Enrico Palandri, Antonio Spadaro
Dialogo su Tondelli

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Sommario
I.   Introduzione
II.  Spadaro a Palandri, 20 novembre 2000
III. Palandri a Spadaro, 24 novembre 2000
IV.  Spadaro a Palandri, 26 novembre 2000
V.   Palandri a Spadaro, 27 novembre 2000
VI.  Spadaro a Palandri, 28 novembre 2000


§ II. Spadaro a Palandri, 20 novembre 2000

I. Introduzione

Un messaggio accidentale di Enrico Palandri alla mailing list «Italian Studies»
è all'origine di questo interessante scambio epistolare su Tondelli avvenuto
tra lo stesso Palandri e Antonio Spadaro. Ne è scaturito un vero e proprio
dialogo che, iniziato pubblicamente nella mailing list, poi proseguito in privato
tra Palandri e Spadaro, ha dato luogo ad un confronto che riguarda in fondo
tutta la letteratura degli ultimi decenni e il senso stesso di fare critica.
Lo pubblichiamo qui, riveduto dagli autori, in modo che si allarghi la
discussione anche ad altri interlocutori. [F.P.]


§ III. Palandri a Spadaro, 24 novembre 2000 Torna al sommario

II. Spadaro a Palandri, 20 novembre 2000

20 Novembre 2000
Da: Antonio Spadaro <spadaro.a@gesuiti.it>
A: Italian Studies <italian-studies@mailbase.ac.uk>

Anche se con abbondante ritardo, vorrei riprendere brevemente la mail
(inviata il 3 ottobre) di Enrico Palandri (a cui mi rivolgo direttamente).

Tu definisci il punto di vista del mio lavoro come «mistificatorio».
Credo che ti riferisca essenzialmente al mio libro Pier Vittorio Tondelli.
Attraversare l'attesa
1 o a qualche mio articolo. Ovviamente sei liberissimo di
non condividere né apprezzare le mie posizioni e le mie letture, questo è ovvio.
Tuttavia vorrei fare alcune precisazioni:

1. Credo di aver lavorato con scrupolo e passione per anni e anni (sette,
per la precisione) su testi editi e inediti e su ogni libro della biblioteca
personale di Tondelli e su ciascuna delle sue annotazioni a penna e a matita
che è presente nei suoi libri. Tralascio i contatti con molti suoi amici,
compagni etc. etc. Insomma credo che il mio lavoro su Tondelli, documentato
da ciò che ho pubblicato in varie occasioni, sia abbastanza ad ampio raggio
(ho scritto anche tutto un libro sul suo progetto Under 25). Mi chiedo se
sia giusto liquidare così, su due piedi, come «mistificatorio» un lavoro
impostato su argomentazioni e documenti sempre puntualmente citati. Non
dovrei essere io a dirlo, si capisce. Tuttavia credo che, in ogni caso,
farlo forse sarebbe un'operazione più ideologica che critica.

2. Molti hanno parlato delle mie posizioni, del mio libro, ma quanti
realmente l'hanno letto? Chi l'ha letto si sarà accorto che io di certo non
leggo tutta l'opera di Tondelli nella prospettiva della sua conversione in
punto di morte! Sarebbe ridicolo ma soprattutto di cattivo gusto! No, so di
non aver fatto questo. Lo dico con tranquillità. La conversione anzi è un
cambiar rotta che a volte nega il precedente vissuto. La mia tesi, semmai
afferma la religiosità di Tondelli e dunque non parla mai di «conversione»!

3. Semmai offro una prospettiva forse non comune, che parte dalla
sensibilità delle ultime opere per svelare un volto inedito (senza pretese
di esaustività, si capisce!!). Senza contare certi ustionanti brani inediti
che riporto nel mio libro, la religiosità tondelliana trapela da troppe
pagine delle sue opere per essere negata sic et simpliciter e costituisce
uno dei possibili approcci ermeneutici all'opera completa. Non vedo perché
negare la plausibilità di questa prospettiva, se è così ben documentata e
apprezzata da lettori speciali come, ad esempio, Carlo Coccioli (cfr.
editoriale di «Excelsior», 27 settembre 2000).Tondelli in Camere separate,2
come dimostro, ha persino copiato delle frasi di un libro sulla preghiera
che possedeva (uno dei tantissimi testi religiosi di cui «religiosamente»
faccio la lista completa in appendice al mio libro). E tu stesso hai scritto
su Altri libertini3 una frase, a mio parere straordinaria. Ti cito: «nello
sguardo di Tondelli alla desolazione del terreno si ritroverebbe il filone
di Jacopone e di Francesco d'Assisi, l'attenzione creaturale, lo sgomento
metafisico» [«Panta», 9 (1992)].

