un messaggio per lui alla reception. Gli diede un'occhiata e si girò verso il suo amico:
- Lucia è trattenuta al Palazzo. La sua colazione di lavoro con il Presidente va per le lunghe.
- Quale Presidente? chiese Malick Bâ aggrottando le sopracciglia, vagamente preoccupato.
Malick Bâ, che era un ragazzo semplice, si sentiva un po' fuori posto nel mondo in cui Lamine Keita, al contrario, si muoveva perfettamente a suo agio.
- Ti sto parlando del Big Boss, rispose allegramente. Cosa credi? La nostra Lucia dà del tu a tutta questa gente!
- E allora quando torna?
- Propone di vederci tra due ore.
- Bene. Saliamo al primo piano a prendere un caffè?
Proprio nell'istante in cui Lamine Keita stava per rispondere, il suo cellulare si mise a suonare. «Pronto! Pronto!» - diceva con il Nokia incollato all'orecchio, facendo segno a Malick Bâ di non muoversi. Dopo venti minuti stava ancora andando nervosamente su e giù per la hall del Bateke, urlando:
- Ne ho piene le tasche, vecchio mio. «Il diamante nero» è il mio film o è merda? Allora, firmi la produzione e non se ne parla più.
Lamine Keita non era certo uno come tanti. Non si poteva aprire un giornale senza che vi facessero capolino il doppio mento e il labbro inferiore pendulo di questo colosso sulla quarantina. Un'immagine molto apprezzata dai media lo ritraeva spesso in piedi, dietro un treppiede, con un berretto stile Cabral eternamente conficcato in testa. Aria grave, sguardo vivo e penetrante, Lamine Keita sembrava pronto a sferrare un attacco alle forze del Male, pronto a far fuoco sui nemici dell'Africa con la sua temibile cinepresa da regista impegnato.
Si faceva un gran parlare del suo prossimo film, «Il diamante nero». Da settimane, il pubblico era tenuto in sospeso da profonde congetture sul nome dell'attrice principale.
Quanto a Malick Bâ, a dir la verità aveva poco rispetto per il lavoro dell'amico. Sospettava che denigrasse l'Africa, come tanti altri, per ottenere fondi e consensi in Occidente.
- Cosa cerchi di provare col tuo cinema? - gli aveva chiesto un giorno - che i negri sono capaci solo di mutilare i bambini, di ammazzare e violentare? Pensi davvero che le cose siano così semplici?
- Certo che no! - aveva replicato Lamine Keita - Ma non dobbiamo nemmeno passare il nostro tempo ad accusare gli altri!
Lamine Keita fustigava in modo quasi rituale le tradizioni dell'Africa nera, considerate retrograde, e le violazioni dei diritti umani nel continente. Tuttavia, appena gli veniva chiesto di essere più preciso, si rifugiava dietro la sua condizione di creatore al di sopra della mischia. Gli capitava di criticare il Presidente, ma con una certa tenerezza, meravigliandosi persino del fatto che fosse un uomo di tale grandezza. Aveva appena dichiarato, del resto, che «Il diamante nero» sarebbe stato un omaggio al capo dello Stato, «convinto difensore della cultura nazionale». Con frasi del genere, l'astuto Lamine Keita riusciva senza sforzi a farsi aprire tutte le porte.
Malick Bâ si ricordò di essere andato ad accoglierlo all'aeroporto qualche giorno prima. L'aveva visto firmare autografi per alcuni passeggeri del suo volo e anche per i poliziotti e i doganieri.
- Sei sicuro che abbiano visto i tuoi film? - gli aveva chiesto ridendo.
- No, ma ne hanno sentito parlare! Eh già, è questo il nostro cinema! Una serata di gala per cretini altolocati e via verso Oberhausen, Milano o Amiens. La gente sentirà alla radio e alla televisione che ho vinto dei premi e sarà fiera.
- E allora ...
- Non hai capito niente, Malick! È il sistema, mio caro!
Lamine Keita era, nonostante tutto, un uomo molto onesto a suo modo. Gli piaceva molto il denaro e aveva trovato quasi per caso un mezzo semplice - e piuttosto gratificante - per averne. Non aveva mai pensato di essere un artista trascendente divorato dalla febbre notturna della creazione.
