Lou Burnard
Dalle «due culture» alla cultura digitale: la nascita del demotico digitale

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Sommario
I.   Le «due culture»
II.  Invocando la macchina
III. Che cos'è l'informatica umanistica?
IV. Verso l'edizione non-critica


§ II. Invocando la macchina

I. Le «due culture»

Traggo il titolo da un episodio singolare che ebbe vasta eco nella vita accademica inglese, una di quelle pubbliche esplosioni di rancore che di tanto in tanto scuotono la quiete dell'accademia. Nel 1959 Sir Charles Percy Snow, allora noto romanziere ed ex-politico, fu invitato a tenere una conferenza a Cambridge, dal titolo: The two cultures and the scientific revolution. In essa Snow avanzò la tesi che la vita culturale inglese fosse caratterizzata da un contrasto impari tra le scienze e le lettere, e dal canto suo si schierava dalla parte delle prime. La conferenza era basata su un articolo che Snow aveva pubblicato pochi anni prima nel «New Statesman»,1 ma dopo la lettura il testo cominciò ad avere una vita autonoma, essendo stato ristampato nell'«Encounter»2 e in volume, dove ebbe sette edizioni, fino al 1961, anno in cui, a quanto sembra, «capitò sotto gli occhi» del grande critico umanista F.R. Leavis. In una conferenza ristampata come articolo nello «Spectator» con il titolo Two cultures? The significance of Ch.P. Snow,3 e ripresa in seguito in una raccolta dal titolo Nor shall my sword,4 Leavis attaccò Snow e tutte le sue opere con un astio e una dose di animosità personale difficili da comprendere: «È assurdo attribuire a Snow la capacità di meditare con serietà sui problemi riguardo ai quali si propone di dare consigli al mondo». Sebbene Leavis potesse avere ragione, l'opinione di tutti gli scrittori da strapazzo del momento (che alla luce della controversia successiva fa molto sorridere) fu che Leavis non si era espresso con correttezza. Perfino a un personaggio come Donna Edith Sitwell (certo poco compiacente con le anticamere del potere) fu sentito dire che «il dottor Leavis ha attaccato Charles soltanto perché è famoso e scrive in buon inglese».
In realtà l'argomentazione di Snow sulle due culture non si fonda su un'analisi approfondita. Il tono fluttua in modo sconcertante tra il facile aneddoto e l'incitamento apocalittico all'azione. Snow rileva «un abisso di reciproca incomprensione»5 tra «intellettuali letterati» (fatti coincidere poco dopo con la «cultura tradizionale») e scienziati, ma precipita nell'abisso della sua stessa ignoranza circa i progressi della formazione scientifica in Unione Sovietica, Stati Uniti ed Europa. Demonizza il primo tipo di tradizione intellettuale, definendone i rappresentanti «per natura "luddisti"», «politicamente non soltanto ottusi, ma addirittura scellerati», mentre elogia acriticamente il secondo tipo, perché «gli scienziati hanno il futuro nel sangue».6
Ecco un esempio della sua argomentazione per aneddoti: a un ricevimento di letterati, Snow scopre che nessuno, eccetto lui stesso, è in grado di spiegare la seconda legge della termodinamica: «Eppure domandavo qualcosa che è pressappoco l'equivalente scientifico di: "Avete letto Shakespeare?"».7 Paragone che Leavis giustamente mette in discussione: in un caso si tratta di una conoscenza specialistica applicabile in certi contesti, mentre nell'altro si apre una finestra sull'animo umano. Curiosamente quattro anni dopo, nella decima ristampa del saggio, rivista da Snow, il termine di paragone è divenuto la «biologia molecolare», fatto che deve aver irritato non poco tutti i letterati che si fossero lasciati convincere dagli argomenti di Snow a ripassare nel frattempo la termodinamica, per poi scoprire che aveva cambiato le carte in tavola.
Sembra evidente che il peccato imperdonabile per il quale Leavis attaccò Snow fosse che Sir Charles rappresentava un tipico esempio della tendenza a banalizzare la cultura riducendola a una forma di intrattenimento. Non che l'intrattenimento sia un male, ma l'alta cultura è un'altra cosa. Confonderle conduce necessariamente al degradamento dell'arte, e non alla nobilitazione dell'intrattenimento. Per Leavis, un critico tra gli altri, simile degradamento è imperdonabile.
Ad un livello più profondo, le posizioni di Snow sono radicalmente materialistiche e anti-individualistiche - cosa che le rende ancora più irritanti. Il suo metro per il successo sociale è il «tenore di vita» (che egli chiama «jam tomorrow»): cultura artistica e cultura letteraria sono semplicemente accessorie e non procurano alcuna comprensione profonda né stimolo morale; le sue sole preoccupazioni di rilievo sono come promuovere l'incremento, e quindi l'effettiva distribuzione, delle ricchezze del mondo - problemi del tutto estranei a quelli che egli ritiene essere gli interessi della cultura. Punto di vista che appare singolarmente ristretto. Come dice Leavis: «la conclusione è che se tu insisti sulla necessità di qualunque progetto di altro genere, che richieda lungimiranza, interventi e provvedimenti per il futuro dell'umanità o qualsiasi altro tipo di preoccupazione che non sia esprimibile in termini di produttività, tenore di vita materiale, progresso igienico e tecnologico, allora sei un luddista».
Le argomentazioni di Leavis ci ricordano che (almeno secondo la sua definizione) la scienza è amorale. Il suo ambito di applicazione è la determinazione dei mezzi, la sua debolezza è l'impossibilità di aiutarci a identificare i fini. Come Blaise Pascal aveva notato, parecchi secoli prima, «nei giorni di afflizione, la scienza delle cose esteriori non varrà a consolarmi dell'ignoranza della morale; ma la conoscenza della morale mi consolerà sempre dell'ignoranza del mondo esteriore».8

