Cristina Bragaglia
Scrittori italiani e cinema.
Sommario
I. Confusione tra cinema e vita in un racconto di Ada Negri
Il 27 novembre 1928 - il cinema in Italia era ancora muto - Ada Negri, poetessa non eccelsa ma di grande fama a quell'epoca, pubblica sulle pagine del «Corriere della Sera» un racconto intitolato Cinematografo. Attraverso la storia di Bigia, dattilografa scialba e bruttina che vive una seconda vita attraverso le vicende viste sullo schermo cinematografico, la scrittrice arriva al centro di un fenomeno che stava allora inziando: il nuovo spettacolo esercitava sul pubblico psicologicamente più fragile, un fascino e un'attrazione assai più coinvolgenti di qualunque altra forma artistica. La letteratura del passato ci ha tramandato esempi di insane influenze esercitate dalla lettura: il Don Chisciotte di Cervantes non distingue più tra la realtà e il mondo immaginario dei romanzi cavallereschi; Emma Bovary si lascia sedurre sulla scorta della lettura di romanzi d'amore e d'avventure. Negli anni Venti il cinema diventa l'arte in grado di suscitare nello spettatore un'attrazione tale da non permettergli più di distinguere tra la realtà della sua vita quotidiana e quella che «vive» grazie ai fantasmi che si muovono su uno schermo in una sala buia. Con grande lucidità, Ada Negri riassume in mezza pagina il senso della visione cinematografica e descrive il processo di identificazione della sua misera dattilografa con le eroine della pellicola: «ella trasmigra nella persona della protagonista, entra nel suo mondo: ama, odia, pecca, arrischia, gioisce, patisce, trionfa, immedesimata in lei». Così che la «piccola dattilografa» conosce solo il mare del cinematografo, viaggia su «lussuose automobili», «treni fulminei» e «aerei velivoli», «gioca con la vita e la riprende, scompare e ricompare». Don Chisciotte ed Emma Bovary si trasformano in una piccola dattilografa: è l'effetto di uno spettacolo di massa come il cinema e Ada Negri sa ben cogliere l'incanto dell'immedesimazione che è in grado di esercitare su un pubblico in gran parte privo di cultura. Così come non può impedirsi di mettere in guardia dai pericoli chi questo incanto subisce. Bigia (e il nome non era scelto a caso) non riesce più a distinguere tra le due esistenze parallele che conduce: «da qualche tempo, le parallele deviano, si raggiungono, si intersecano: le anime si cozzano». Suggestionata da un film, la cui protagonista si getta sotto un'auto e viene salvata dal principe azzurro, Bigia crede di rivivere quelle sequenze: ma invece dell'amore l'attende la morte.
Il racconto (quasi un'anticipazione della Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen) appare significativo di come l'ambiente letterario italiano comprendesse la capacità del cinema di raggiungere un numero amplissimo di persone. Al tempo stesso però se ne temeva il potere di fascinazione: Ada Negri nel finale giunge a punire, moralisticamente, la povera dattilografa con la morte, per essersi abbandonata alle fantasticherie.
II. La diffidenza degli scrittori italiani
Ma per comprendere appieno il carattere di singolarità che presenta il racconto della poetessa lo si deve inserire all'interno di quel diffuso atteggiamento di diffidenza e disprezzo che connotava il rapporto degli intellettuali italiani con il cinema. Nel decennio precedente Verga - è noto - aveva scritto di nascosto gli adattamenti dei suoi romanzi, attribuendone la paternità alla sua amante. Non tragga in inganno il titolo Cinematografo cerebrale che De Amicis nel 1910 attribuisce a un racconto e a una raccolta di «bozzetti umoristici e letterari»: altro non è che un uso metaforico del termine per alludere al flusso di pensieri e immagini che affollano la mente.