Dopo aver telefonato, tornò a sedersi davanti a Malick Bâ. Era senza fiato, come dopo uno sforzo:
- Scusami se ci ho messo così tanto. Parlavo con Parigi. Ci sono dei piccoli problemi con la sceneggiatura del «Diamante». Quel cretino di Jacques de Montpensier! Mi ha detto: «Senti, Lamine, c'è un solo francese nella tua sceneggiatura, quel Robert Doumergue ed è un porco, un trafficante d'armi e di diamanti, uno sfruttatore, tortura i bravi patrioti del tuo paese e basta. Tutto questo solo per lui? È un po' tanto, non credi?»
Gli ho risposto: «E allora, Jacques?» «Ascoltami, e che rimanga tra noi, qui a nessuno piace questa roba». Quando gli ho detto che era la realtà, che c'erano dei Bob Denard 1 e un sacco di avventurieri dello stesso genere che facevano un gran bordello dappertutto in Africa, si è un po' arrabbiato. «Ma cosa ci veniamo a fare nelle vostre faccende? Stai diventando razzista, te lo dico io! I vostri paesi sono indipendenti, io mi sono perfino battuto per questo, cos'altro volete? E tu credi che ti allungheremo centinaia e centinaia di milioni perché ci insulti? Non ti riconosco più, Lamine!»
- E cosa farai allora? chiese Malick Bâ, abbastanza divertito.
- Cade a fagiolo, ne parlerò con Lucie de Braumberg. Si pisceranno tutti nei pantaloni, quei bianchi. Se riesco a convincerla, andrà tutto bene.
- Allora buona fortuna, fece ironicamente Malick Bâ.
- Sì, ma è imprevedibile la vecchietta. Non si può mai sapere in anticipo quello che deciderà. E poi sa essere terribilmente cattiva quando vuole.
Lamine Keita aggiunse che in ogni caso non avrebbe lasciato perdere «Il diamante nero». Era il film della sua vita e lui era pronto a qualche sacrificio.
- Per esempio, gridò in uno stato di esaltazione improvvisa, ho appena pensato a un compromesso. Robert Doumergue non si tocca. Rimane un porco eccetera, ma ha quella moglie così buona che non è credibile. Marie-Rose Doumergue. Che razza di nome! È un ingegnere agronomo e mentre suo marito manda all'esecuzione i nemici del tiranno, sperimenta nuove varietà di mais e di miglio. Il problema di questa tizia è che se non fa niente, i contadini africani moriranno di fame. Allora per non averli sulla coscienza, cerca giorno e notte delle cose nel suo laboratorio nella savana. Se tutto va bene, appena apparirà sullo schermo, le anime sensibili si metteranno a piagnucolare per quella santarellina di Marie-Rose Doumergue!
Con gli occhi infuocati, aveva gesticolato e gridato così forte che molte persone presenti nella hall si erano girate verso di loro.
Malick Bâ era affascinato da tanto cinismo. Sapeva però che Lamine Keita era un uomo di gran cuore e un amico leale. Gli aveva proposto, ad esempio, di far parte della giuria di cinema che Lucie de Braumberg aveva appena costituito.
- Ha avuto l'idea di dare dei premi a film africani, così, tanto per fare. Ti avviso ragazzo, aveva detto a Malick Bâ.
- Non ci capisco niente! aveva protestato quest'ultimo, un po' spaventato.
Timido ma fiero, non aveva nessuna voglia di rendersi ridicolo di fronte a critici, scrittori e altri grandi nomi in campo artistico.
- Non fare l'idiota, ragazzo! Cosa vuoi che ci capisca io, Lamine Keita, di cinema? Non lasceremo certo che questi schifosi arraffino tutti i soldi. C'è del grano, lo prendiamo e filiamo via. Io e te siamo dei contadini di Bwiti, non dimenticartelo mio caro Malick! Solo l'agricoltura è una cosa seria!
Malick Bâ continuava a non sentirsi tranquillo:
- Forse farei meglio a documentarmi un po' ...
- Se proprio vuoi, fece Lamine Keita infastidito. Ma non ti azzardare a contrariare Lucie de Braumberg. Mi ha nominato presidente di giuria e ha cooptato gli altri. Tu sarai l'unico che lei non conosce. L'ascolti bene, ti contorci un po' come un vero intellettuale per mostrare che non sei una marionetta e che in fin dei conti accetti, preferibilmente con una smorfia leggermente ambigua, che certo, lei ha ragione e che questo cazzo di film è il capolavoro del secolo.
- Di quale film stai parlando?
- Wait and see! Lo sapremo presto. Ti farò l'occhiolino.
- Com'è complicato, Lamine! Non sono sicuro ...
- Lucie può cambiare la tua vita, vecchio mio. Hai toccato il fondo da molti anni e adesso vuoi rifiutare la mano di un amico?