4. Non so cosa intendi per «dissidenza» (che è categoria ideologica tanto
quanto «ortodossia», ma non certo critica). Certo è che con Roberto [Carnero]
siamo amici e c'è sempre stata intesa di fondo. Ho percepito differenze, ma non
posizioni «piuttosto polemiche». Io ho recensito il suo libro, lui ha
recensito (e anche in una occasione presentato) il mio. Nessuna polemica,
almeno che io abbia notato. Normale differenza di approcci e di interessi,
forse. Ma ti dirò che nella sostanza le tre monografie fino ad oggi
pubblicate su Tondelli (quella molto bella di Elena Buia,4 quella di Roberto
[Carnero]5 e la mia) hanno presupposti di approcci che sento estremamente
armonici, pur nella differenza di accenti.

Chiudo qui, sentendo il bisogno di dirti tutta la mia stima e il mio
interesse per la tua opera. Mi è molto piaciuto anche il tuo discorso
introduttivo al convegno di Londra. La mail qui presente è solo una
precisazione su qualcosa che mi riguarda e che sento importante.

Antonio Spadaro


§ IV. Spadaro a Palandri, 26 novembre 2000 Torna al sommario

III. Palandri a Spadaro, 24 novembre 2000

24 Novembre 2000
Da: Enrico Palandri <ucljpal@ucl.ac.uk>
A: Antonio Spadaro <spadaro.a@gesuiti.it>

Caro Antonio,

il lapsus di scrivere a Laura Rorato attraverso mailbase ha reso
pubblico, sebbene in modo informale e poco argomentata una mia
preoccupazione sulla lettura che si dà di Tondelli, e tu ti sei
giustamente rivolto a mailbase per replicare. Io preferisco
risponderti privatamente perché le questioni che riguardano Pier
Vittorio, la fede, la letteratura fanno parte per me di un'area che
ha forti accenti emotivi e non sempre un orizzonte teorico chiaro.
Temo insomma che porterei in pubblico della confusione. Le cose
«pubbliche» che penso le ho del resto dette anche al convegno sul
romanzo italiano e il postmodernismo di Londra 25/10.

L'importanza che Pier Vittorio Tondelli ha avuto e continua ad avere
per chi legge e scrive in Italia è complessa. Come ho scritto nella
prefazione al libro di Carnero per me è impegnativa da un punto di
vista privato, perché la morte degli amici tende a trasformare la
vivacità della dimestichezza (i progetti editoriali, la simpatia ma
anche le rivalità e le differenze nel modo in cui si è impostati
nella letteratura e nella vita) in qualcosa che è difficile
sciogliere. C'è per me della nostalgia di lui, naturalmente, perché
gli ho voluto molto bene. Ma soprattutto c'è un impegno a distinguere
le cose e visto che faccio lo stesso lavoro pur non avendo dedicato
anni, come te, Fulvio Panzeri, Roberto Carnero e altri, a leggere e
riflettere sui suoi libri, sento comunque la necessità di
intervenire con puntualità, quando posso.

Per prima cosa voglio ricordare che quando Pier Vittorio Tondelli è
morto la sua reputazione in Italia era un po' maledetta; lo era un
po' tutta la nostra generazione, il terrorismo è caduto sulle spalle
di tutti noi anche quando abbiamo disapprovato coloro che sparavano;
purtroppo si è scatenata una reazione a tutta la nostra generazione
che, secondo me, pur essendosi complicata con tendenze diverse e
contraddittorie negli anni, resta fondamentalmente in piedi e questo
è il senso pubblico della condanna a Sofri. Il discorso è molto
ampio e esula in parte da quello che tu osservi, ma tu hai una decina
di anni meno di me ed è questo il nodo della distanza non soggettiva
ma storica tra noi. Non ci è possibile sciogliere un nodo di questo
tipo con la buona volontà; le parole della nostra generazione sono
radicate in un periodo luttuoso e terribile. Io non sono un violento,
ho sempre scritto romanzi, poesie, canzoni, non volevo allora e non
vorrei adesso essere schiacciato da quell'epoca. Non avendo mai
incontrato terroristi ho sempre fatto grandi distinzioni tra chi
sparava e la parte della società che, attraverso i referendum degli
anni '70 e un desiderio di crescere e modernizzarsi ha portato me,
PVT, De Carlo, Piersanti, Lodoli, Susanna Tamaro e tanti altri a
raccontare come raccontiamo. Ma le distinzioni con il tempo sfumano,
non si può chiedere alla gente di ricordare né a chi non c'era di
studiare e distinguere.
Io e PVT abbiamo avuto posizioni diverse in questo, ma eravamo
secondo me anche molto vicini nella sostanza. La diversità era che
mentre io sentivo nella restaurazione degli anni '80 una
mistificazione storica, un accumularsi di menzogne, Pier era almeno
in apparenza più aperto a ciò che ci veniva incontro. Ne parlammo
molto e sia per me che credo per molti altri, nel Week-end
postmoderno
6 si reperiscono tante discussioni di quegli anni.
Per me l'Italia degli anni '80 assomigliava un po' alla Parigi delle
lettere persiane, un paese dominato da parrucchieri e sarti; un paese
che aveva cancellato l'attrito dei Pasolini, dei Bellocchio, del
femminismo. Un paese dove tutto andava bene, ci si voleva divertire e
se possibile dimenticare rapidamente il sanguinoso epilogo degli anni
'70. Io degli anni '70 non avevo un ricordo felice, ma avevamo detto
cose sacrosante, che la storia italiana ha in seguito visto passare
in rassegna nei tribunali. Le responsabilità dello stato e della CIA
nella strategia della tensione, i fortissimi dubbi su Andreotti,
un'accusa generale alla Democrazia Cristiana di allora e alla fine
anche al PCI, che infatti si rivoltò contro gli studenti. Tutto
questo negli anni '70 fu detto in piazza contro una classe politica
che tentava di ricacciarcelo in gola.
Pier era meno superficialmente politicizzato (ma neppure io lo ero
poi tanto) ma nella sostanza era ben radicato in questo «movimento»
di emancipazione, liberazione, crescita. Altri libertini, ma anche
Camere separate sono libri duri e secondo me libri guerrieri. Il
primo com'è noto fu sequestrato dalla magistratura, l'ultimo provocò
reazioni violente (ad esempio in Guglielmi), insomma non era un
autore facile. Nel numero di «Panta» che gli dedicammo (di «Panta» era
tra l'altro stato uno degli ideatori e io c'ero arrivato attraverso
lui), c'è ad esempio un pezzo piuttosto liquidatorio di Furio Colombo
in cui dice che la reputazione di Tondelli è dovuta sostanzialmente
all'omosessualità. Di questo pericolo PVT era molto consapevole e
quando lo portai a Serpent's Tail mi fece diverse telefonate per
sapere che tipo di editore era, non voleva insomma finire in un
ghetto gay. E aveva ragione, altri autori che hanno tenuto meno
presente questa preoccupazione sono divenuti quasi autori di un
genere separato. Attraverso i libri di PVT sono tuttavia emerse
amicizie, legami, una cultura separata è riuscita a emergere e
autoidentificarsi. Ad esempio in un libro dell'anno scorso di
Piersandro Pallavicini (Il mostro di Vigevano)7 un libro di PVT viene
regalato proprio con questa funzione simbolica, di riconoscimento di
un'identità e affermazione di un diritto a esserci. Nella vita reale
di molte di queste persone è un fatto anche più importante della
letteratura, ma non è letteratura.