Solo D'Annunzio, provocatoriamente, esibisce i suoi rapporti con il nuovo spettacolo, firmando nel 1914 soggetto, sceneggiatura e didascalie di Cabiria, il film diretto da Pastrone. In quello stesso anno (il 28 febbraio) e in concomitanza con l'uscita del film, rilascia al «Corriere della sera» un'intervista in cui espone una serie di considerazioni sul cinema, paragonandolo alle Metamorfosi di Ovidio per la capacità di creare il «meraviglioso», elemento essenziale di un'arte piacevole.1 Anche il poeta Guido Gozzano non amava far sapere di scrivere per la nuova arte: nel 1911 aveva collaborato con Roberto Omegna per un documentario sulla Vita delle farfalle, stendendone il commento e aveva fornito il soggetto a La storia di Piccolino di Giovanni Vitrotti. Dopo Cabiria e la discesa in campo di D'Annunzio, nel 1916 l'autore di La signorina Felicita decide di scrivere un'«orditura cinematografica», San Francesco; lo interromperà la morte. 2
III. Il caso particolare di Pirandello e Saba
È il 1916 anno quanto mai significativo per i rapporti tra gli intellettuali italiani e il cinema, principalmente perchè Luigi Pirandello (uno dei pochi che amava veramente l'arte nuova) ambienta nel mondo del cinema il suo romanzo Si gira, pubblicato da Treves (nelle edizioni successive prenderà il titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore). Genialmente Pirandello intuisce l'ambiguità dell'immagine in movimento - vita artificiale e «costruita», ma insieme vita vera, fonte di dolore autentico.3
Come nota anche il critico statunitense Gavriel Moses, un primo pregio del romanzo è la estrema novità dell'ambientazione: l'azione si svolge nel mondo del cinema, quando il cinema si avviava a essere un fenomeno di massa, ma ancora non era al centro dell'attenzione dei mezzi di comunicazione.
Per Pirandello il cinema, però, non è solo lo spunto per una inedita ambientazione del suo romanzo. Egli comprende che la nuova arte introduce un nuovo modo di percezione della vita e del mondo e nel romanzo cerca di dare conto attraverso le vicende dei protagonisti di questo mutamento epistemologico. Altri autori avevano subìto l'influenza del nuovo mezzo espressivo e avevano riflettuto su di esso,4 ma nessuno aveva esplicitato questa riflessione nelle sue scelte tematiche.
Le vicende dei protagonisti paiono rifare il verso a mille pellicole di quel dramma mondano che tanto piaceva agli spettatori e che permetteva all'Italia una supremazia sui mercati. Ma non è solo questo: lo scrittore entra nel meccanismo della creazione di un film e descrive l'animazione delle riprese con grande competenza ed entusiasmo: «Scenografi, macchinisti, apparatori, falegnami, muratori e stuccatori, elettricisti, sarti e sarte, modiste, fiorai, tant'altri operai addetti alla calzoleria, alla cappelleria, all'armeria, ai magazzini della mobilia antica e moderna, al guardaroba, son tutti affacendati, ma non sul serio e neppure per giuoco».
Subentra, però, immediatamente la riflessione sulla natura del cinema, incentrata sul nesso realtà/finzione:
«Ma come prendere sul serio un lavoro, che altro scopo non ha, se non d'ingannare - non se stessi - ma gli altri? E ingannare, mettendo su le più stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa? Ne vien fuori, per forza e senza possibilità d'inganno, un ibrido giuoco. Ibrido, perchè in esso la stupidità della finzione tanto più si scopre e avventa, in quanto si vede attuata appunto col mezzo che meno si presta all'inganno: la riproduzione fotografica. Si dovrebbe capire, che il fantastico non può acquistare realtà, se non per mezzo dell'arte, e che quella realtà, che può dargli una macchina, lo uccide, per il solo fatto che gli è data da una macchina, cioè con un mezzo che ne scopre e dimostra la finzione per il fatto stesso che lo dà e lo presenta come reale».
Un'altra felice intuizione di Pirandello riguarda il senso di alienazione che colpisce gli attori non solo perchè «si sentono strappati dalla comunione diretta con il pubblico». Con sensibilità e acutezza di grande modernità Pirandello mette in rilievo che gli attori cinematografici «avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch'esso produce movendosi, per diventare soltanto un'immagine muta, che trèmola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d'un tratto, come un'ombra inconsistente, giuoco d'illusione su uno squallido pezzo di tela». Nonostante tutto, una insopprimibile diffidenza nei confronti della macchina percorre tutto il racconto di Serafino Gubbio, narratore che troppe volte protesta la sua nullità, ridotto com'è a girare la manovella della macchina da presa. Il finale tragico, la ripresa della morte - vera, reale - di un uomo (anni dopo il critico francese André Bazin lo indicherà come uno dei tabù del cinema), permette a Pirandello di esprimere tutta la sua diffidenza nei confronti di un'epoca ormai dominata dalla macchina:
«Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d'un uomo a una delle tante macchine dall'uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa macchina s'è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall'altro, per forza, e quella più e questa un po' meno bollate da un marchio di volgarità».
Un'ottica anticipatrice permette a Pirandello di cogliere con lucidità tutte le problematiche di questo mezzo di comunicazione di massa, fino ad anticiparne pericolosi esiti, su cui ancora oggi ci si interroga.