Girando per caso la testa verso destra, Malick Bâ intravide sul marciapiede di fronte un autista che apriva la portiera di un'auto. Era una limousine nera scortata da due motociclisti della guardia presidenziale. Disse a Lamine Keita:
- Guarda attraverso il vetro. È lei, credo.
- Sì, disse Lamine Keita a bassa voce, è la famosa Lucie de Braumberg.
Malick Bâ percepì con stupore una sfumatura di timore e di deferenza nella voce dell'amico. In genere, non rispettava niente e nessuno.
Il suo primo pensiero, al vedere la vecchia che veniva verso di loro in un abito bianco ornato di fiori verdi e blu pallido, fu: «Questa signora non cammina, trotta». A dir la verità, Lucie de Braumberg saltellava o quasi, facendo piccoli movimenti con la testa in tutti i sensi, come se cercasse qualcuno tra la folla. Dietro un paio di occhiali spessi da miope, i suoi occhi grigi come il ferro brillavano d'intelligenza, ma mostravano immediatamente tutta la sua durezza.
Tendendo la mano a Malick Bâ, lo fissò intensamente:
- Ah, sei tu quindi l'unico vero amico del grande Lamine Keita! Sembra che abbiate mangiato insieme un bel po' di faraone arrosto nella foresta di ... Di quale foresta si trattava?
La domanda era rivolta a Malick Bâ che non rispose. Lamine Keita disse allegramente:
- Era nelle profondità del Ndimbo!
- Oh, che sciocca! È la foresta che ha dato il nome al vostro nuovo aeroporto di Ndimbo. Con tutto il denaro che ci ho fatto mettere, non avrei dovuto dimenticarmi il nome di quest'aeroporto.
Da quel momento, Lucie de Braumberg e Malick Bâ sentirono che i loro rapporti non sarebbero stati facili. Lei non riusciva a capire se lui fosse timido o arrogante. Lamine Keita le aveva decantato le qualità intellettuali dello sconosciuto, ma secondo la sua esperienza dell'Africa, gli individui di quel genere cercavano sempre di distinguersi. Si perdevano in grandi frasi contorte e patetiche che non volevano dire niente, solo per far finanziare progetti rovinosi e inutili e intascarsi tutto il possibile.
Malick Bâ non era meno incuriosito da quel che sentiva. Per molto tempo dopo la tragedia si era stupito spesso, da solo nella sua cella, di aver provato tanto odio per Lucie de Braumberg il giorno stesso del loro primo incontro.
Durante tutto il pranzo la vecchia raccontò il suo colloquio con il Presidente.
- Gli ho detto, eh, signor Presidente, la corruzione esiste ovunque, da me in Francia, in Australia, in Cina, ovunque. È l'impunità che è pericolosa. Una società non può accettare il consenso sulla corruzione.
- Ben detto! esclamò Lamine Keita, tra il serio e il faceto. Bisogna tirargli le orecchie ogni tanto ai nostri politici.
- Figurati! Certo che gli ho tirato le orecchie! Gli ho detto: adesso basta con quest'abitudine di andare a nascondere i nostri miliardi in Lussemburgo, in Lichtenstein e in Svizzera! Vogliamo vedere i pozzi e i centri sanitari uscire dalla terra, oh! E anche lui è d'accordo, il vostro Presidente, che non può continuare a torturare a morte i suoi oppositori.
- Verissimo, dichiarò Malick Bâ, tanto per dire qualcosa.
Vedeva bene fino a che punto Lamine Keita era imbarazzato e sempre più angosciato dal suo silenzio.
Lucie de Braumberg sosteneva di aver ricevuto in quattro giorni i personaggi più importanti del paese. Malick Bâ la sentì con stupore incensare gli uni e dare agli altri dei pigri o degli incapaci. Gli sembrava che avesse il dente avvelenato contro il Movimento per la Democrazia e l'Indipendenza, che accusava la Francia di nominare e destituire nell'ombra le autorità politiche nella sua ex-colonia. Ardo, il capo di questo partitino, si era rifiutato di incontrarla e lei l'aveva trattato più volte come un intellettuale pretenzioso.
A parte questo, Lucie de Braumberg andava pazza per le storie di sesso. Le raccontavano volentieri i dettagli più piccanti.
Fece allusione al rapporto che stava preparando per il Club di Parigi.
- Sarà doloroso per quel paese, disse in tono misterioso, con una smorfia.
- Ahi, scorrerà il sangue! disse allegramente Lamine Keita muovendo le dita della mano sinistra. Abbi pietà di noi anche tu mamma Lucia!