Per una curiosa ironia, nel 1882 anche Matthew Arnold aveva tenuto una Rede Lecture a Cambridge, pronunciandosi a sua volta sull'argomento delle due culture in una conferenza intitolata Literature and Science,9 ma esprimendo un punto di vista quasi del tutto opposto a quello di Snow. Il famoso saggio di Arnold fu concepito originariamente come una risposta all'affermazione di T.H. Huxley, riportata da Arnold, secondo la quale «allo scopo di conseguire una vera cultura, una formazione di tipo esclusivamente scientifico è almeno altrettanto efficace di una di tipo esclusivamente letterario». Con grande abilità retorica il saggio ribadiva la convinzione della dominante ideologia vittoriana circa la necessità degli studi letterari e classici (in particolare greci) come espressione e realizzazione al tempo stesso dei caratteri e dei desideri innati dell'umanità. Per Arnold le «humanæ letteræ» - «ciò che di meglio è stato pensato ed enunciato al mondo» - «possiedono un'energia fortificante, edificante, stimolante e suggestiva che può aiutarci mirabilmente a mettere in relazione i risultati della scienza moderna con il nostro bisogno di una guida, con il nostro bisogno di bellezza».
La contrapposizione riproposta da Snow ci appare ora tanto profondamente radicata nel suo tempo (i primi anni Sessanta) almeno quanto quella di Arnold nel proprio.
Rileggere Snow e Leavis mi ha fatto tornare in mente fino a che punto le loro posizioni fossero ormai istituzionalizzate, come dimostra, per esempio, il fatto che a una certa età dovetti scegliere tra le «lettere» e le «scienze» (nella mia scuola, dove il preside chiamava abitualmente gli studenti di scienze del sesto anno «beaker boilers» (bollitori di alambicchi), la scelta non era difficile, sebbene mi sia sempre dispiaciuto di non aver potuto intraprendere lo studio della chimica, proprio quando stavo cominciando ad afferrarne i principi fondamentali). Rileggere Arnold invece mi ha fatto riconsiderare gli interessi profondamente morali del grande pensatore vittoriano la grande influenza che essi continuano a esercitare sui nostri principi fondamentali riguardo alla società e al benessere sociale e come sia difficile riaffermare quei valori di fronte all'incuria, all'indifferenza, alla negazione o all'aperta ostilità. Negli ultimi trent'anni le certezze di Arnold e Leavis sono state quasi del tutto dimenticate - e meritatamente, in quanto sono ridotte alle formule con cui le propinano i baroni delle lettere e i politici; ma vorrei sostenere che l'insistenza di Arnold sull'esistenza di valori culturali, siano essi basati o meno su principi morali, è tale che non possiamo ignorarla. E vorrei anche sostenere che è nell'operare la transizione da queste «due culture» alla «cultura digitale» che noi possiamo riscoprire i valori culturali, in una forma più adeguata al nostro mondo decentrato, frammentato e indeterminato.