Quando io ne scrissi allora, nel numero di «Panta» a cui ti riferisci,
reso molto consapevole dal pericolo di leggere Tondelli secondo il
filtro restrittivo di autore gay (c'era ad esempio stata una
copertina de «l'Espresso» sulla sua morte per aids che aveva
chiaramente impostato il mito Tondelli in una certa direzione)
scrissi della religiosità di Tondelli. Non so molto dei suoi ultimi
mesi e della conversione, non era a questo che pensavo. Volevo aprire
in una direzione diversa.
La mia preoccupazione generale in quegli anni era di far apparire la
contestazione non come fatto anomalo e eccezionale, ma organica alla
nostra società. I nostri non erano stati cattivi maestri, avevamo
studiato nelle migliori università italiane, Pisa, Bologna, Padova,
Milano, eravamo spesso stati ottimi studenti. Le cose che dicevamo
erano difficili ma vere.
C'era insomma in me in quel periodo anche una preoccupazione
strategica, e questa si manifestava anche nel voler leggere Pier in
una tradizione, ancorarlo nella nostra letteratura e non lasciare che
l'omosessualità, il postmoderno ecc. consentissero di metterlo in una
nota a piè di pagina e liquidarlo come un corpo estraneo (cosa che
era più facile di quello che si può credere oggi. Pier vendeva
abbastanza ma non aveva vinto alcun premio, non era coccolato da
nessuna scuola. Anche in questo eravamo vicini, e forse meno soli di
quanto credevamo. Ma certo sia dal Gruppo 63 sia dall'area
ideologizzata a sinistra, e naturalmente da quella conservatrice,
venivano frequenti cannonate).
Credo sia vero che in lui ci sia una attenzione alle cose e alle
persone che ha radici molto antiche, nel cristianesimo, ma più
esattamente mi sembra oggi di dover dire in una nostalgia di miti,
riti e scansioni medioevali, con una curiosità che andrebbe studiata
più a fondo per angeli, cosmologie ecc. Penso a Biglietti agli amici.8
PVT non era uno studioso, queste curiosità contano per come poi si
fanno letteratura, per quanto lo aiutano e lo influenzano nel
raccontare. Anche di questo si parlò parecchio allora (ad esempio Di
Stefano sul «Corriere della sera» criticò la mia lettura).
Comunque ripeto, la mia era anche una preoccupazione strategica, un
dire: guardate che non è uno che non c'entra, al contrario, ha radici
molto profonde nella nostra storia.