Sulla strada del ritorno, Malick Bâ fece notare a Lamine Keita che avevano parlato pochissimo di cinema.
- Ehi tu, bisognerà che mi occupi della tua educazione, giovanotto! Sappi che anche durante le sessioni della nostra giuria, non si parlerà di cinema. È testarda come un mulo, la vecchia bagascia. Ha trovato questo mezzo per dare dei milioni a un regista balordo e lo farà. E resti tra noi, dei film che verranno proiettati, se ne fregano tutti. Detto questo, immagino che tu abbia un'altra domanda ...
- Ah sì?
- Ma sì, Malick. Tu vuoi sapere se sono io che me la faccio la vecchia, vero? Dici sempre che siamo dei mostri, noi artisti di genio!
- Io non ti ho chiesto niente, ma qual è la risposta?
- Allora: è il colonnello Kanté che se la scopa.
- Il colonnello Kanté?
- Il Ministro della Difesa in persona, giovanotto. Sull'attenti!
Risero di cuore.

Sollevandolo da terra, la guardia lo sbatté violentemente contro il muro:
- Stai fermo in questa posizione, mi hai capito? Al minimo gesto, sei morto.
Malick Bâ eseguì docilmente.
La guardia gli si avvicinò e vide che la sua bocca era un piccolo buco nero che puzzava. Gli mancavano molti denti.
All'alba, l'aveva fatto uscire dalla cella per condurlo alla Sala delle Macchine. Era il nome scelto a puntino del luogo in cui si svolgevano gli interrogatori. Nella stanza buia c'era una dozzina di apparecchi arrugginiti destinati a spaventare i detenuti.
La guardia fece togliere a Malick Bâ la divisa da prigioniero. Al contatto dell'abito con il suo dorso nudo, fu per urlare dal dolore. Le bruciature dei mozziconi di sigaretta gli impedivano ancora di dormire la notte.
- Questo è solo l'inizio, gli diceva con una voce glaciale.
Talvolta lo faceva incatenare a una sedia e gli girava intorno sbraitando.
- Parlerai, ragazzo. Dirai addirittura cose che non credevi di sapere! Ne ho domati di più duri di te!
A volte la guardia riusciva anche a mostrarsi caustica:
- Fai attenzione, a me piacciono quelli che sono pronti a morire per le loro idee. Il nostro secolo non sa più sognare! Per me, ti faccio tanto di cappello, bravo, hai fegato quanto serve. Ma io non ti farò nessuno sconto. Vi siete spinti troppo in là, tu e i tuoi compagni. Siamo in Africa, caro mio, non si sgozza così il capo dello stato nel suo ufficio, in mezzo alle sue pratiche, come un maiale qualsiasi e poi succeda quel che succeda!
Per Malick Bâ c'era un equivoco. Non aveva mai voluto giocare all'eroe. Da quando l'avevano buttato in quella cella non aveva smesso un attimo di proclamare la sua innocenza. Appena la guardia gli si avvicinava si metteva a piangere come una femminuccia. Gli diceva con voce supplichevole:
- Mi dica cosa vuole sapere, signore, farò uno sforzo. Non voglio morire, signore. Sono innocente.
La guardia allora ridacchiava:
- Credi di trattarmi da imbecille solo perché non ho studiato? Li conosco io quelli come te. Ti dici: ecco un ufficiale del nostro schifoso esercito che sa appena leggere e scrivere. È così, no? Parlerai, te lo dico io.
- Ma di che?
- Voglio risposte non domande!
E gli sferrava calci violenti tra le gambe e al ventre.
Nel corso delle giornate, a Malick Bâ era capitato spesso di sentirsi dentro a un film. La guardia parlava per frasi fatte, sentite mille volte in altre pizze dello stesso tipo. Era tenuto a essere il tipo idealista e temerario, pronto a morire sotto tortura per non mettere a rischio l'Organizzazione. Ma la guardia stava per ucciderlo sul serio. E lui era tutto fuorché temerario. In più non c'era nessuna Organizzazione. Se avesse fatto parte di un gruppo armato, non avrebbe esitato a denunciare i suoi compagni per salvarsi la pelle. Non si era mai sentito molto coraggioso, ma non si credeva nemmeno pronto a tutto per timore della sofferenza.
- Non so niente, signore.
- Vedremo più da vicino.
Malick Bâ veniva fatto sdraiare a pancia in giù su una piastra rovente e per alcuni secondi non riusciva a sentiva altro che le sue stesse urla.