 

§ III. Che cos'è l'informatica umanistica? Torna al sommario dell'articolo

II. Invocando la macchina

Prima di tutto vorrei riscrivere la storia. Un risarcimento per l'avvicinarsi della vecchiaia è avere il permesso di riscrivere la storia, e a 55 anni non vedo il motivo per non farne uso. Il primo ambiente elettronico che incontrai, a metà degli anni Settanta, era, com'è ovvio, tecnologicamente molto diverso da quelli di oggi. Non intendo tediarvi parlando ora di schede perforate, telescriventi o macchine da scrivere, né metterò a confronto George III, con i suoi 64 kword di memoria, con i megabyte dei dischi condivisi in una dozzina di sessioni di Windows 2000, i gigabyte di RAM e i terabyte di memoria di massa che ho tutti a mia disposizione. Non mi soffermerò nemmeno sulla differenza tra la competizione per le risorse tra utenti connessi a un mainframe, e l'anarchia distribuita di una rete di utenti sparsi nel mondo, anche se tra i due tipi di comunità sarebbe da mettere in evidenza un'interessante disparità sociologica. Vorrei soffermarmi invece sulla storia dell'informatica umanistica, della quale mi riconosco più o meno contemporaneo.10
Studiando queste risorse abbiamo appreso con piacere che i padri fondatori dell'informatica umanistica furono pragmatisti che risposero entusiasticamente alla nuova tecnologia, rammaricandosi al contempo per i suoi limiti. Quando nel 1949 Padre Roberto Busa prese contatto con l'IBM Italia per chiedere il supporto per la preparazione di un'edizione critica delle opere di Tommaso D'Aquino, non pensò certo di tradire con ciò gli obiettivi accademici tradizionali. Al contrario vide le potenzialità che le nuove tecnologie offrivano per migliorare il perseguimento di quegli stessi obiettivi. Nel caso specifico ciò voleva dire poter lemmatizzare, collazionare e organizzare il lessico di Tommaso, come risulta dalla documentazione scritta ancora disponibile, con maggiore efficienza e su più vasta scala rispetto a quanto non fosse stato possibile fino ad allora. In modo analogo, proprio mentre Snow e Leavis erano impegnati a litigare, Henry Kucera e Nelson Francis intrapresero la creazione del Brown Corpus of Modern English Adapted for the Use of Digital Computers, rispondendo alla necessità di ricorrere a esempi di usi linguistici su una scala che solo la nuova tecnologia poteva fornire. Né l'uno né gli altri cercavano di ridefinire le loro rispettive discipline. In entrambi i casi la tecnologia servì a sostenere e incrementare tradizionali obiettivi accademici come la più ampia condivisione delle informazioni, lo scambio, la creazione di risorse riutilizzabili, il miglioramento della pratica pedagogica, e perfino la salvaguardia di valori culturali.
A parte questi eroici pionieri, si può ragionevolmente affermare che la storia dell'informatica umanistica in Gran Bretagna comincia a metà degli anni Settanta, con la decisione del governo di finanziare prioritariamente l'introduzione di attrezzature elettroniche in tutte le università, sollevando così il dubbio, nelle università (come la mia) in cui prevaleva il pregiudizio umanistico, che tali attrezzature potessero non essere ad uso esclusivo di seriosi individui in camice bianco. Le difficoltà, allora come oggi, erano infrastrutturali: il confine tra le scienze e le lettere era talmente istituzionalizzato, che l'applicazione di qualsiasi tipo di tecnologia da un dominio all'altro non poteva che essere marginale e altamente sospetta. In una situazione come questa il dibattito senza fine sulla disciplinarità, sulla metodologia e su tutta la gamma delle altre questioni puramente contingenti era destinato a dominare. Tuttavia appare anche chiaro che fin dall'inizio il vantaggio principale del computer consisteva nella indubbia capacità di assimilare il testo. Nel 1980 apparvero i primi due libri introduttivi11 in questo campo (se campo vi era): una scorsa all'indice mostra quanto spazio occupavano la quantificazione meccanica dello stile e la creazione di concordanze lessicali, nonché i problemi puramente tecnici su come rappresentare adeguatamente le stravaganze delle lingue e dei sistemi di notazione del mondo antico e moderno. C'era anche un manifesto desiderio di evitare di compromettere eccessivamente la prospettiva umanistica tradizionale con scienze formali esatte come la linguistica computazionale e la logica formale, benché le complesse tecniche statistiche non parametriche portassero evidentemente in questa direzione.
Le linee fondamentali dell'informatica umanistica (in quanto fenomeno sociale), forse perché essa si è autodefinita primariamente in base alla tecnologia piuttosto che alla teoria, sono state influenzate, come il resto della società, dalle oscillazioni del progresso. Ad esempio, con l'apparire dei primi personal computer economici verso la metà degli anni Ottanta si accese un'ondata di entusiasmo (per fortuna di breve durata), nella convinzione che l'uso del computer avesse qualcosa da offrire alla teoria dell'educazione. Allo stesso modo, l'improvviso successo delle reti verso la metà degli anni Novanta suscitò un'ondata di entusiasmo riguardo all'idea che l'uso del computer avesse qualcosa da offrire alle teorie della comunicazione. Ciò non equivale a dire che l'applicazione del computer in quelle discipline sia teoricamente neutrale o priva di effetti, ma semplicemente che in nessun caso tale effetto è specifico per le discipline umanistiche e che, di conseguenza, non ci sono validi argomenti per asserire l'esistenza di una informatica specificamente umanistica.