Questa lettura è poi diventata prevalente. La fama di Pier Vittorio è
cresciuta, si è scritto e pubblicato così tanto negli ultimi anni su
lui e il suo lavoro che credo sia il momento di fare un altro tipo di
riflessione. La sua influenza diretta è ampia e forte per diverse
ragioni. Se ne è fatto un portabandiera generazionale, uno scrittore
gay, uno scrittore eversivo, ma anche uno scrittore religioso, anzi
come mi sembra tu lo abbia definito a Londra «uno scrittore del
ritorno alle radici». Insomma tutti ci mettono dentro qualcosa.

Uno scrittore ci parla sempre individualmente, io non posso venire a
sindacare nell'animo di nessuno e dirgli guarda che era così e non
era cosà. Però nel quadro che ti ho descritto spero che il senso del
mio «mistificatorio» sia più chiaro. Non voglio aprire discussioni
teologiche, io credo in fondo solo alla letteratura, a quello che gli
uomini scrivono. Anche a quello che sono, ma è più difficile per me
vederlo e parlarne in questo modo, anche se ovviamente più importante
per vivere e per i romanzi.
Il crollo ideale che ho cercato di descriverti sinteticamente,
quello che secondo me ci ha prodotti, è lontano (ed è perché per noi
la storia e le sue prospettive di cambiamento crollavano che
diventavamo romanzieri; avessimo avuto più fiducia nella storia
avremmo preso le armi, oppure saremmo entrati in politica, avremmo
insomma scommesso tra gli altri invece che sulla solitudine, perché
scrivere è comunque un po' un parlare da soli, sebbene speriamo
sempre di arrivare prima o poi a qualcuno, ma questo è un altro
capitolo).
Di nuovo il ruolo della chiesa cattolica è cresciuto enormemente
nella società italiana. È la chiesa che ha gestito lo smarrimento
ideologico.È stato il cattolicesimo a misurarsi sia con il
pentimento dei terroristi che con l'irrequietezza anticapitalista dei
giovani che con il desiderio di pace e l'ansia di successo e
ricchezza… Insomma, a me sembra un po' con tutto. Non voglio e non
sono in grado di fare un discorso su questo. Io non sono religioso e
mi sento piuttosto estraneo alla crescita di religiosità (o la
nostalgia di appartenenza?) tra gli italiani. Le grandi marce, i
raduni oceanici di CL, i telegiornali che presentano le opinioni dei
vescovi come se fossero ministri ufficiosi dell'Italia. Culturalmente
sento di discendere da quella parte della nostra società che crede
nello stato civile, secolarizzato, nelle elezioni, nelle diversità di
ognuno. Spero di non offendere nessuno, ma reagisco con un passo
indietro di fronte alla nuova crescita d'influenza del cattolicesimo
istituzionale in Italia. Non voglio liquidare una questione tanto
complessa in due battute in questo modo, ti dico solo qual è il mio
atteggiamento.

Che anche Pier Vittorio venga accolto in questa visione ecumenica mi
sembra mistificatorio. A meno che non ci si voglia far carico di
tutto quello che secondo me è implicato nel suo lavoro, un
riconoscere le unioni di fatto, insomma la vita che lui ha fatto. Un
desiderio di capire e non di far rispettare norme. Desiderio che tu
sicuramente hai, lavori e hai lavorato in modo serio e io ho rispetto
di quello che hai fatto. La mia è di nuovo, se vuoi, una
preoccupazione più ampia, strategica, che non ti riguarda
personalmente ma riguarda piuttosto una visione di Pier Vittorio che
mette troppo l'accento sul ritorno alle radici e non coglie il fatto
che lui queste radici ha anche voluto rescinderle, che c'è stato
nella sua vita un desiderio di rompere, aprire, conoscere, una
estroversione avventurosa. Che la rivoluzione non è un fatto
straordinario, ma c'è e fa parte di noi.

So bene che a lavorare sono due tendenze contrastanti, c'è l'una e
l'altra cosa, il rompere e il tornare. Il lavoro che fai nel reperire
in libri di preghiere interi passaggi di Camere separate sarà senza
dubbio utile. Io di Pier difendo il lato estroverso, tu quello più
introverso. Quello che abbia pensato Pier alla fine della sua vita,
la sua conversione, gli sarà utile, nella prospettiva cristiana, di
fronte alla morte e della vita ultraterrena. Per la letteratura
conta invece tutto il testo della sua vita. Anche Tasso riscrisse
tutta la Gerusalemme per una crisi religiosa. Ma gli scrittori non
sono solo ciò che credono di essere, si perdono l'anima in tante
pagine, se la perdono per strada e io non credo si raggiungano mai
momenti davvero sintetici. Si passa piuttosto da un capitolo
all'altro. Ma questo è di nuovo un altro capitolo.

Ti auguro un buon lavoro e spero tu comprenda in cosa siamo distanti
e che come Voltaire mi possa dire (ed è quello che io dico a te): non
sono d'accordo su nulla di quello che dici, ma sono disposto a morire
perché tu lo dica.

