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Nicola Lagioia, Christian Raimo (a cura di), La qualità dell'aria. Storie di questo tempo, Roma, minimum fax, 2004, pp. 364, € 13,00.
Giulia Bellone (a cura di), Gli intemperanti, Padova, Meridiano zero, 2003, pp. 183, € 10,00.
Il libro a venire, «il verri», n. 28, maggio 2005, pp. 160, € 13,50.
di Eleonora Conti
«Trasformare il proprio luogo e il proprio tempo in una questione di stile» si legge a pagina 7 della Prefazione all'antologia di autori italiani intitolata La qualità dell'aria; e ancora, poco dopo, «ogni ombelico di scrittore era stato dimenticato per lasciare la luce dell'occhio di bue». Questo fondamentalmente l'intento dei due curatori dell'antologia: dimostrare che i narratori italiani di oggi sono in grado, tramite la narrazione breve, di cogliere «il nostro tempo sulla nostra pelle» (p. 8).
Intento encomiabile, dopo le polemiche di una parte della critica italiana sul fatto che la narrativa contemporanea sia autoreferenziale e poco adatta a ritrarre e interpretare la realtà. Sfogliando i giornali e navigando nei blog letterari, ultimamente si assiste a una continua altalena: i critici accusano la narrativa italiana di essere a un punto morto (tra i saggi che hanno attirato gli strali di molti scrittori che scrivono-recensiscono-commentano assiduamente anche in rete, I cannibali non mordono più, con cui Gianni Turchetta apre Tirature 2005), i blogger ne rivendicano la vitalità con toni, a nostro avviso, talora più preoccupanti del De profundis cantato dai critici: a fronte di quel lugubre lamento, infatti, gli strilli a corde vocali sforzate con cui dalla rete si grida al capolavoro per l'uscita di ogni nuovo romanzo o raccolta di racconti di determinati autori, indicandolo come il testo o colui/colei che segna la «rinascita» della narrativa contemporanea sembra implicare/presupporre implicitamente e necessariamente che questa, prima dell'«evento», fosse veramente morta...
Senza farsi prendere la mano e senza oscillare tra questi due toni estremi, forse è possibile cercare di cogliere i segnali di vitalità della recente produzione (senza pretese di esaustività). Il recente moltiplicarsi delle antologie di narrativa (dopo le storiche Under 25 e Papergang curate da Tondelli negli anni Ottanta, Gioventù cannibale curata da Brolli nel 1996, Coda di Mozzi-Ballestra del 1997, solo negli ultimi due anni si segnalano almeno, oltre alle tre che qui si recensiscono, Italiane 2004 a cura di Laura Lepetit e Matteo B. Bianchi per La Tartaruga e Viva l'Italia a cura di Oscar Iarussi, per Fandango Libri), i numeri monografici di «Nuovi Argomenti» dedicati agli autori emergenti (fra gli altri Italville. Nuovi narratori italiani sul paese che cambia, n. 25, gennaio-marzo 2004), la collana «Nichel» di minimum fax a cui appartengono La qualità dell'aria e le opere prime di alcuni degli autori antologizzati, la collana Indicativo presente di Sironi editore, i testi di giovani autori pubblicati da Péquod, Fernandèl e Meridiano zero, ed ora anche il nuovo numero del «verri» (maggio 2005), intitolato «Il libro a venire», indicano la voglia e la volontà di scovare nuovi talenti, di vedere all'opera gli autori ormai consolidati, di avere conferme da coloro che hanno esordito con opere prime interessanti, di leggere testi di qualità, di saggiare la produzione degli autori che dovrebbero rappresentare il futuro (oltre che il presente) della narrativa nostrana.
Le ambizioni delle antologie in questione sono quelle di essere rappresentative di qualche tendenza o fermento di rinnovamento, e tutte promettono di rappresentare la realtà o di mutare nel lettore la percezione di essa. La più segnalata negli inserti culturali dei giornali e in rete è forse La qualità dell'aria, annunciata e commentata per lo più come significativo sintomo di vitalità. Ma al di là delle intenzioni dei curatori e del desiderio diffuso che la narrativa italiana sia viva e di qualità, i testi scelti hanno centrato l'obiettivo? Raccontano veramente «questo tempo», come indica il sottotitolo?
