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 sistema del diavolo 
e va bene. cominciamo dal villo intestinale più sottile e poi mangiamoci
attorno.  ognuno così affamato e disgustato dalla propria fame che faticherà  
inghiottire il primo boccone. 
cominciamo dal villo intestinale più sottile e buttiamo l'accappatoio sul 
temporale, 
gli zoccoli antiscivolo sulla scia del funerale, le tracolle di vario 
materiale, gli ornamenti, le spille, 
le ville prenotate, i cartoni bagnati, i pettini di cedro che accomodano 
sulla testa la vecchiaia, 
i dizionari dei falsari, le stanghette dei funzionari, la riunione al 
vertice, la cervice delusa cervice e gli 
uteri retroversi, la verità sui gregari e i pastori, gli apparati 
respiratori, le lotterie benefiche, lotta continua, 
la bigiotteria comunale, il coito interrotto, De Sade e Justine, 
l'eiaculazione precoce, il tempo reale, 
gli affari personali, i numeri ordinali, la colf interinale, i galbanini 
alla griglia, i savoiardi in quadriglia, 
gli orecchini tra i cuscini, la frittata rognosa, gli sposi inevasi, le 
colazioni escluse, gli scontrini alla rinfusa, 
le nostre torri di Holderlin. 
buttiamo gli assi, i tris di sonno, le Irma, le Alice lise come risvolti di 
cotone su catrame,  
l'oratorio sacro cuore, i galli combattenti, i galup replicanti, le 
mantovane abbassate sui nostri culi, 
la pietà rinforzata, la vita scalognata tirata come muli, il vasigil a 
mezzogiorno, il bonsai, l'hantai, 
la liquirizia haribò. 
buttiamo la convalescenza sul come quando fuori piove e piove sulla pasta di 
cui siamo fatti. 
buttiamo i cascami di cioccolata, le cover su annabella, le cervella, i 
matrimoni, la sacra rota, le riflessioni, 
le ragioni... crac crac... crolla il tetto e il reggipetto, mangiati da 
piccoli piccoli ratti intatti riprodotti 
perché sanno nuotare - 
siamo patatai, giostrai, ahinoi, ahimai. che fine infelice da remigino senza 
patentino. 
buttiamo l'artrite e le radiografie, i turpi bramosi d'oro e di odori, il 
vento sulle eliche di insetti monatti; 
buttiamo l'etica sbarbata, la mimica ingrippata, l'intonazione, la funzione, 
la finzione, il cardias, il vino veritas. 
buttiamo l'africa, la metrica, la sciatica, il companatico, i campanelli, il 
cordoglio dei desideri, il freno inibitore, 
le mulattiere del nostro paese, i cognomi. 
buttiamo le viti gelate, il dna più propizio, i disturbi della psiche, le 
amiche, i blues jeans che fino a ieri sapevo suonare così bene... 
aspro aspro, piove e io recito pioggia, sono calendario binario e scacco 
d'inutile diario: mi butto anch'io per la gola di dio, 
imbarazzata per non averti baciato piede e mano quando pregavi. 
cominciamo dal villo intestinale più sottile: buttiamo i giudizi sulle madri 
in odore d'eresia, begli occhi fantocci, sbarcate con tutta l'acqua. 
qui a piovarolo si cena alle nove, ossa e sargassi, anarcopoli di 
mediocritel pastello sotto caduta massi. 
si cena forse anche con cose buone: sottofondo alla rino gaetano, passi di 
crema alla mano, polvere e montagne forzate in uno sguardo nano 
e il gattopardo sfoggiato in macule verde prato. 
fammi finire sorellina. 
buttiamo le reni dell'isola dei formosi dove mamma piove su cipolle ardenti, 
mia medium sfrigolapillole del diavolo 
che dimentico d'avervi mangiato e non ho questa paura di
 
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 buona azione 
t'insegnerò a spruzzare il muro con materna 
apprensione, bambina, se sei già nuda. 
togliti anche le belle calze che l'estate fila 
gettandotele dal suo atrio affollato... 
 
come mangiatrice di foglie secche valgo cento. 
imprecandomi via il cuore, torna l'antica nausea 
per le carezze tra i capelli. 
- l'ultima buona azione sara bruciare la mia stola 
di sarcomi e i tuoi bei colletti -. 
comprami sei bicchieri senza filo dorato, se esci: 
da oggi non ho più pretese. 
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 delirando nel disordine 
tagliarsi le unghie. 
grattarsi i calli. 
così ti viene da pensare 
che la morte è l'oggetto. 
 
la cena cinese alle nove 
il glutammato cinese: 
peggio che svenarsi nella vasca. 
 
