Simona De Pascalis
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«Si può accettare che una forza ti rapisca e tu diventi desiderio, desiderio tremante che si dibatte intorno a un corpo, di compagno o compagna, come la schiuma tra gli scogli? E questo corpo ti respinge e t'infrange, e tu ricadi, e vorresti abbracciare lo scoglio, accettarlo. Altre volte sei scoglio tu stessa, e la schiuma - il tumulto - si dibatte ai tuoi piedi. Nessuno ha mai pace. Si può accettare tutto questo?».1 |
Pur non entrando nel merito dei rapporti esistenti tra cinema e narrativa, nella direzione di un'analisi narratologica applicabile alle diverse espressioni dei due linguaggi, intendo qui tracciare l'ipotesi di un percorso critico alternativo. Rispetto al criterio abituale che procede dal romanzo per arrivare al film, dal racconto in lingua al racconto per immagini, vorrei proporre invece un'inversione dei termini, dal film al romanzo, per tentare un'analisi più aperta al confronto delle dinamiche di scambio tra il vedere e lo scrivere, e risalire quindi al "testo che sta sotto" da un punto di vista complementare: l'esperienza di Antonioni, a partire dal suo film più letterario, quale strumento di approccio critico all'opera di Pavese, non nei termini di un confronto ma di un arricchimento prospettico.2
Percorrendo l'intera filmografia del regista, risulta evidente, fin dai primi lungometraggi degli anni Cinquanta, una particolare attenzione dedicata alla figura femminile. Personaggio complesso, spesso non facilmente ricomponibile in una coerenza di significati che emerge con violenza sugli altri quale asse portante del racconto filmico, ma soprattutto quale testimone più autentico dell'impossibilità del racconto stesso, non solo cinematografico.
Quarto lungometraggio realizzato nel '55, liberamente ispirato dal romanzo di Pavese Tra donne sole (pubblicato nel '49), nelle Amiche,3 come nei film precedenti, la struttura romanzesca è ancora solida, costruita sul rapporto causale del montaggio, i raccordi della narrazione e lo sviluppo dei dialoghi. Tuttavia all'interno dello schema tradizionale, si insinuano anche dei momenti che potremmo definire centrifughi, di spinta verso l'esterno, che deragliano dalla rigidità della sceneggiatura e si dilatano nella direzione di qualcosa di indefinito, ancora vagamente accennato, ma già così profondamente significante; ed è proprio allora, negli istanti dell'«attenuazione narrativa» (Chatman)4 in cui emerge l'ambiguità della figurazione, che si rivela più nitidamente la presenza del femminile e più direttamente subentrano quelle implicazioni esistenziali di cui il femminile stesso, per Antonioni, è un interprete privilegiato.
Uno di questi momenti si sviluppa nella sequenza più bella e più riuscita: la lunga scena della gita al mare, cronotopo fondamentale del narrazione filmica, punto di confluenza di tutti i personaggi e della loro integrazione simbolica con l'ambiente. Il mare, e più specificamente l'acqua, metafora del liquido amniotico, è uno dei motivi ricorrenti dei film di Antonioni - un motivo pavesiano, anche -, inteso a rappresentare l'epifania di una dimensione psicologica problematica; è qui, in un mare in tempesta, che vediamo la giovane Rosetta, personaggio-chiave del romanzo, estraniarsi dal resto della compagnia, avvicinarsi alla riva con lo sguardo abbassato verso l'orizzonte, e rivelare così, in questo suo definirsi insieme allo sfondo plumbeo, la presenza di un disagio, di un'angoscia sotterranea che le deriva dalla sua incapacità di vivere, dall'impossibilità di una reale integrazione col mondo, di cui è vittima inconsapevole. La sua figura è elemento unificatore dei diversi nodi narrativi del film, fino al loro scioglimento finale che segue al gesto ultimo del suicidio, intorno al quale si sviluppano anche gli altri personaggi femminili; Clelia, voce narrante e protagonista del romanzo, qui immagine (piuttosto debole e notevolmente ridimensionata rispetto al testo pavesiano) di donna emancipata che sembra aver trovato nel lavoro il senso dell'esistenza e la risposta ai propri dubbi - laddove tuttavia la fine un po' amara della sua relazione con Carlo appare piuttosto la riprova di un fallimento e di una giustificazione, più che di una rivincita su se stessa - ; Momina, mantenuta dal marito, disillusa e un po' annoiata; Mariella, prototipo di donna sensuale ma irrimediabilmente stupida; e infine Nené, personaggio molto più approfondito rispetto al romanzo, che ha già in nuce le caratteristiche tipiche di una certa immagine del femminile che andrà sviluppandosi nell'Antonioni della tetralogia: la donna come "filtro della crisi", che recepisce segretamente l'instabilità e si rivela più forte e capace, rispetto all'uomo, di farsi carico della consapevolezza della solitudine e dell'incomunicabilità nei rapporti umani. Questa Nené inquieta, che lavora, sensibile alla sofferta aggressività del marito - il tipico "uomo senza qualità" antonioniano che avverte la lacerazione ma non sa o non vuole interrogarsi sulle ragioni -, diventerà poi, nei film della maturità, la Claudia dell' Avventura, Lidia della Notte, Vittoria dell' Eclisse, Giuliana di Deserto rosso, tutte donne portatrici dei valori di quella mancanza che si delinea drammaticamente nei termini di uno sfasamento, di una malattia che non è più solo dei sentimenti, ma del senso generale di disadattamento rispetto alla vita e alla propria incapacità di dominarla.5
Questa crisi non può che manifestarsi, d'altra parte, anche all'interno del testo stesso e del suo sistema rappresentativo: il cinema di Antonioni è infatti un cinema del silenzio, dei tempi morti, dell'ellisse narrativa tesa alla de-costruzione di un racconto che non è più raccontabile, se non nel senso di una perdita definitiva e di un'impossibilità di recupero.6
Così l'estremo punto di arrivo della ricerca cinematografica si pone ancora una volta come l'ulteriore testimonianza del racconto moderno, o l'anti-racconto, della tradizione narrativa del Novecento, a cui fa riferimento lo stesso Pavese.