 

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III. Che cos'è l'informatica umanistica?

Mi sono sempre divertito a sostenere contro Willard McCarty (e altri) che una cosa come l'«informatica umanistica» non esiste: il fatto che io guidi un organismo chiamato Humanities Computing Unit12 sembrerebbe indebolire alquanto la mia affermazione, se non fosse che, evidentemente, l'informatica umanistica esiste quanto meno come fenomeno sociale. Ma se esiste anche altrimenti, trovo degna di nota la frequenza con cui essa si definisce in negativo, come qualcosa di diverso da un'infinità di altre cose che essa potrebbe, presumibilmente, essere. Ecco una breve lista di cose che, stando ad alcuni articoli che ho letto, l'informatica umanistica non è:

  • Linguistica computazionale, intelligenza artificiale o NLP (Natural Language Processing)

  • Analisi di banche dati, analisi dell'informazione, modellizzazione formale
  • Scienza dei computer in generale
  • Uso del computer nelle arti plastiche o creative
  • Analisi su basi statistiche
  • Elaborazione di testi
  • Apprendimento linguistico o didattica assistiti dal computer

A questo punto, ci si potrebbe legittimamente chiedere: che cosa c'è dunque che meriti particolare attenzione nell'applicazione delle tecnologie digitali alle scienze umane? Per porre la questione in modo meno radicale, proverò a immaginare di dover rispondere a qualcuno che apprezzo ma che non sa di poter usare il computer diversamente che per accedere (diciamo) a megabyte di immagini pornografiche. La domanda è: «A che serve questa tecnologia nel mio lavoro accademico?». Ed ecco alcune risposte che non mi vergognerei di offrire. Forse voi ne potete trovare altre.