Nel paese lo sapevano tutti che i colpi di stato abortiti erano sempre i più sanguinosi. E il Movimento degli Ufficiali e dei Patrioti aveva superato ogni limite. Invece di servirsi del Presidente come moneta di scambio, i militari gli avevano mozzato la testa nel suo ufficio. Questo aveva creato il panico e portato un vento di follia sulle grandi città. Tutti quelli che credevano di poter sostituire il Presidente dichiararono che la patria era in pericolo e ognuno fece aprire alla svelta un centro di detenzione per liquidare i propri rivali. In quello in cui si trovava, Malick Bâ sentiva la gente urlare tutta la notte. Uno dei suoi compagni di prigionia era un vero eroe, così coriaceo che i suoi carcerieri ne parlavano con rispetto appena fuori dalla Sala delle Macchine. Si accanivano su di lui e lui li trattava come militari corrotti, venduti agli interessi stranieri. Tra una tortura e l'altra pretendeva perfino di occuparsi della loro educazione politica.
«I figli di questi stranieri hanno forse più bisogno di petrolio dei nostri?» - gli diceva. Era completamente pazzo. Malick Bâ si chiedeva in quali profondità un essere umano potesse trovare una forza simile. Avrebbe dato tutto quel che aveva per incrociare l'uomo nel corridoio e fargli un cenno in segno di amicizia. Una notte, Malick Bâ non lo sentì insultare i carcerieri e capì che non l'avrebbe mai visto. Il giorno dopo i carnefici gli sembrarono un po' tristi e vergognosi. Li sentì chiamarlo per nome.
Era Ardo.

Nel pomeriggio del tentativo di colpo di stato, Malick Bâ si trovava nel salone Ayinemi dell'hotel Bateke. Nei giorni precedenti la giuria aveva visionato una mezza dozzina di film. Era raro che i cortometraggi creassero dei problemi, ci si poteva rendere subito conto se si aveva a che fare con un principiante promettente o con uno spaccone incapace. Temendo di infastidire Lamine Keita, Malick prendeva di rado la parola. Ma Lucie de Braumberg aveva dei comportamenti così impertinenti che si erano scontrati spesso.
Lucie de Braumberg non capiva a sua volta l'ostilità di Malick Bâ nei suoi confronti. Era riuscita a procurarsi senza fatica il suo dossier alla polizia, ma non ci aveva trovato niente di serio. Era un poveraccio, in realtà. Dopo la maturità aveva scritto qualche cartella per dei giornali loschi. I suoi articoli sul teatro e la poesia erano enfatici e vuoti. Nel quartiere popolare in cui aveva preso in affitto una camera minuscola lo consideravano un grande giornalista. Perché questo ragazzo senza storia la odiava a tal punto? Aveva una sola certezza: Malick Bâ non era ambizioso, non stava rimuginando su qualche progetto da far finanziare. Allora era pazzo? La zuffa che Malick Bâ aveva scatenato dopo la proiezione di un documentario sulla schiavitù in America la spingeva a pensarlo. Il film aveva come sfondo i bayou 2 della Louisiana. Schiavi neri in fuga erano nascosti dagli Indiani Seminole. I loro padroni bianchi che li ricercavano erano accolti da nugoli di frecce e morivano a decine. Di tutti i membri della giuria Malick Bâ era l'unico ad averlo trovato strano. Durante i dibattiti aveva fatto una serie di strafalcioni parlando della solidarietà fra gli oppressi.
Era più di quanto Lucie de Braumberg potesse sopportare e aveva mugugnato:
- Non è comunque una questione di colore della pelle!
Malick Bâ era uscito dai gangheri. E tutti e due si erano messi a dire delle enormità.
- Gli indiani! Gli indiani! Non dico che bisognava sterminarli, ma sono stati comunque i pionieri a fare dell'America quel che è oggi! Siamo franchi! (Mormorii d'approvazione tra gli altri membri della giuria. Ah! È difficile da accettare ma è vero, quel che dice la signora! 'Sti Sioux e Apaches non pensavano ad altro che a sbronzarsi e a fare delle guerre che poi perdevano in continuazione!)
- E il Sudafrica? esclamò Malick Bâ, con gli occhi fuori dalle orbite. Dimentica il Sudafrica, signora! Anche laggiù, che disastro sarebbe stato senza i Boeri! I Boeri hanno liberato il Sudafrica dagli Zulu! E l'Australia, allora, con quegli idioti di aborigeni! E tutta l'America latina! Viva la supremazia dei bianchi!
- Io non sono affatto razzista, signor Bâ!
- Oh invece sì! Sei una razzista schifosa, signora De Braumberg.