Ed è in questa direzione che anche il racconto di Tra donne sole7 si delinea come il risultato di una ricerca profondamente moderna, intenta a definire un senso senza però riuscire ad afferrarlo, in cui la parola si consuma e si sfibra in un dialogo fittissimo che torna costantemente su se stesso a ribadire la propria inautenticità.
Clelia è la voce femminile del romanzo attraverso la quale seguiamo l'incedere lento della narrazione, il definirsi dei personaggi e dei loro rapporti, il succedersi ossessivo delle loro gite in macchina, dei veglioni e delle cene, il continuo oscillare «tra tensione lirica e oggettività strutturale» (Calvino).8
In una lettera a Pavese, Calvino scrive provocatorio: «Tra donne sole è un viaggio di Gulliver, un viaggio tra le donne… un modo nuovo di vedere le donne, e di trarne vendetta allegra o triste».9 Di questa figura di donna libera ed emancipata, emerge soprattutto, per Calvino, l'importanza data al valore del lavoro, da un lato quale personale risposta alla solitudine, dall'altro quale elemento fortemente autobiografico, in rapporto al Pavese dell'«essere e fare», della sua attività di giornalista e di scrittore partecipe al clima engagé del secondo dopoguerra, e tutto teso a «trasformare il fuoco d'una tensione esistenziale in un operare storico, fare della sofferenza o della felicità privata, queste immagini della nostra morte, degli elementi di comunicazione e di metamorfosi, cioè delle forze di vita».10
Ma Pavese rappresenta anche uno degli intellettuali meno facilmente classificabili all'interno della cultura italiana di quegli anni, e la protagonista del romanzo peraltro esprime in toto questa complessità di piani e punti di vista, che sono pure quelli di Pavese uomo, prima ancora che scrittore: Clelia è infatti l'unica, insieme a Rosetta, che registra la drammatica messa in scena delle situazioni e delle relazioni in cui si trova coinvolta e che ha la forza di seguire fino in fondo quell'itinerario conoscitivo che la porterà ad acquisire l'amara consapevolezza della solitudine più profonda. Che è poi il senso vero del gesto finale con cui Rosetta decide di firmare la propria rinuncia alla vita. «Il gesto - non dev'essere una vendetta. Dev'essere una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. L'ultima battuta»: così leggiamo nel Mestiere di vivere11 a poco più di un mese da quanto si realizzerà nella realtà. Un gesto, quello di Pavese, di cui si è cercata la risposta, un po' riduttiva e accomodante, nell'ennesima delusione d'amore. Motivazione che si potrebbe accettare nel senso molto più profondo del significato ultimo che comunica.
La scelta di parlare attraverso un personaggio femminile - in questo romanzo così profondamente autobiografico nell'immagine del ritorno ad una Torino-madre che è pure quella vissuta dallo scrittore - serve qui a marcare, in modo più radicale rispetto agli altri romanzi, il motivo della perdita definitiva del passato e il punto di arrivo ultimo di una conoscenza del presente che è possibile solo nella direzione della morte, una morte che ha, straordinariamente, degli occhi di donna. Ed è proprio in questo processo paradossale di somatizzazione del dolore, del suo farsi donna - e donna in quanto parte di quell'esperienza fondamentale, l'amore quale ulteriore testimonianza della solitudine -, che riconosciamo il senso più autentico del gesto di Pavese.