mi cade sale 
 
la morte è l'oggetto. 
la puttana si fa pagare venti volte 
su venti 
la peonia. la peonia disidratata 
in eterno. 
mio padre sperimentò nuovi sonniferi. 
la radio non funziona. 
la morte è l'oggetto. 
il telefono suona alle cinque di mattina. 
i merletti hanno sempre aloni gialli e 
odore di lavanda (?) 
mio padre si sfila la cinghia, 
ma forse era metafora 
la morte è l'oggetto 
e le superstizioni, civette che 
fanno il nido nelle scarpe. 
fumo dall'età di vent'anni 
ho una gemella condottiera 
di creditori in mezzo ai lupi. 
sono di sinistra e tormento 
i nani con la gobba. 
ho i denti bianchi e una certa età. 
sono ambidestra, ma più mancina. 
la morte è nell'unto 
di un alto colletto alla moda 
 
la morte è l'oggetto 
 
cercando la mia culla 
succhio tuorli 
dalle ovaie di mia madre 
il porco si rivela ai tuberi 
ho scommesso su chi non sa 
da dove viene. 
ho stupore di come la mia età 
può essere ancora quella 
della tenerezza. 
la morte è l'oggetto anche 
per gli amici artisti: farabutti, 
i vedovi, troie di scena. 
non condividono le ossa, 
hanno sacrari nominali. 
porto sempre viole 
sulla spalla del cuore 
ed entro in teatro, 
io e la mia sciagura. 
la morte è l'oggetto. 
una cosa. 
una cosa rivoluzionaria. 
un pendente penduto . 
un sandalo che chiude 
la tua bocca finalmente. 
 
la morte è l'oggetto 
dei santi cani e dei marrani. 
il talismano degli incoscienti 
il muscolo degli scribi 
lo zoccolo dei sapienti 
 
la morte è l'oggetto come la tiara 
e la toga 
 
e il fumo uccide, ma non sempre. 
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 fin 
ci siamo perduti, respinti 
ai bordi di un beckgammon strausato, 
in qualche lettera, 
in calligrafie inclinate e gonne troppo corte. 
ci siamo perduti nei dintorni delle ginocchia, 
scarabocchiando infermi cerchi  nel caffè, 
prostituiti alla tolleranza e senza finire il liceo. 
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mi hai chiusa dentro, stupido, a bere vino muschiato 
e restaurare anatomie che nessuno ha voglia di locare, 
a cucinare belle ribollite di reati e patatine, 
a pomiciare coi portabottiglie tanto per spaesare il tempo. 
mi hai chiusa dentro finché hai appeso tu le chiavi 
e intanto che ti passava l'estate tra i coglioni, 
sentivo il clin clan dei ferri che trasportavi, 
attraversando, come solvente la ferita, il mio onomastico. 
vedrai come sono chiusa dentro, pena nata, pena morta 
e come riuscirò a farti fesso, mantecando vino muschiato 
al trito polvere-allergie per fare il sugo quando vengo su. 
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Omne male percusiccio omne malestravalcaticcio 
omne male fantasmaticcio d'eco el toglia 
et la terra l'arecoglia et non noccia ad cristiano. 
 
ecco una delle formule magiche per sanare i mali, 
imparando straniera in terra tonda, 
immigrata nella mania di mostrare il culo e l'anima, 
di dire sempre che senza zucchero, inzaccherato zucchero 
mancina, offesa nella forgia spenta della tua tristezza. 
una cosa necessaria, una pentola acqua e bicarbonato 
per alleviare le tinte dal tuo letto a mezzadria incolta, 
senza pretese nemmeno di disfarsi. 
una formula magica trasforma in papera l'imparagonabile 
che sta nella cronologia di crudele a sfondo nero. 
omne male girati al sale, appendi le spalle e fatti cadere: 
sei morta? scanna calami aromatici nel porcile rumoroso 
di tutte le ore che passate: io sono cosa(?), non c'è paragone 
con la linea retta ma non posso ancora aspirarmi i noduli beffardi 
che corrugano le tue nevrosi metriche. 
 
et la terra l'arecoglia (omè) et non noccia ad cristiano fino 
a dopo le ore canoniche, cristiano fachiro ungulato, di sbieco, 
in un affacciarsi lontano dai luoghi comuni, comune. 
voglio un'urna che resti tra le fauci del tuo duello sorridere, 
voglio restare una mano magra fotografata sulla tua guancia, 
voglio un porco che mi indichi i tartufi da mandarti e voglio 
un'impalatore che sappia attraversare i muri. 
voglio te mi espianti l'eco dalla trachea e che nel tuo pitale 
rimangano i miei denti, l'orecchino e qualche soffio 
e che al pene tu racconti tra un giorno, quanti ferri siano arruginiti 
negli incontri opposti 
et la terra e il fumo mi attraverseranno come frange e le tue braccia 
solenni 
fino ai miei piedi strapperanno le caviglie che cucirai ai polsini di 
camicie 
 
da battesimo... 
 