  • L'uso del computer offre uno strumento di comunicazione che accorcia le distanze tra le strutture sociali tradizionali in modo imprevedibile, a volte esasperante, ma generalmente benefico. A titolo di esempio, citerò i numerosi progetti di ricerca costituitisi grazie a Internet che altrimenti, molto semplicemente, a causa degli inconvenienti legati alla dispersione geografica non avrebbero potuto raggiungere una incidenza altrettanto significativa.

  • I sistemi digitali promuovono, incarnano e sostengono una visione frammentata, non-lineare, decentrata del testo e della testualità che sembra sorprendentemente congruente con l'attuale riflessione su questi fenomeni: non pretendo di valutare quale sia la causa e quale l'effetto, ma le prospettive culturali correnti sono costitutivamente digitali. Se una prova dovesse essere addotta, indicherei uno qualunque delle centinaia di siti accademici presenti sulla rete.

  • In correlazione forse con il punto precedente, si potrebbe dire che il computer offre a tutti coloro che si interessano del linguaggio in quanto tale strumenti incomparabilmente migliori di quelli di cui abbiamo potuto finora disporre. In particolare, tali strumenti consentono nuovi tipi di evidenze, e nuovi metodi per la loro valutazione e inclusione nella pratica didattica linguistica. Soprattutto in Europa, dove il plurilinguismo è tra i maggiori obiettivi politici, ciò significa che le tecnologie di elaborazione linguistica sono centrali tanto per i propositi statali, quanto per quelli accademici.

  • Infine, ricorderei che le tecniche digitali ci offrono un mezzo universale ed economico per descrivere, distribuire e analizzare ogni tipo di prodotto culturale preesistente. Se noi, nell'Accademia, non porteremo la nostra competenza in questi campi, pensiamo seriamente che altri si tratterranno dal farlo? O che saremo soddisfatti dei risultati?

Che siate o meno d'accordo sul fatto che le tecniche e le metodologie digitali abbiano da offrire qualcosa alle discipline umanistiche, è chiaro però che esse non intendono farsi da parte. Ed è anche chiaro che la natura interdisciplinare dell'informatica umanistica ha implicazioni molto problematiche per le strutture amministrative delle università europee, altamente disciplino-centriche.
C'è molta preoccupazione riguardo alla necessità di fornire alle prossime generazioni di studiosi umanistici le competenze che li rendano in grado di prender parte efficacemente a ciò che Bruxelles ama chiamare la nuova Società dell'Informazione; in particolare c'è molto scetticismo (spesso giustificato) riguardo alla capacità delle attuali strutture burocratiche di adattarsi a questa necessità. Spesso tale scetticismo è ritenuto (e talvolta a ragione) una forma di luddismo amministrativo guidato da un antiaccademismo populista, ma ciò non favorisce la sua eliminazione. Potrebbe essere una risposta più creativa l'affrontare apertamente la questione implicita di questo dibattito e proporre una riorganizzazione delle tradizionali discipline umanistiche. Queste ultime potrebbero trarre vantaggio dalle opportunità offerte dalle nuove tecnologie, fornendo una risposta articolata alle sfide insite nelle applicazioni di tali tecnologie alla società nel suo complesso, pur rimanendo al contempo fedeli alle proprie prospettive originarie. Questo è un compito che trascende i limiti di questo intervento, ma vorrei compiere qualche passo verso una specificazione di alcuni degli elementi di una possibile riorganizzazione.
Potremmo cominciare ricavandone alcuni dalle tendenze in corso nella creazione, nel consumo e nella distribuzione degli artefatti che hanno già compiuto la transizione ai media digitali o stanno cominciando a compierla. Dovremmo domandarci come le strutture esistenti possano affrontare l'enorme espansione del numero di coloro che sono in grado di accedere a una altrettanto enorme quantità di artefatti culturali primari e sono ansiosi di comprenderli; dovremmo anche domandarci come esse affronteranno una sempre maggiore differenziazione degli utenti (in termini di linguaggio, età, ceto sociale e altri fattori) e del tipo di risorse. E dovremmo domandarci se le strutture esistenti possano preparare adeguatamente coloro che devono imparare a fare i conti con un mondo digitale frammentato nel quale tutto può essere connesso, ma in cui il senso di ciò che è connesso deve essere impresso dall'interno.
Essendo inguaribilmente ottimista, credo che in questo mondo le tradizionali competenze umanistiche stiano diventando non sempre meno, ma sempre più preziose, anche se non possiamo dare per acquisito che sia facile applicarle. Pensate, tanto per fare un esempio banale, quanto incitiamo gli studenti a citare le fonti, a mettere in discussione le asserzioni semplicistiche, a cercare prove indipendenti che si corroborino vicendevolmente, a fare poco affidamento sui valori di facciata, a discernere in modo imparziale tra le prove documentali disponibili. Quali tecniche devono apprendere gli studenti per mantenere lo stesso atteggiamento intellettuale nel mondo digitale? Mi sembra che dovrebbero sapere come e da chi è costruito il mondo digitale, molto di più di quanto non sappia correntemente la maggior parte di essi, eccezioni a parte. Abbiamo bisogno urgentemente di approntare nuovi strumenti per analizzare e comprendere la demografia e la sociologia della cultura digitale, adeguati alla prossima fusione dei media.
Allo stesso modo, da un opposto punto di vista, poiché il mondo digitale aumenta a dismisura l'accesso a fonti primarie non mediate (o almeno a una loro simulazione), bisognerà rendere accessibili a un numero molto maggiore di persone le tecniche esoteriche sviluppate nel corso dei secoli allo scopo di contestualizzare e dunque comprendere tali fonti. Abbiamo bisogno urgentemente di sviluppare nuovi metodi di elaborazione e di interpretazione dei testi, adeguati al prossimo diluvio digitale.