- Ma no ...
- E per di più sei una grandissima bagascia!
Presa alla sprovvista da una violenza così inusuale, rimase appena scioccata e gli disse sorridendo:
- Una grandissima bagascia? Non si dice, sa, non è corretto in francese.
- Sai quanto me ne frega!
Avevano continuato a lanciarsi insulti per alcuni, lunghi, minuti. Lei diceva che era troppo facile comunque dar la colpa agli altri e gli faceva i nomi in ordine sparso di Lumumba, Sankara, buttava lì due frasi sprezzanti su Mitterand, su Elf, naturalmente lei ignora la corruzione, la guerra civile in Congo-Brazzaville, queste cose lei le ha solo sentite alla televisione, come tutti!
Quel giorno, Lamine Keita aveva riconosciuto a stento il suo amico. Gli aveva detto, lasciandolo davanti a casa sua, nel quartiere di Sandika:
- Cosa ti prende, vecchio mio? Sappiamo che hai ragione, ma perché non chiudi il becco come tutti? Pensi che io non sappia dove mi trovo? Guarda che non sono un imbecille. Soltanto, loro sono i più forti. Aspettiamo il nostro turno.
Malick Bâ non rispose. Pur ammirando la franchezza di Lamine Keita, ne aveva fin sopra i capelli di quella Lucie de Braumberg.
Trasudava arroganza. Trasudava l'impressione di trovarsi in mezzo a dei vinti.
Dopo questo episodio, Malick Bâ e la vecchia evitarono perfino di stringersi la mano.
Il tentativo di colpo di stato avvenne due giorni dopo.
Quando la proiezione del film sugli emigrati dell'Africa occidentale in Italia fu interrotta bruscamente, i giurati pensarono a un semplice problema tecnico. La luce tornò e un impiegato dell'ambasciata francese che accompagnava Lucie de Braumberg dappertutto venne a dirle qualcosa all'orecchio. Nei minuti che seguirono, c'erano tutti nella hall del Bateke e regnava una gran confusione. I clienti dell'hotel telefonavano alle famiglie o volevano essere sicuri di prendere l'aereo. Intorno a Lucie de Braumberg si era formato velocemente un capannello. Mentre gli altri la ascoltavano, Malick Bâ si tenne in disparte. La vide indicarlo da lontano con insistenza e poi scuotere la testa. Subito dopo una Pajero guidata da militari francesi andò a parcheggiarsi davanti a loro. Lucie de Braumberg propose a Lamine Keita di salirvi insieme a lei. Lui rifiutò. Infilandosi nell'auto grigia, Lucie de Braumberg non poté fare a meno di girare la testa di nuovo verso Malick Bâ. Lui rispose con un sorrisetto carico di disprezzo.
La mia macchina è parcheggiata vicino all'incrocio Oyo-Oyo, disse Lamine Keita.
- Sembra che il settore sia chiuso dall'esercito.
- Sì. E pare che siano nervosi in questo momento.
- Cosa facciamo? disse preoccupato Malick Bâ. Ci rimangono gli autobus.
- Sbrighiamoci a prenderne uno, presto non ci saranno più neanche quelli.
I due amici fecero un gran giro per evitare il palazzo presidenziale. Fu una buona idea. Alcuni minuti dopo, una fucilata fu esplosa in quel punto. Trenta passanti furono falciati da raffiche di armi automatiche.

Sentì girare le chiavi nella serratura e si irrigidì completamente. La guardia ci metteva sempre un po' di tempo ad aprire le tre porte. Poi faceva sbattere pesantemente gli stivali sul pavimento. Per Malick Bâ, lo faceva apposta a camminare così lentamente. «Tenta di farmi paura prima di arrivare da me», si diceva.
Quando lo conduceva nella Sala delle Macchine, il corridoio era sempre deserto. Immaginava che i suoi compagni di prigionia si chiedessero chi fosse. Lui del resto non aveva mai visto nessuno di loro, si conoscevano solo dalle urla. Credendosi, come spesso capita in questi casi, l'unico innocente, Malick Bâ era quasi felice di vedere gli altri soffrire tutto intorno; non sentiva nessuna pietà per loro e aveva talvolta come degli accessi di follia. Il detenuto numero 23 urlava e lui, accovacciato nella sua cella, ridacchiava e lo insultava, intellettuale schifoso, dài, parla ancora bello mio, non hai ancora visto niente, ti ridurremo la testa a pezzettini per insegnarti a pensare, sbruffone che non sei altro!
- Alzati, disse la guardia in piedi sopra di lui.