Ma il senso, come sempre, è molteplice, e assume sfumature diverse a seconda della prospettiva da cui si decide di interrogarlo: una di queste, quella più legata alle condizioni storico-sociologiche che spesso si tende a sottovalutare, ci è data di nuovo dall'intervento di Calvino,12 proprio in rapporto alla scelta di Pavese di esprimersi, in questo romanzo, attraverso un narratore femminile, «un personaggio autobiografico così compiuto (Clelia c'est moi!) così positivo e così pavesiano» che non casualmente si realizza in una figura di donna. Calvino infatti, nel suo indagare sempre le ragioni del fare artistico con un taglio preminentemente sociologico, ricorda pure le condizioni particolari (la crisi della sinistra nel '47, il riconoscimento dei limiti del neorealismo) di quel momento difficile di cambiamento che viveva allora l'intera cultura italiana; così Calvino individua nella scrittura "al femminile" di Pavese, come in quella di altri scrittori italiani del tempo, l'ulteriore riprova della crisi della figura tradizionale dell'intellettuale, alla ricerca di un'identità nuova che sappia ridefinire il suo ruolo, a metà tra distacco straniante e partecipazione consapevole al processo storico e alla vita civile.
La figura di Clelia è infatti la più completa di tutta una serie di personaggi femminili disseminati nell'opera di Pavese, a partire dai racconti, nella voce narrante di giovani adolescenti che vivono contemporaneamente il momento della separazione dal mondo della campagna e quello, definitivo, dal mondo dell'infanzia: Lidia delle Tre ragazze,13 Amalia del Campo di grano,14 Sandra dell'Avventura,15 sono "le ragazze", ancora un po' ingenue, non ancora donne, che portano già con sé i caratteri tipici di quell'inquietudine congenita che andrà poi delineandosi con più matura consapevolezza nel personaggio di un altro romanzo sul mondo della città, La bella estate.16 La conclusione di questa «storia di una verginità che si difende» (Pavese) infatti, è nel segno dell'ormai avvenuta presa di coscienza da parte di Ginia, la protagonista, dell'impossibilità di recuperare la pienezza del vivere di quell'estate perduta, che è la stagione mitica dell'infanzia e della felicità vera; così anche Ginia, diventata adulta attraverso la sofferta esperienza d'amore, partecipa dello stesso destino di solitudine di Clelia, ancora una volta in un linguaggio scarno ed essenziale, ancora una volta in prima persona (e al femminile), nel definirsi di quel connubio perfetto - e solo apparentemente contraddittorio - che Pavese individua tra «la ricchezza d'espressione del realismo» e «la profondità di sensi del simbolismo».17
Questo impegno costante dello scrittore di allargare il senso della propria ricerca individuale su un piano universale, di attualizzarla, cioè, in quanto mito operante all'interno della storia e del contingente, trova non a caso la sua più straordinaria realizzazione in una delle ultime opere, Dialoghi con Leucò,18 un «libro totale» - come lo definì Calvino - in cui Pavese ritorna sul tema del femminile, e se ne avvale - stavolta più esplicitamente, rispetto per esempio alle poesie giovanili di Lavorare stanca,19 quale mito imprenscindibile del suo stesso fare scrittura - come strumento di cognizione della realtà, del suo destino di incomunicabilità, e dunque di morte: come pure nelle ultime poesie - «…sempre vieni dal mare / e ne hai la voce roca…» (Pavese, Hai viso di pietra scolpita) -,20 questo dolore dell'impossibilità di stabilire un colloquio con la donna, «chiusa» e «inafferrabile» come la natura stessa, si concretizza (in uno dei dialoghi più belli del libro, Schiuma d'onda) nell'immagine dell'acqua, della schiuma marina, metafore del desiderio e dell'inquietudine da cui nacque «quella che non ha nome, l'inquieta angosciosa, che sorride da sola…e tutto quello che si macera e dibatte nel mare, è sua sostanza e suo respiro…», il sorriso mortale di Afrodite, mortale perché sorridere «è morire a una forma e rinascere a un'altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino».21
Ed è così che, paradossalmente («Sei la vita e la morte…»), la scrittura pavesiana si fa di nuovo testimonianza autentica di una ricerca propriamente moderna, perché proprio attraverso questa «trasfigurazione metamorfica in chiave mitico-simbolica»22 della donna, lo scrittore riesce a proporre comunque i termini di quel dialogo, altrimenti interrotto, tra l'Io e l'Altro, il tu della poesia, che «non si dà che in quanto fuga, in quanto inafferrabile»,23 e il senso stesso della propria identità che, attraverso il dolore, si ridefinisce sempre nuova e cangiante.
Il femminile, dunque, ancora una volta, e intorno ad esso, due percezioni, di un regista e di uno scrittore, entrambe protese verso la ricerca di un certo valore dell'esistenza umana, rispetto al quale la sua presenza, violentemente corporea, si delinea da un lato come l'elemento di denuncia (Antonioni), dall'altro come un'inquieta metafora dell'Alterità (Pavese): due punti di vista complementari che decidono di porsi all'interno o all'esterno rispetto a un'identità che costringe pur sempre a una domanda su se stessi e sul significato della propria presenza fra le cose.