 

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IV. Verso l'edizione non-critica

Le tradizionali lauree specialistiche in ambito umanistico hanno sempre combinato formazione metodologica e formazione ermeneutica: generazioni di Dottori di ricerca di Oxford hanno dovuto imparare tanto come i libri erano stampati quanto che cosa vi era stampato. E il prodotto finale di un dottorato è tradizionalmente un ennesimo libro che si aggiunge agli altri, pronto per essere interpretato dalle generazioni a venire. Attualmente, ammesso che l'informatica umanistica entri in tali corsi di studi, essa si inserisce nella parte metodologica, con l'ovvia conseguenza che, se pur ci si dedica alle implicazioni della digitalizzazione, lo si fa da un punto di vista puramente pragmatico privo di ragioni teoriche. Ma c'è una teoria che potrebbe aiutarci: come Robinson, McGann e tanti altri hanno sottolineato più volte, la preparazione di un'edizione digitale ha molti più elementi in comune con una tradizionale edizione critica che con la preparazione di un'edizione facsimile. Lasciatemi esprimere il mio profondo sconforto per la mole di sforzi che vengono correntemente dispersi nella preparazione di facsimili digitali, non controbilanciati da alcun progetto di ampia portata riguardo alla codifica digitale vera e propria. Vorrei proporre un ordine del giorno alternativo, che si potrebbe intitolare Verso l'edizione non-critica. Un'edizione non-critica è un'edizione che tende non a redimere una controversia, ma a provocarla. Chiama all'esercizio di una ricomprensione profonda del fare edizioni critiche e filologia del testo, applicandole in un contesto nuovo. Fa uso degli strumenti e delle tecniche che abbiamo messo a punto in trent'anni di applicazione dei computer all'elaborazione del linguaggio umano per problematizzare la testualità su cui un'edizione critica tradizionale tende a sorvolare. La sua creazione implica, perciò, una sinergia feconda di riflessioni provenienti dalla semiotica, dalla critica testuale e dall'ermeneutica.
Mi sento incoraggiato nel ritenere che si tratti di un progetto realizzabile dai pronunciamenti di coloro che ne hanno fatto la propria professione. La discussione sulla testualità elettronica sta diffondendosi sempre più, non solo tra i pionieri e gli specialisti (Bolter, McGann, Robinson), ma anche tra altre figure cardinali nell'ambito della professione dell'edizione testuale. Così ad esempio Leah Marcus, raffinato editore di opere del XVII secolo, scrive: «imperniare un'edizione sulle differenze e sull'instabilità del testo significa corrispondere a una serie di paradigmi che hanno di recente ridefinito il testo […] il migliore formato per una rappresentazione di questo tipo è l'edizione online».