Il poeta Umberto Saba, come molti altri, subisce il fascino di Charlot e al Triste Charlot dedica, sulla «Fiera letteraria» del 10 aprile 1927 una lunga poesia, suggeritagli dalla visione di La febbre dell'oro. Ecco la descrizione del celebre personaggio, a quell'epoca soggetto di molti interventi critici di letterati:
«È triste,
così triste che appena ne puoi ridere.
Mentre "Che uomo è quello?" ti domandi,
Per deformati
Strisciati
Passi egli muove tra i mostri a impossibili
Conquiste;
Nel suo fragile insiste
Equilibrio; se fa il nemico spesso
Cadere, è sempre là dove ha bisogno
Di non essere; a un pugno in cui sta morte
Campa; e, per sorte,
Dei mucchi d'oro che sono i più grandi,
Della donna più fulgida ha il possesso...
In sogno».
L'esempio di Pirandello e Saba non trova molti proseliti nella letteratura alta. Ma l'editoria sfrutta in vari modi il fascino che il cinema esercita su un pubblico sempre crescente: ad esempio sostituendo le illustrazioni con foto di scena di film da quei romanzi ricavati (succede anche per I promessi sposi.5 Tra le due guerre si sviluppa nell'editoria di intrattenimento un filone di ambientazione cinematografica, che nulla ha a che spartire con l'approfondimento pirandelliano. Il mondo del cinema appare uno sfondo pieno di attrattive, quasi esotico nel suo fascino. Sono romanzi (e novelle) interessanti quasi unicamente per l'analisi delle modalità di ricezione del cinema nel periodo delle due guerre, del suo alone fiabesco e della sua presa sull'immaginario collettivo. Segnaliamo tra gli altri Agazur innamorata di Mura (1929) e Nannetta a Hollywood di Tito A. Spagnol (1935), La signora di tutti di Salvator Gotta (1933) (solo per la parte finale) e, sul versante giallo, Il mistero di Cinecittà di Augusto De Angelis (1941).
Mario Soldati, da poco tornato dagli Stati Uniti, lavora alla Cines e racconta le sue esperienze in un romanzo che pubblica nel 1935 nascondendosi dietro uno pseudonimo (Franco Pallavera): 24 ore in uno studio cinematografico.6 In uno stile che cerca di riprodurre a livello linguistico le tecniche e gli stilemi del linguaggio cinematografico, quali la dissolvenza o il primo piano, Soldati ci accompagna sul set, seguendo una diva e i personaggi che le stanno attorno.
IV. Dagli anni Quaranta agli anni Settanta: l'epoca del disprezzo
Negli anni Quaranta e Cinquanta le collaborazioni degli scrittori con l'industria cinematografica si infittiscono: qualcuno diventa recensore, molti collaborano a sceneggiature. Di questa ultima esperienza si trovano tracce in alcuni romanzi del dopoguerra: nel 1954 Alberto Moravia colloca l'azione del Disprezzo nell'ambiente cinematografico italiano. Di quel periodo particolarmente felice per Cinecittà ben poco resta nelle pagine moraviane. Protagonista è un giovane drammaturgo (Roberto Molteni) che si adatta a fare lo sceneggiatore per motivi finanziari. Il suo lavoro per il cinema (che egli considera umiliante) coincide con la crisi del suo matrimonio, che si chiude con la tragica morte della moglie. Moravia affianca ai due personaggi principali figure appartenenti al mondo del cinema, il produttore Battista e due diversi registi, il mediocre e accondiscendente Pasetti e Rheingold, tedesco, forte di un passato celebre e deciso a difendere le proprie idee per il film tratto dall'Odissea cui sta lavorando.7 Moravia, anch'egli sceneggiatore (sebbene non attestata dai titoli di testa, nel 1942 prestò, tra l'altro, la sua opera per lo script di Ossessione), dedica alcune paginette per tracciare un quadro del lavoro sulla sceneggiatura: «Voglio spendere alcune parole sul mestiere dello sceneggiatore [...]». Assodato che la sceneggiatura è «dramma, mimica, tecnica cinematografica, messa in scena e regia» Moravia lamenta che «sebbene la parte dello sceneggiatore nel film sia di prima importanza e venga immediatamente dopo quella del regista, per ragioni inerenti allo sviluppo sinora seguito dall'arte del cinema, essa rimane sempre irrimediabilmente subordinata e oscura. Lo sceneggiatore è un artista che, pur dando il meglio di sé al film, non ha poi la consolazione di sapere che avrà espresso se stesso». Le proteste continuano fino ad affermare, due pagine dopo, che «la maniera meccanica e abitudinaria con la quale si fabbrica la sceneggiatura rassomiglia forte a una specie di stupro dell'ingegno, originato piuttosto dalla volontà e dall'interesse che da una qualsivoglia ispirazione o simpatia».8
Dieci anni dopo Giuseppe Berto costruisce un romanzo attorno alla sua depressione e lo intitola Il male oscuro: anche qui l'io narrante fa lo sceneggiatore, di malavoglia, solo per guadagnare soldi. Questo permette a Berto (anch'egli soggettista e sceneggiatore attratto dagli ingenti guadagni del mondo del cinema) di presentare ambienti e personaggi legati a Cinecittà. L'epoca della fascinazione è definitivamente chiusa: lo scrittore guarda con lo stesso disprezzo moraviano a questo mondo dominato dal denaro e dalla mancanza di cultura, accentuando i lati grotteschi della narrazione.