Malick Bâ riuscì a stento ad alzarsi in piedi. Faceva attenzione a non stare troppo vicino alla guardia, che gli porse dei vestiti puliti.
Malick Bâ alzò gli occhi sull'uomo.
- Non guardarmi così, mugugnò, lavati e seguimi.
Veramente curioso tutto questo. «Forse sono arrivati quelli dei diritti dell'Uomo». Avrebbe fatto esplodere uno scandalo, mostrando le sue ferite oppure avrebbe detto loro che lo trattavano bene?
Aveva appena finito di farsi queste domande quando la guardia venne a mettergli una benda nera sugli occhi.
L'auto corse per circa un'ora attraverso la capitale.
Le strade della città gli sembrarono calme. Ma c'erano ancora degli scontri in alcune zone tra gli insorti e l'esercito regolare. Seduto sul fondo del veicolo, con le mani dietro la schiena, Malick Bâ sentì più volte rumori di arma da fuoco tutt'intorno. Li avevano presi di mira dal tetto di un palazzo. La guardia chiese per radio se poteva passare sotto il ponte dei Trois-Figuiers. Quando il semaforo fu verde, ordinò all'autista di girare a cento metri a sinistra, ma nel momento in cui la macchina stava per prendere la curva, la radio gracchiò di nuovo. Dopo aver ascoltato il messaggio, disse al conducente:
- Ousmane, vai dritto fino alla rue des Réservoirs, 'sti figli di puttana sono già ai Trois-Figuiers.
- Come? disse il conducente.
- Oh, saranno presto in trappola, scorrerà il sangue credimi!
Malick Bâ fu colpito nell'accorgersi che la benda non lo separava completamente dal mondo. Dove non si combatteva, la vita seguiva il suo corso normale. La loro auto si era fermata al semaforo, uno dei militari della scorta aveva comprato delle arance e una bottiglia di acqua ghiacciata e aveva cercato di rimorchiare la commessa.
Attraversarono per una decina di minuti un quartiere molto calmo; sentendo stridere le gomme sulla ghiaia, capì che erano arrivati a destinazione.
Sul bordo di una piscina, gli tolsero la benda e si vide davanti un uomo che lo osservava in silenzio. Sfoggiava moltissimi galloni e medaglie sul risvolto dell'uniforme. Malick Bâ intuì da una certa aria di diffidenza e di noia dipinte sul suo viso che era un militare importante. Avvertì il prigioniero con una voce quasi dolce, senza guardarlo:
- Qui sarà tutta un'altra cosa rispetto alla Sala delle Macchine.
Malick Bâ rimase in silenzio.
- Denudatelo.
Lasciò fare chiedendosi con terrore dove si trovasse. Il lusso discreto e raffinato dell'ambiente non prometteva niente di buono.
- Sono pronto a parlare, disse, senza sapere bene cosa stesse facendo.
- Cosa potrà mai sapere un vigliacco come te? chiese una voce dietro di lui.
Si girò e vide Lucie de Braumberg.
Tenne la testa bassa, coprendosi il sesso con le mani.
- Sposta di lì quelle mani e guardami, per favore. È la vecchia bagascia che te lo ordina.
Malick Bâ obbedì non senza una certa sollecitudine.
Lucie de Braumberg si trovava vicina a una poltrona dai cuscini verdi e rossi, rigida, con le braccia incrociate sul petto. Solo gli occhi facevano fatica star fermi.
L'ufficiale si presentò:
- Sono il colonnello Kanté. Sai cosa ti resta da fare.
- Parlerò, disse Malick Bâ, con la voce che gli tremava.
- Ma di cosa vuoi parlare, coglione che non sei altro? Riconosci questa signora, vero?
- Sì.
- Chiedile scusa.
- Sì.
- Sì cosa? ringhiò il colonnello Kanté. Questa signora viene per aiutare il nostro paese e tu la tratti così, come una vecchia bagascia. Ti sembra giusto?
- No, mio colonnello.
Lucie de Braumberg non gli staccava gli occhi di dosso.
Abbassò nuovamente la testa. Il colonnello Kanté gli sollevò il mento guardandolo fisso negli occhi.
Malick Bâ pensò ad Ardo, l'uomo che sfidava con tanto ardire i suoi carnefici nella Sala delle Macchine. Se Ardo fosse stato lì, Lucie de Braumberg e il colonnello Kanté non avrebbero fatto tanto i superbi; li avrebbe insultati. Ma lui aveva male in tutto il corpo e il cuore che gli batteva troppo forte, e non poteva farci niente.