Nell'introduzione a un recente numero speciale di «LLC»13 Peter Robinson distingue tre tipi di edizione elettronica. Il primo, di cui egli cita come esempio il proprio progetto in corso sui Canterbury Tales, è il tipo dell'archivio digitale, al quale siamo sempre più abituati. Ci delizia per la facilità, mai prima offerta al lettore, di avere accesso indistintamente a tutti i testimoni disponibili di un testo, senza privilegiarne a priori nessuno. Conferisce una maggiore autorità al lettore, che deve formulare il proprio personale giudizio sul testo in base alle prove empiriche presentate da un medium apparentemente neutrale. Il secondo tipo, di cui egli cita come caso esemplare la nuova edizione di Dante, ricorda un'edizione tradizionale in cui si stabilisce coscienziosamente un testo autoriale originario attraverso complessi procedimenti di edizione; in questo caso il grande contributo offerto dal mezzo elettronico è rappresentato dalla grande raffinatezza e complessità dei metodi attraverso i quali il testo può essere costituito: ciò nondimeno esso rimane pur sempre un prodotto riconducibile a quelle stesse tradizioni filologiche alle quali siamo abituati. Mi piacerebbe infine raccomandare, concludendo, il lavoro di Parker e Watchel sul Nuovo Testamento greco, che per Robinson rappresenta il terzo tipo di edizione. Testi come il Nuovo Testamento sono davvero il prodotto di secoli di riscritture e di riletture, e la loro edizione richiede quindi non solo la presentazione di molte centinaia di versioni del testo, ma anche una spiegazione e una guida sulle modalità con cui i diversi testi e letture hanno interagito per produrre le versioni che sopravvivono. Questo tipo di edizione risponde a chiari intenti di edizione: presenta una lettura della storia di un testo, e in tal senso è una visita guidata con scopi quasi-etici; allo stesso tempo rifugge da affermazioni definitive su ciò che il testo effettivamente è di là dalla storia della sua ricezione, e in questo senso è amorale o «scientifica».
Vorrei ancora suggerire che il computer possa facilitare, nelle nostre ricerche sulla testualità, una prospettiva archeologica. L'archeologo si interessa ai dati non come oggetto in se stesso, ma per le inferenze che possono esserne tratte al servizio del compito dell'archeologia, che consiste nella spiegazione dello sviluppo culturale di dati popoli. Allo stesso modo, il filologo digitale si occupa di testi non in quanto sequenze di grafemi, ma come un sistema composto di molti altri sistemi (grafemici, semiotici, sociali, ecc.), dai quali possono essere ricavate nuove spiegazioni e nuovi valori culturali. Secondo le parole di Umberto Eco, «un testo […] è una macchina concepita per suscitare interpretazioni».14 Negli anni Ottanta c'era chi credeva che il computer potesse facilitare la produzione di queste interpretazioni in modo non mediato dall'intervento umano, nonostante le dirompenti contestazioni di tale idea, ad opera di studiosi come, tra gli altri, Stanley Fish.15 Oggi più facilmente osserviamo che, se indubbiamente il computer favorisce la produzione di grandi quantità di informazioni, dato che una maggior quantità di dati necessita di essere interpretata, la sua massima forza risiede probabilmente nel registrare queste interpretazioni. Il che, in definitiva, è la stessa cosa, giacché ogni spiegazione genera altre spiegazioni nel continuo circolo ermeneutico.