In effetti, la prima parte dell'antologia lascia dubbiosi e apre un interrogativo preliminare su cosa si intenda per «storia» che parli di questo tempo. Se è vero che rispetto al romanzo - spurio e aperto ad ogni contaminazione per intima vocazione - il racconto ha mantenuto una identità più «chiusa» e precisa, è anche vero che da tempo ha acquisito legittimità letteraria la cosiddetta non fiction. Eppure, La qualità dell'aria non sembra aver fatto una scelta precisa e motivata in questo senso; infatti, almeno tre dei testi ospitati, quelli di Stancanelli, Pedullà e Trevi non sono narrativa d'invenzione, bensì reportages giornalistici, cronache d'attualità e d'altri tempi, ma talora con modalità altalenante: l'incipit di Stancanelli sembrerebbe filtrare, attraverso una rievocazione infantile e collettiva, i fatti di Empoli legati a Mario Tuti, ma poi perde nel procedere questo angolo visuale preciso, connotato dalla memoria e già trasformato in leggenda dalla filastrocca infantile che dà il titolo al testo, per trasformarsi in pura e semplice cronaca con fredda scansione temporale, restando in bilico dunque tra fiction e non fiction. Ora, la narrativa di non fiction è un capitolo importante, che merita una riflessione a parte, come ci era già capitato di accennare in occasione dell'uscita del triplo Meridiano curato da Enzo Siciliano sui racconti italiani del Novecento («Bollettino '900», a. VIII, nn. 1-2, 2002: (<http://www.unibo.it/boll900/numeri/2002-ii/>), e che apre tutto un campo d'osservazione sui «generi marginali» su cui si discute da diversi anni ormai1, ma qui il punto è un altro.
Si esce infatti dalla lettura di alcune di queste «storie» e di alcuni racconti con l'impressione che questi autori non abbiano fiducia che la finzione narrativa possa rappresentare e significare la realtà. È come se volessero sottolineare che, per rappresentare la realtà, luoghi e personaggi debbano essere «reali». Ma perché è così importante che i riferimenti siano reali? Un racconto non dovrebbe essere una struttura coerente ed "esemplare" che proprio attraverso il fittizio rende la realtà, rimanda ad essa, dice qualcosa di significativo sugli uomini, sui loro sentimenti, sulla loro essenza e umanità o disumanità? In tal senso, sembra più «fiduciosa» nella letteratura la nota «Riferimenti a fatti realmente accaduti sono puramente casuali» apposta da Vanessa Ambrosecchio in fondo al suo Dagguanno (in Italville), che invece ha tutta l'aria di uscire da una drammatica e concreta esperienza di insegnamento nelle scuole più socialmente a rischio di Palermo.
L'impressione generale è invece che gli autori de La Qualità dell'aria non credano di poter rappresentare la realtà per mezzo della narrazione. Il loro provenire da altri mondi (cinema, giornalismo, fumetti, critica) anziché rappresentare un arricchimento dell'esperienza letteraria, sembra quasi imporre una diversa modalità espressiva, come se si vedessero «costretti» a ricorrere a strumenti diversi rispetto alla parola narrata. Eppure Raymond Carver aveva espresso un chiaro monito in proposito quando scriveva: «La forma più comune di cattiva scrittura è quella in cui l'autore usa male la lingua, non presta sufficiente attenzione a quanto sta cercando di dire e a come sta cercando di dirlo, oppure usa la lingua solo per esprimere una sorta di informazione veloce che sarebbe meglio lasciare ai quotidiani e ai mezzibusti dei telegiornali serali» (Niente trucchi da quattro soldi, minimum fax, 2002). L'efficacia narrativa non va persa di vista, come avviene per esempio nel racconto di Pascale, benché la realtà vi entri in modo drammatico. Pascale è un autore che appassionatamente denuncia la realtà sociale e politica della sua Napoli, eppure, anche nella sua raccolta del 2002, La manutenzione degli affetti - titolo azzeccato e affascinante -, risulta diseguale nei risultati: i suoi racconti possono raggiungere la vetta de La controra, racconto esemplare in cui l'abitudine quotidiana di un bambino a sospendere giochi e attività nelle prime ore del meriggio acquista valore esistenziale, oppure perdersi in una verbosità estenuante come in questo Io sarò Stato?