Enrico


§ V. Palandri a Spadaro, 27 novembre 2000 Torna al sommario

IV. Spadaro a Palandri, 26 novembre 2000

26 Novembre 2000
Da: Antonio Spadaro <spadaro.a@gesuiti.it>
A: Enrico Palandri <ucljpal@ucl.ac.uk>

Caro Enrico,

se quella tua mail è servita ad aprire tra noi questo piccolo dialogo…
beh, sono contento che tu l'abbia scritta. L'ho letta ieri, di ritorno da un
convegno sulle riviste di italianistica all'estero (per l'UK era presente
Baransky che ha tenuto una bella relazione).

Cosa dirti? Innanzitutto credo che ciò che effettivamente ci divide
siano soprattutto quei dieci anni di differenza. È vero: abbiamo non solo
prospettive diverse, ma anche una età diversa. Io in quegli anni '80, quelli
della generazione «gommacea e detritacea», come diceva Tondelli, sono
entrato quando avevo poco più di dieci anni. Dunque io «non c'ero». Questo è
uno svantaggio, forse. Io non ho conosciuto Tondelli e non oserei chiamarlo
«Pier Vittorio», come molti giovani fans. Insomma non ho vissuto
dall'interno quello che avete vissuto voi. Leggo la tua testimonianza come
tale e come preziosa. Ho letto con la stessa cura e ascolto ciò che hai
scritto su Tondelli. Posto ciò, credo che la sua opera comunque sia
consegnata ai lettori, anche a noi, gli attuali «30 something». Noi, se
abbiamo uno svantaggio (la non conoscenza immediata di ciò che voi avete
vissuto) forse abbiamo un vantaggio, che è poi il medesimo: essere un po'
più distanti, vedere le cose da una posizione più obliqua e prospettica.
Dico questo per collocare la mia lettura tondelliana.

Quindi opererei una distinzione. Nella tua mail parli di molte cose (e
dunque ho l'impressione che, tra me e me, ci tornerò sopra per un bel
po'…). Io opererei però una distinzione fondamentale tra, da una parte,
ciò che è tua considerazione su Tondelli, sulla sua opera e sulla stagione
che avete vissuto e, dall'altra, le tue considerazioni sul mio lavoro e in
particolare sul mio Pier Vittorio Tondelli. Attraversare l'attesa. Se le
prime considerazioni mi sono preziose, sulle seconde esprimo qualche
perplessità. Ho come l'impressione che tu riduca il mio lavoro a una
«confessionalizzazione» di Tondelli. Se hai avuto modo almeno di sfogliare
il mio volume ti sarai accorto che non è così. Contesto dunque questa
riduzione. Se togli al mio libro la pubblicazione degli ultimi inediti e
delle riflessioni conseguenti, il lavoro (perdona la presunzione) resta in
piedi (nel bene e nel male, si capisce) e giungerebbe alle medesime
conclusioni. Inoltre, da cristiano quale sono, non pronunzierei mai giudizi
definitivi sulla conversione di una persona. Ma questo è un'altro discorso.

Allora cosa faccio? Tondelli in Pao Pao9 ha scritto che la nostra vita è
fatta di fili intrigati e sparsi che poi possono unirsi in una armonica
frequenza che fa capire e svela il senso. Cito queste espressioni perché in
tal modo io considero la sua opera. Tanti fili… Il lavoro critico consiste
anche nel raccogliere questi fili, seguirne le piste, intuirne le direzioni
e verificarle con i testi. Più o meno ho inteso fare questo: ho raccolto i
fili sparsi della «religiosità» tondelliana seguendo le molteplici metafore
dell'abbandono e dell'attesa, anche (e forse soprattutto) nei suoi desideri
contraddittori. Dunque non pretendo affatto di ridurre l'opera di Tondelli
nel suo complesso alla raccolta dei miei fili, ma rivendico con decisione
il diritto che la raccolta dei miei fili sia non liquidata con
considerazioni a priori, ma considerata per quello che essa è e alla luce
del mio ragionamento. Se tiene bene, se non tiene pace: ammetterò che non
tiene o che tiene solo parzialmente. Comunque sarà porre un interrogativo in
più. Ovviamente io non oso decidere sulla vita di Tondelli o su ciò che
lui pensava o diceva. Io parlo sostanzialmente della sua opera e sappiamo
(ce lo hanno ricordato in tanti, da Oscar Wilde al teologo Karl Rahner) che
uno scrittore «pensa» in forma di scrittura e, scrivendo, può andare al di
là di ciò che in quel momento è il suo contenuto mentale chiaro e tematico.
Dunque le riflessioni sulla vita di Tondelli (anche quelle che faccio io
stesso) hanno un valore, certo, ma non ultimo e decisivo sulla sua opera.

Noto comunque che, non solo la riflessione del curatore della sua opera, di
Fulvio [Panzeri],10 va citata a conferma almeno della radicale plausibilità del
mio tipo di lettura, ma anche il volume di Elena Buia, Verso Casa. Viaggio
nella narrativa di Pier Vittorio Tondelli
è, già dal titolo, eloquente e propone
un taglio di lettura e delle riflessioni che condivido radicalmente. In ogni
caso è vero che Tondelli ha voluto rescindere le sue radici, ma fermarsi a
questo dato significa chiudere gli occhi rispetto ad un'altra tensione
altrettanto forte in lui, quella di un desiderio di «casa», di luoghi di
orgine, di radici. Il punto è descrivere e interpretare questa dialettica e
proporre una prospettiva di risoluzione, per quanto ampia e discutibile. Non
basta contrapporre il bisogno centrifugo a quello centripeto: la fuga al
ritorno.