Più complesso lo sguardo che Ennio Flaiano getta sul mondo del cinema in due racconti lunghi, Melampus e Oh Bombay, pubblicati nel 1970 in un volume dal titolo Il gioco e il massacro. In Melampus uno sceneggiatore italiano, recatosi a New York, vive una intensa storia d'amore con una donna che si annulla per lui. Giorgio Fabro crede in un cinema che porti a «un risultato di meraviglia, quello dei sogni e dell'arte». L'ambiente cinematografico resta però sullo sfondo: persino Los Angeles viene descritta come una qualunque città americana. Più interessante il rapporto con l'immagine audiovisiva che si viene a delineare nelle pagine di Oh Bombay, dove il protagonista (un arredatore) vive una futuristica avventura con un piccolo televisore che ha acquistato a Hong Kong, durante una sosta del suo viaggio in Oriente. Dalla prima notte in cui segue le immagini di un tifone abbattutosi su Hong Kong, Lorenzo Amadante è ossessionato dalle immagini allucinate e a tratti perverse che provengono dall'apparecchio portatile, immagini e parole che si riversano su di lui anche quando l'arredatore lo riduce in pezzi. Sono, queste immagini, sicuramente metafora del suo inconscio (fanno riferimento ai problemi della sua vita sessuale), ma anche del mondo del cinema, colpevole secondo lo scrittore di aver perso la sua autenticità e di essersi ridotto a noia profonda e onanismo, nonostante un'apparenza di divertimento.
Nel finale, dal televisore infranto proviene una sorta di catalogo in cui si confondono voci, parole, rumori e frasi ormai prive di senso, inevitabile frutto di un mondo in cui «tutto si stava trasformando in un seguito di happening e di questo passo le cose sarebbero avvenute soltanto per essere viste, già spettacolo prima di essere la nostra vita». Apologo satirico, questo di Flaiano, che arriva però a prevedere, nel suo tono apocalittico, l'assalto delle immagini di cui si nutre la società contemporanea, anche per nascondere la sua sterile vacuità.
V. Un approccio innovativo
Settant'anni dopo Ada Negri, un'altra scrittrice italiana, Laura Pariani, che lavora anche come sceneggiatrice, si rivolge al cinema nei nove racconti di La perfezione degli elastici (e del cinema),9 ispirandosi a film e attori per storie ambientate nella provincia lombarda. Rievoca Frankenstein, il celebre film di James Whale, girato nel 1931, e il suo protagonista Boris Karloff, attraverso la vicenda di Le belle vittime. La Bambina e il Mostro si confrontano come sullo schermo, accompagnati dai versi di canzoni e cantilene in dialetto lombardo: le immagini della narrazione letteraria si confondono e si sovrappongono con quelle del film, conferendo all'irrealtà di quest'ultimo la tragicità del quotidiano e del contemporaneo, in un gioco di punti di vista che riprende quello del linguaggio cinematografico. Via via il procedimento interessa il Lon Chaney di Notre-Dame de Paris, la Gong Li di Lanterne rosse, la Louise Brooks di Il vaso di Pandora e l'Oliver Hardy di Un giorno perfetto. Le tre sezioni del libro (Trasposizioni, Ombre e Nostalgie) propongono un innovativo approccio al cinema da parte della narrativa: un intreccio sempre più fitto con immagini e storie che ormai fanno inscindibilmente parte del nostro immaginario. Lo scrittore non si limita più a registrare il pericoloso fascino che il cinema esercita sui protagonisti: ne è egli stesso colpito, ma sa come rielabolarlo attraverso un processo che rivive il narcisismo della visione cinematografica, ricostruendone l'emozione e rievocandone il simbolismo.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2001
Dicembre 2001, n. 2
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