Di diversa natura sembra invece Il Budda delle amfetamine di Tommaso Pincio. Proprio la prima nota apposta in coda ad esso, «Questa non è una storia inventata», innesta un complesso gioco di relazioni fra realtà e finzione. Il racconto si snoda intorno all'incontro con un singolare personaggio femminile che, pur vivendo in Thailandia, ha tutta l'aria di aver assimilato la percezione della realtà tipica dell'Occidente. Mentre la ragazza, imbottita di amfetamine, vaneggia su strani fenomeni in un inglese dal perfetto accento britannico (segno tangibile della sua occidentalizzazione), il narratore, che sente di galleggiare in un mondo alla Matrix (in cui la formula «Welcome to the real world» assume una sfumatura inquietante) ed è perseguitato dalla polizia del karma dell'omonima canzone dei Radiohead, riflette sulla sua tendenza a vagare in giro per il mondo «osservando storie vere per poi scriverne di finte». La conclusione è che questa sua volontà e condizione di vagabondo è il suo modo per ribellarsi a una realtà che non gli piace, per sfuggire alla persecuzione di chi lo vorrebbe «con la testa vuota e senza opporre resistenza», di chi vorrebbe dissuaderlo dall'elaborare teorie che cerchino di spiegare fino a che punto la realtà è alterata e inaccettabile. Qui sono proprio i mezzi narrativi, il registro dell'ironia e un intreccio di suggestioni provenienti da letteratura, musica, cinema e scienza a condurre la riflessione sulla complessa e problematica natura della realtà e del presente per un uomo «civilizzato» occidentale, sulla sua difficoltà di accettarli, sulla sua continua tendenza a sfuggirvi.
Nella seconda parte dell'antologia compaiono alcuni altri testi significativi: Covacich, Piva, Pugno riescono a creare universi paralleli e autosufficienti, dimostrando una fisionomia indipendente dagli scopi dell'antologia: la città onirica di Covacich; la tragedia delle torri gemelle vissuta e moltiplicata attraverso i video TV di un supermercato che è un mondo intero, in Piva; gli scenari visionari e i personaggi in bilico tra mondo interiore, insight telepatici e universi da videogame resi con una scrittura precisa e millimetrica in Laura Pugno, inaugurati nella raccolta d'esordio Sleepwalking e presenti anche nell'opera «a venire» Syberia (su «il verri» di maggio 2005). D'altro canto, Valeria Parrella in Verissimo, così come Paolo Cognetti nel racconto che apre l'antologia, creano un ambiente, un contesto sociale, paesaggi e personaggi credibili e i testi sembrano il prodotto di un lavoro di scrittura e osservazione del reale più lungo e duraturo rispetto al progetto antologico in cui appaiono: Manuale per ragazze di successo di Cognetti è anche il titolo di una raccolta di racconti usciti successivamente all'antologia e Verissimo della Parrella contiene una componente di freschezza e aderenza al reale che caratterizza tutta la raccolta d'esordio Mosca più balena così come i quattro testi di Per grazia ricevuta. Questi racconti dimostrano proprio che la «qualità dell'aria» può emergere solo da un convinto lavoro sulla necessità di rappresentarla, da parte dei narratori in questione: non ci si improvvisa scrittori di realtà e la realtà non entra in un racconto a comando.
A questo proposito, i racconti dei due curatori lasciano dubbiosi: se Raimo, nel suo Magari no, sembra «esibire» le credenziali culturali dei suoi personaggi sia quando il protagonista si lancia in partite immaginarie di Trivial Pursuit con i personaggi famosi sia, soprattutto, quando entra in scena l'autostoppista saputello (mentre la ricostruzione del rapporto fra i due fidanzati che viaggiano alla volta della Francia rende bene l'atmosfera di non detto, di nodo presente e sospeso, che aleggia sull'intero viaggio); il tentativo di Lagioia di far respirare la «Storia» nel suo racconto risulta un po' meccanico: l'atmosfera, il contesto storico non emergono dalla situazione creata, ma sono evocati con sforzo scoperto. Probabilmente proprio questo lasciar intravedere lo sforzo fatto perché la realtà, la Storia e la contemporaneità entrino nei racconti è il difetto principale dell'antologia. Il meccanismo narrativo esce allo scoperto, restano sul tavolo di lavoro gli strumenti del mestiere, resta l'impressione di un lavoro non finito, che necessita di un ulteriore bisogno di limatura e rielaborazione. Forse solo quando la realtà e la Storia emergono per intima necessità dal racconto, questo paradossalmente esce dal suo tempo e parla ai lettori di ogni tempo.