Vengo adesso alle tue considerazioni generali. Sento il bisogno di ripetere
adesso ciò che dicevo prima: ascolto le tue parole con estrema attenzione e
cura perché mi danno un elemento in più di comprensione. Non intendo affatto
qui «replicare» perché spesso tu parli della tua esperienza diretta. Anzi,
sento solo di ringraziarti per la franchezza. Semmai aggiungo qualche breve
riflessione…

Sono figlio del «postmoderno di mezzo», come lo chiamava Tondelli. Ho
raggiunto la mia maggiore età nella seconda metà degli anni '80 e avevo in
cuore un gusto di qualcosa di grande per cui valesse la pena vivere. Forse
sono nato fuori stagione, non lo so. Ho sempre avuto in me una sorta di
nostalgia per un tempo non vissuto: la fine degli anni '60. So solo che nei
miei anni di studente universitario nel mio cuore «militavo» a favore di
persone che parlavano di cose grandi. Erano i miei compagni di DP, di
Democrazia Proletaria, che sembravano credere ancora in qualcosa. Attorno a
me non vedevo grandi fedi né grandi vite. Ti dirò che alla fine, nonostante
le mie simpatie, mi resi conto che l'ideale diventava in questi miei
compagni qualcosa di molto simile all'intolleranza, alla violenza. Era
qualcosa di molto distante da me, dalla mia indole. Sono entrato in Città
per l'uomo, un movimento politico vicino alla Rete di Orlando. Ho creduto
a una Sicilia diversa, politicamente e culturalmente. Anche questa
esperienza non mi ha soddisfatto fino in fondo. La mia fede personale ha
fatto il resto, non nel senso di un rinnegamento di queste esperienze, ma in
una sorta di catalizzazione e potenziamento su un piano diverso. Da qui la
scelta per i gesuiti. Nessun ripiegamento misticheggiante, comunque. Non
sono il tipo, ahimè! Semmai qualcosa di molto concreto, ponderato, ma nello
stesso tempo di «ideale». Questa era la mia forza «centrifuga». A questo
però devi aggiungere la mia consapevolezza, anche se spesso rifiutata, di
avere e di volere delle radici, radici chiaramente meridionali. Una
consapevolezza per me scomoda, ma che fa parte del mio immaginario. Ti dico
queste cose perché questa è la mia esperienza e il mio punto di partenza
biografico nella lettura di Tondelli (e di qualunque altro scrittore…).

Forse è questa la mia lente biografica: la fede, le radici, i desideri
centrifughi… Su una cosa ci troviamo però pienamente in accordo: evitare
classificazioni rigide: Tondelli gay, Tondelli postmoderno, Tondelli
libertino, Tondelli pop… Tondelli «pio». Certo, ci sono letture che
raccolgono fili. E raccogliere fili non è appiccicare etichette. C'è una
differenza. Faccio un esempio. Io posso anche non condividere la lettura
di Tondelli in termini di «gender studies», tuttavia la ritengo plausibile.
Se non la condivido, non è perché tende ad appiccicare una etichetta a
Tondelli, ma perché è una prospettiva che, nel suo complesso, mi sembra non
«spieghi» bene, non tenga, non dica le ragioni ultime. Ma in sé quella
lettura è plausibile e anche, in parte utile. Insomma non è in sé
mistificatoria. Lo sarebbe se pretendesse di esaurire in sé il discorso.

A questo punto, sento il bisogno di citare delle parole che scrivo nella
introduzione al mio volume: «L'itinerario di lettura, che qui si propone,
intende attraversare l'esperienza letteraria e umana dell'autore in modo da
coglierne il significato, al di là di scandali o esaltazioni di sorta. A noi
qui interessa far emergere con discernimento, attraverso il bene e il male,
le luci e le ombre, lo specifico dell'esperienza narrativa personalissima
dell'autore, la sua qualità morale e il valore letterario dei suoi scritti,
senza cedere alla semplificazione dei giudizi in generale. Interessa insomma
cogliere la forma, la figura complessiva della sua opera, al di là delle
singole parziali accentuazioni e dei frammenti ("libertino", "sentimentale",
malinconico), attraverso i quali è stata letta e che si sono rivelati
spesso solo stereotipi. Dunque ricerchiamo una rilevanza a livello di
significati.
È allora su questa linea che ci muoveremo: una lettura ampia, interessata a
ricercare quale sia il sostrato di umanità che emerge dalle pagine
dell'autore, le sue tensioni interne, il divenire della sua ispirazione
letteraria; la sua "moralità" nel senso più radicale del termine: il
rapporto con la vita, le parole che denotano una intensa partecipazione
biografica e una devozione in ogni caso ostinata e coinvolgente
all'esistenza umana e alla pratica della scrittura e della lettura.
[…]. La nostra lettura […] non intenderà stabilire se Tondelli sia un
grande scrittore o uno scrittore mediocre: non è questo, riteniamo, il fine
della critica semmai lo è della storiografia letteraria, ma vorrà
interrogare e lasciarsi interrogare dalle sue pagine. Siamo convinti di ciò
che Tondelli stesso ha affermato circa il ruolo del critico, il cui compito
dovrebbe essere quello "di capire l'orizzonte da cui nasce un testo, perché
nasce in quel modo, quali sono le sue radici" e questo significa
interpretare l'opera in modo da far emergere le profondità e le risonanze che
la solcano e la collegano con altri autori e altre esperienze
artistico-letterarie».