In conclusione, torno alla questione del giudizio di valore in letteratura da cui siamo partiti. Che posto può esserci per il tipo di valori culturali propugnato da Arnold, in un mondo di rivalutazioni senza fine? Northrop Frye,16 come è noto, ha screditato l'idea dell'opera letteraria come «torta» che l'autore «diligentemente farcisce con un certo numero di bellezze ed effetti» affinché il critico li possa far saltar fuori come Little Jack Horner. Frye definisce questa posizione come «la più sciatta ignoranza che l'assenza di una critica sistematica abbia originato». Per sistematica ritengo che Frye intendesse una poetica che cerchi di «descrivere le convenzioni e le strategie di un'opera letteraria». Ma da dove può giungere una simile poetica, se non da una comprensione ravvicinata dei meccanismi attraverso i quali si ottengono, ad esempio, gli effetti letterari - una comprensione che può essere raggiunta soltanto attraverso una lettura ravvicinata dei testi - e dalle riletture dei testi che costituiscono la storia culturale?
Wayne Booth17 opera un'utile distinzione, tra «comprensione» (understanding) e «sovracomprensione» (overstanding). Nel caso del «C'erano una volta tre piccoli porcellini», comprendere consiste nel porre le domande che il testo prevede e che il testo «insiste» (Culler) a farsi chiedere - come ad esempio: «che cosa avvenne dopo? Come riuscì a trionfare il terzo porcellino?» - mentre «sovracomprendere» implica il porre domande che il testo non sollecita direttamente, come ad esempio «perché tre?», o «perché porcellini?». Queste ultime domande possono essere molto produttive. In realtà quasi tutte le forme più interessanti della critica moderna non prendono in considerazione ciò che il testo espone, ma ciò che il testo nasconde, non ciò che dice, ma ciò che è sottointeso. Discutendo questa distinzione Culler rileva: «Proprio come la linguistica non cerca di interpretare le frasi di un linguaggio, bensì di ricostruire il sistema di regole che lo costituiscono e lo rendono in grado di funzionare, […] sovracomprensione è un tentativo di mettere in relazione un testo con i meccanismi generali della narrativa, della figurazione, dell'ideologia, e così via».18
Il pericolo evidente, nell'applicazione di questa «sovracomprensione», è, per dirla con parole semplici, sapere quando fermarsi. Come rileva Morris Zapp, nel romanzo di David Lodge, Small World:19 «capire un messaggio vuol dire decodificarlo. Il linguaggio è un codice. Ma ogni decodifica è un'ulteriore codifica». L'intento di Lodge è satirico, ma esprime una preoccupazione del tutto reale riguardo ai limiti di interpretazione che merita una risposta. Ecco l'opinione di Eco: «Nonostante le ovvie differenze nei gradi di certezza e incertezza, ogni rappresentazione del mondo (si tratti di una legge scientifica o di un romanzo) è un libro aperto, di diritto, a ulteriori interpretazioni. Ma alcune interpretazioni possono essere ritenute infelici perché sono come un ibrido, cioè non sono in grado di produrre nuove interpretazioni, o non possono essere confrontate con le tradizioni delle interpretazioni precedenti».20
Con questa risposta, fornita a un convegno su Interpretation and Overinterpretation, tenutosi a sua volta a Cambridge, Eco ci dà, io credo, un'utile indicazione riguardo al metodo attraverso il quale reintrodurre una sorta di certezza arnoldiana nel mondo. Se alcune interpretazioni sono più «felici» di altre, non abbiamo forse fondate ragioni per preferirle? E in che cosa consiste questa «felicità»?
Eco continua: «La forza della rivoluzione copernicana non è solo dovuta al fatto che essa spiega alcuni fenomeni astronomici meglio della tradizione tolemaica, ma anche nel fatto che - invece di dipingere Tolomeo come un pazzo bugiardo - spiega perché e su quali basi egli fosse giustificato nel delineare la sua interpretazione». Ossia - se posso parafrasare il maestro - è di sicuro preferibile un'interpretazione che chiarisce non solo fenomeni prima inesplicabili, ma anche precedenti spiegazioni meno soddisfacenti, rispetto a una che non lo fa. È, forse, in base a tale affermazione sul maggior valore di un più profondo potere esplicativo che possiamo in definitiva reintrodurre un senso di valore nei nostri percorsi interpretativi, e riscoprire «il nostro bisogno di una guida, il nostro bisogno di bellezza».

[Traduzione di Federico Pellizzi]

 

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Giugno 2001, n. 1