Passando alla seconda antologia, Gli intemperanti, qui l'età degli autori si abbassa alla fascia venti-trent'anni e la curatrice del progetto (che non si limita alla presente antologia ma prevede un piano di talent-scouting continuato nel tempo con edizione di successive antologie) propone una nuova «etichetta» d'avanguardia, dopo gli «indifferenti» e i «cannibali»: l'intento è quello di lasciare un segno in chi legge, di farlo uscire mutato per spostamento di punto di vista sul reale, per sperimentazione stilistica, tematica o d'ambientazione. I racconti sono tendenzialmente brevi e pieni di passione e gli autori sembrano promettenti: partono col piede giusto e hanno ancora molta strada da fare e sperimentare, prima di affermare una identità che sia solo loro. Però osano. Anch'essi, come gli autori de La qualità dell'aria, vengono da mondi paralleli e intrecciati con la letteratura - il cinema, il teatro, la TV, il giornalismo -, o sono ancora studenti, ma conservano una certa fiducia nella parola narrata: fatto consolante. La realtà e la Storia entrano più naturalmente nella narrazione, a volte come trauma infantile, e comunque attraverso la memoria d'infanzia e la ricostruzione biografica: un esempio per tutti l'efficace Sbologna di Cinzia Bomoll, dove la realtà ha il volto di una bambina che può filtrare solo dal suo punto di vista parziale e inesplicabilmente deviato dagli adulti (forse a scopo protettivo?) l'impatto che una tragedia collettiva può aver avuto sulla sua identità, sui suoi comportamenti, sul suo privato. I personaggi sono talvolta ragazzi e ragazze che stanno entrando nell'età adulta, che sono stati bambini fino a poco prima - come i loro autori, del resto - e conservano una certa freschezza di osservazione del mondo (Palla di lardo, tra gli altri). Sono racconti che a volte commuovono (per pienezza di sentire e narrare, come Jam session, che ha il ritmo del groove di cui parla e contiene un finale a sorpresa, legato all'identità del protagonista) e questa commozione certo ha a che fare con la giovane età degli autori nel senso migliore: «una giovane età che nega l'indifferenza e si oppone alla noia», recita la quarta di copertina.
Lo stile a volte è sperimentale e va ancora sondato per capire quanto può reggere e fin dove può arrivare: Alessandro Gelso, in Nella casa di Jamie, adotta una narrazione fondata su uno stile descrittivo e come immobile, quasi a focalizzazione esterna, che ricorda Robbe-Grillet, ed è costretto probabilmente da questa soluzione stilistica a una narrazione estremamente breve; mentre Marco Peano in Se non mangio animali la colpa è delle stelle maledette ricorda gli esordi di Rossana Campo con uno stile adolescenziale affabulatorio e sintatticamente sgangherato, vivace e funzionale, che tiene incollati alla pagina, ma che ha già dato vita a romanzi di successo come In principio erano le mutande o Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Anche la visione di un'adolescenza ancora incerta fra purezza e perversione, come quella di Giochi della gioventù, forse ha debiti con i nuovi maestri (come la Simona Vinci di Dei bambini non si sa niente). Sono giovani autori che probabilmente si sono scelti i loro modelli di riferimento, i loro maestri, e cercano la loro strada, dimostrando in alcuni casi di avere una certa padronanza e fiducia nei loro mezzi espressivi.
L'ultimo numero de «il verri» è anch'esso un'antologia: senza attenersi a criteri anagrafici (gli under 40 de La qualità dell'aria, gli under 30 de Gli intemperanti) e mescolando provenienze geografiche e culturali, la redazione rinnovata della storica rivista decide di offrire al lettore di questo numero addirittura assaggi di testi narrativi, opere non finite, work in progress: «il libro a venire», secondo la felice immagine di Maurice Blanchot. Gli autori propongono ciascuno un brano da un testo narrativo in lavorazione e spiegano a che contesto esso appartiene o apparterrà e a cosa tende. Qui dialogano, fianco a fianco, poeti maturi al proprio esordio narrativo, come Elio Pagliarani; autori ormai affermati, come Ermanno Cavazzoni, Walter Siti, Beppe Sebaste; i «giovani» che costituiscono il nuovo orizzonte della narrativa contemporanea e compaiono sulle riviste o nelle antologie di cui si parlava, come Laura Pugno, Leonardo Pica Ciamarra, Giordano Meacci, e altri. La premessa dell'operazione editoriale è chiara: questi testi non sono necessariamente racconti, alcuni si avviano a diventare romanzi, altri vivono della loro provvisorietà e forse resteranno tali, senza per questo cessare di conservare statuto letterario e dignità narrativa. L'incompiuto e il frammento, del resto, hanno caratterizzato fin dalle origini del Novecento l'essenza della modernità (da Musil a Gadda a Kafka) e probabilmente le ragioni del divenire e del non finito, del cercare che non necessariamente approderà ad una risposta chiusa e definitiva, nutrono anche il millennio appena inaugurato.

Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2005
<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2005-i/Conti1.html>
Giugno-dicembre 2005, n. 1-2
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