e pura devastata, piegato il bavaglio sul omero del sentiero, 
et la terra l'arecoglia queste alabarde rosa e questo buco ombrofobo 
teneramente millenario che canta picche sul campo dell'obbedienza. 
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 la partenza 
qualora aprissi il ventre integralmente 
potrebbe darsi che ognissanti verrebbero in fila 
a gettarmi una moneta: ispido e invertebrato 
l'orizzonte a cuspide intriga qualche ramo 
di ginepro. 
io lascerò i figli a marcire tra le upupe rosse 
e i granchi giapponesi a bollire sui rostri: 
la mia vita è un salario abbondante per chi 
la ricetta dopo di me. 
e poi ci sarebbe altro ancora da dire, stanotte. 
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 900 
sono nata nel novecento,  
fresca di parole angolo-spigolo, 
straccia d'immagini confuse,  
incognite XX femmina,  
con grandi assenze sul guestbook  
della mia casa cattoprivata,  
leggermente spinta in vetta,  
poi miope, poi senza più quaderni.  
una gulliver di pianti in riserva  
contro muri intonati ai muri di prima,  
guerre a malincorpo nel cortile  
e remissione elevata per le cose.  
le dico pure le cose, così come stanno,  
narcotiche in vena: né dio può fare altro  
schierato morticino dentro.  
sono nata anch'io nel novecento  
incestando mancanza nella notte,  
almeno per te, senza cedere  
ai poli l'illusione tempo-spazio. 
 
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 polpa 
dalla prostituta raffiora ai capelli una mannaia 
sul ghiotto invaso e spira, invisibile al gancio 
inchiodato tra le mie mani: riparati le ciglia 
e tra pochi sorrisi si fermerà l'aria sul meccano 
delle ossa e guarda che bel film mia cannibale! 
i tuoi seni infagottati da toglierne il latte, 
 tu la mia giocattola trainata a forca cui bevo 
da costole e polmoni. 
 
muori all'interno bianco soia dei miei filamenti 
tratti in-vano vani istrici, molli ad attaccarsi in strada, 
tua madre anche  - che anche dolci!- figlia di  
e io invaghisco per le donne aperte, sfatte illividite, 
dai piedi enormi, dalle caviglie venose e rigide. 
solo ai tuoi seni rimpiango l'aura del medesimo amore 
perché non di rado sono stato padre e sono scappato. 
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 in sartoria 
la sarta cannibale sfiora  
i denti alla cerniera lampo 
della sera. 
ha fuselli e gessetti, 
calchi di tiepide stagioni 
in ricamo. 
io le somiglio tra poco, 
appena l'ansia di disfare 
sarà acuta 
e stupefacenti inutili 
insetti mi avranno ricoperta. 
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 un quid 
potessi sciogliere la ringhiera del balcone 
e fonderla in strada ferrata, dove passino 
treni adesso così lontani per i tuoi stanchi attriti, 
staresti più buona e le tasche non rivelerebbero 
affilature pericolose: ucciderai qualcuno per sfogarti, 
tuo figlio o forse il tuo compagno, ma diranno 
che non eri in cura, 
che compravi l'insalata riccia col sorriso, che eri modello 
di madre per le amiche, che curavi le roselline con amore. 
 
sarà un raptus di follia, un'assatanata nocciolina americana 
caduta nel giardino sbagliato. (superpippo, insegnami i pericoli 
dall'iperspazio!) 
 
ma che ne sa il medico di famiglia chi vorresti essere, che vorresti 
fare? 
una dimostratrice di collant che aspetta l'esequie dei suoi sogni? 
o vorresti setacciare quell'odore d'anice dopo la doccia, 
per non dimenticare che quando fumerai tavor, s'addormenterà 
l'ingombro della gelosia? 
non sa che potresti, come l'intrepido Norton, trascinare sull'everest 
una spedizione di sospetti e poi uscire a cena stasera e ordinare insalata 
per il tavolo di fronte, dove lui si consegna s.p.m. a un'altra sottoveste 
 
ma tutto funzionerà solo se resti tra la forbice dei sondaggi 
senza fare icone biologiche del personale, sellando la mula nelle piazze, 
costruendo con i fiammiferi il grande duomo, rimanendo l'allieva 
prediletta della barbie, spogliando un ken dalle erezioni assenti 
 
 
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ore 20.00 
appeso alla griglia del termosifone il triplo della tua età si scalda 
gli ossi. 
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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2003-2004 
Dicembre 2003, n. 2 
 
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