Grazie, Enrico, di questo dialogo, che non prevedevo, ma che mi aiuta a
pensare, un dialogo che ha radici più lontane nella lettura dei tuoi libri e
che non è fatto di facili ecumenismi, ma di confronto serio e da amici…
Voltaire non avrebbe nulla da obiettare!

Antonio

P. S.
Circa il tuo discorso sulla Chiesa in Italia… il discorso sarebbe
complesso. In breve posso dirti il mio parere: io credo che il problema sia
vissuto ancora in maniera ottocentesca, di contrapposizioni tra chierici e
laici, tra credenti e laicisti. Fino a che dureranno queste contrapposizioni
non se ne uscirà mai. Ci si rimbalza le colpe e basta e si è ciechi sulle
ragioni degli altri. Ciò che manca insomma è una riflessione seria, priva di
connotati troppo ideologici, che permetta di dialogare tra due forze vive
della società civile che hanno le loro ragioni. Tu citi i ciellini, io
potrei citare i radicali… Non se ne esce più. La questione per me è: quali
sono i criteri per fondare una collaborazione proficua in una società
pluralistica? A me sembra questa la domanda che cattolici e laici dovrebbero
porsi. Oggi mancano questi criteri. La riflessione resta aperta. Ma questo è
un altro discorso…


§ VI. Spadaro a Palandri, 28 novembre 2000 Torna al sommario dell'articolo

V. Palandri a Spadaro, 27 novembre 2000

27 Novembre 2000
Da: Enrico Palandri <ucljpal@ucl.ac.uk>
A: Antonio Spadaro <spadaro.a@gesuiti.it>

Caro Antonio,

anche io ti sono grato delle cose che mi racconti di te e del tuo
modo di vedere il mondo. Forse hai ragione nel vedermi dogmatico nel
mio scetticismo nei confronti della chiesa, ma non è per
ottocentismo; sono anzi d'accordo con te che l'anticlericalismo
ottocentesco è altrettanto sgonfio e un po' retorico, alla maniera
dei radicali appunto.

La mia obiezione è più sostanziale e ti faccio una domanda: perché
non contrapporre la tendenza centrifuga e quella centripeta, la fuga
e il ritorno? Perché immaginare che gli aspetti della personalità e
del destino di un individuo, che si articolano in maniera
contraddittoria sia per la natura stessa del nostro sviluppo
personale che in qualche modo dialettizza le diverse posizioni che
prendiamo, facendoci passare attraverso contrari piuttosto che
mediazioni, sia per le diversissime, casuali circostanze che ci
troviamo ad affrontare, debbano alla fine creare un tessuto omogeneo
di significati? Al contrario, secondo me, nella contraddittorietà e
nella frammentazione, nella circostanzialità ci sono gli elementi
attraverso cui si è. Altrimenti iniziamo a trascendere noi stessi e
gli altri, la storia, la realtà, e iniziamo a osservarci in un
orizzonte così al di là delle cose che si può anche finire con un
monologo. Per me il senso è qualcosa che si realizza nei rapporti
concreti con altri.
Per queste ragioni io sono convinto si debba parlare di pluralità
dell'io (perché siamo diversi a seconda delle circostanze, dei
compagni/e di strada, delle pressioni sociali, del punto a cui ci
troviamo nel nostro percorso ecc.). Il ritorno è uno di questi
momenti, ma rischia di avanzare pretese egemoniche in PVT come in
tutti noi, di fare un riassunto, una sintesi, di portarci a una
univocità che è secondo me mistificatoria. Cosa ne facciamo di tutto
quello che non c'entra con questo ritorno? Di quello che abbiamo
detto e scoperto, di ciò che ci ha spinto a fuggire? Dimentichiamo,
censuriamo, tutto per onorare le radici?

Così per PVT. Cercare di arrivare a un PVT al di là della letteratura
(e so bene che la lettura del ritorno di PVT è piuttosto
generalizzata), accettare la sua revisione di Altri libertini,
rischia di trascinare tutto in un punto, quando al contrario secondo
me la ricchezza sua, e di ognuno di noi, e quello che la letteratura
ha da offrire a chi la frequenta, è una moltiplicazione del senso,
una moltiplicazione infinita.