Così, sollevando uno sguardo pietoso su Lucie de Braumberg, disse:
- Non ci siamo capiti, signora.
Sul viso fino a quel momento impassibile della vecchietta apparve una vaga smorfia di disgusto.

Spingendo il portone di legno di casa sua, vide tutta la famiglia riunita nella corte a guardare la telenovela brasiliana del giovedì e capì solo allora perché le strade che portavano al quartiere di Sandika erano così vuote. «Il testamento di José Cabrera» teneva in sospeso il paese da sei settimane. Anche durante la breve guerra che era seguita al colpo di stato mancato, i giovani soldati facevano in modo di sapere se la bellissima Marbella Santander avrebbe dato una speranza a Roberto Galeano. Quattro o cinque bambini vennero ad aggrapparsi a lui e Malick Bâ ebbe in un baleno l'impressione nettissima di tornare dall'altro mondo, insospettato, nascosto lontano lontano, nel ventre della città.
Penda Ndiaye, la sua affittacamere, accorse verso di lui. Nonostante il buio, capì immediatamente e disse a bassa voce:
- Sei vivo, molto bene.
Si accontentò di annuire in segno di approvazione. Penda Ndiaye mormorò ancora:
- I Malvagi, Dio li aspetta lassù.
In tempi normali, telenovela o non telenovela, tanti abitanti di Sandika sarebbero andati a salutarlo dopo un'assenza così prolungata. Ma dopo qualche settimana di carneficine, ognuno aveva imparato a non fare più niente come prima.
Dopo aver fatto una doccia e cenato con un resto di baasi3 si mise in disparte con Penda Ndiaye.
- E Lamine Keita? chiese.
- Ah, esclamò l'affittacamere, è un vero amico lui! Sai che era talmente preoccupato che è andato a cercati nel paese in cui sei nato... ?
Vedendo che cercava di ricordarsi il nome del paese, Malick Bâ le venne in aiuto:
- È Bwiti, verso il confine con il Mali. Siamo cresciuti laggiù io e Lamine.
Penda Ndiaye disse con voce commossa:
- È una persona buonissima. Mi diceva: «Sorella, non preoccuparti, ti riporterò qui Malick Bâ. Lo conosco bene quel dritto, è capace di andare a Bwiti senza dir niente a nessuno».
Malick Bâ sentiva in Penda Ndiaye l'orgoglio di essere stata in contatto con il celebre regista che aveva visto spesso alla televisione.
Al suo arrivo a casa, Lamine Keita trovò l'amico al centro della corte. Appoggiato al mango, con le gambe incrociate, gli chiese soltanto:
- Ti hanno fatto la bua, Malick?
- No, tutto a posto.
Sentì una profondità sconosciuta nella voce di Lamine Keita; non era più il giovane artista bislacco e spensierato. C'era in lui una strana mescolanza di odio, tristezza e di stanchezza.
Rimasero in silenzio un attimo, poi Malick Bâ lo punzecchiò:
- E Doumergue?
Lamine Keita non capì subito:
- Doumergue ...?
- Sì, il tuo francese cattivo del «Diamante nero» ... ha finito per sposare quella santarellina di Marie-Rose o no?
La domanda rallegrò un po' Lamine Keita.
- Per il momento, non penso più a quel film e poi, sai, l'unico vero cinema è la vita. Se ti raccontassi quel che ho visto negli ultimi tempi mentre ti cercavo!
Sentirono i titoli del telegiornale della notte e tesero l'orecchio istintivamente, ma non c'era nessuna notizia interessante. Il nuovo Presidente, il colonnello Kanté, sapeva che il suo potere era ancora fragile e cercava di ottenere appoggi, riceveva continuamente delegazioni venute da tutte le regioni del paese.
- Ieri hanno fatto vedere il colonnello Kanté con Lucie de Braumberg. Sembra che sarà proprio la nostra amica a prendere il posto dell'ambasciatore francese.
- Eh, almeno sarà chiaro, disse Malick Bâ alzando la testa verso di lui.
- E sai una cosa? chiese Lamine Keita, devo vederla domani.
Tacque un attimo, cercò Malick Bâ con gli occhi nel buio e aggiunse con una strana voce:
- Se vuoi, possiamo andarci insieme.
Ci fu un'altra pausa, più lunga. Entrambi sapevano bene cosa significava. Malick Bâ rispose soltanto:
- La mia grandissima bagascia ... Ma certo che vengo con te!
E dopo averlo detto, si sentì felice e leggero.

 

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Giugno-dicembre 2005, n. 1-2