Con molti auguri per il tuo lavoro
Enrico Palandri


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VI. Spadaro a Palandri, 28 novembre 2000

28 novembre 2000
Da: Antonio Spadaro <spadaro.a@gesuiti.it>
A: Enrico Palandri <ucljpal@ucl.ac.uk>

Caro Enrico,

per rispondere alla questione che mi poni credo di poter usare una immagine,
per quanto imperfetta: l'immagine di quei puntini che trovi in giornali tipo
«la Settimana Enigmistica». La vita è piena di quei puntini che presi in sé
sono separati, distanti, anche insignificanti. Tuttavia se li numeri e li
congiungi con delle linee puoi trovarti davanti a un disegno comprensibile.
Non è un disegno che comprendi prima, né durante la congiunzione dei punti.
Lo percepisci solo alla fine. Si tratta di una immagine un po' lacunosa,
tuttavia mi aiuta a dire ciò che penso. I momenti della vita possono essere
realmente frammentari e contraddittori. Occorre avere il coraggio di
assumere ed accettare questa contraddizione che può essere ricchezza, è
vero, ma che a volte può voler dire insignificanza, fatica di comprensione,
incertezza. Ciascuno non è mai fino in fondo identico a se stesso (o almeno
al modo in cui si percepisce). Ma altro è dire che l'io è inesauribile
ricchezza e non è mai statico e ingessato (l'io è sempre altro…), altro è
dire che io non sono e ci sono tanti piccoli frammenti (io è sempre nessuno
e insieme centomila). In questo caso si avrebbe solo il trionfo delle
maschere. Parlare, come fai tu, di «pluralità dell'io» in fondo mi sta anche
bene.

A volte una vita umana attraversa contraddizioni. Spesso la stessa
«conversione» è vissuta come contraddizione: c'è un «prima» e un «dopo»
senza appello. Ciascuno vive un'esperienza diversa al riguardo e uno
percepisce in maniera più forte le differenze, l'altro le sfumature
(personalmente mi ritrovo più nel secondo caso).
Veniamo a Tondelli.
Tondelli, a mio giudizio, ha «sempre» vissuto una tensione dialettica tra
fuga e ritorno. Le due dimensioni sono come costitutive della sua
personalità di uomo e di scrittore (a noi interessa soprattutto la seconda).
Leggere Altri libertini come il libro della fuga sic et simpliciter, a mio
parere, sarebbe errato: c'è infatti in quelle pagine un bisogno disperato di
ambiente caldo, liquido, protettivo, solidale… l'Annacarla, il salotto dei
libri, i «beveraggi», il «postristoro» (luogo di fuga, ma anche di
«riparo»). Dunque non credo sia possibile «contrapporre» o «giustapporre»
fuga e ritorno. Semmai ci sono momenti di diversa accentuazione. È chiaro
che in questi termini ogni ritorno così inteso non è mai un'espressione di
conservatorismo o un tornare indietro puro e semplice. È rispondere, alla
luce delle spinte propulsive, ad esigenze «altre» che si scoprono dentro di
sé. E qui vedo dialettica, ma anche grande coerenza con le proprie esigenze
interiori.

La correzione di Altri libertini può essere intesa anche in questo senso.
Ogni autore ha un rapporto «organico» con la sua opera. Essa è consegnata a
noi come lettori e noi ne disponiamo liberamente. Tuttavia egli ha il
diritto di confrontarsi con la propria opera, di accettarla, rifiutarla,
correggerla,… Noi abbiamo il diritto di sapere com'è andata, quali sono le
differenti versioni, certo. Ma non possiamo impedire questo confronto
serrato. Tra gli ultimi suoi appunti ho trovato questa frase scritta alle 4
del mattino: «quello che il destino mi ha poi riservato non è stato tanto,
come avrei creduto, un percorso, o forse una evoluzione verso l'assoluto
della scrittura […] quanto un ritorno rovente al mondo del mio primo libro
al punto da dividere […] coerentemente alla mia natura di scrittore la
stessa purtroppo vera e ora sì reale, vissuta, sorte tanatologica». È un
appunto che usa la parola «ritorno», ma in un senso che mi ha fatto molto
riflettere…
Infine un altro appunto (nel mio libro pubblico la copia anastatica di questi
fogli): «La letteratura non salva, mai […]». Questa espressione è sì una
frattura, una scissione, una «con- (o div-) versione». Cocteau aveva scritto
una cosa del genere a Maritain. Qui hai ragione a parlare di disomogeneità,
vista la radicalità della affermazione. Tuttavia questa affermazione si basa
sul «ritorno» alla fuga che era propria di Altri libertini, con cui alla
fine Tondelli sente di condividere la stessa sorte «ora sì reale, vissuta».

Alla luce di queste parole la letteratura mi appare tanto ricca quanto nuda.
Non «debole» (tutt'altro…), ma «povera», in ricerca di senso più che
moltiplicatrice di senso: più questuante che borsistica…

Ciao
Antonio

 

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Giugno 2001, n. 1