Silvia Bellotto
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L'intera mia opera avrei dovuto distruggere, a tal punto insufficiente e marginale e vile è rispetto a me stesso. Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certo modo, di rappresentare.
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Se sostenere la tesi della marginalità in riferimento ad uno scrittore come Tommaso Landolfi, che si definiva «la cipolla fatta solo di spoglie», «il tipico minore»,1 equivalesse semplicemente ad assecondare la sua inclinazione ad indossare la maschera dell'autodenigrazione e dell'autoesclusione, ciò significherebbe di certo non avere colto l'importanza di tale tipo di affermazioni rispetto alla novità rappresentata dall'opera landolfiana. Al fine di riscattare il margine da sguardi pregiudizievoli e declassanti e di conferire ad esso una piena dignità, giova, infatti, considerare che, dal punto di vista delle astratte categorie di genere, l'itinerario artistico landolfiano è privo di una definizione esaustiva: il suo essere permanentemente in bilico tra più sistemi letterari denota una condizione, non tanto di marginalità, quanto di liminarità. «Eccentrico ottocentista in ritardo», come lo definì Contini, Landolfi è uno di quegli scrittori la cui l'inquietudine esistenziale si rispecchia narcisisticamente in un'ardito sperimentalismo stilistico che, rifrangendosi ecletticamente nelle forme del racconto, della poesia, della sceneggiatura teatrale, dell'elzeviro, della traduzione e del diario, assume la tecnica del travestimento polimorfico finalizzato ad una precisa operazione di diversione da un supposto centro, luogo di convergenza di convenzioni inossidabili, fulcro e perno di un ordine sistematico e aprioristicamente definito. La scrittura landolfiana è una scrittura di confine, pertanto intrinsecamente dialogica, plurima, allusiva, digressiva, consapevole della propria insufficienza. Non si trascuri che per Landolfi «insufficienza» è un concetto determinante, per la cui mediazione diventa giustificabile e praticabile la corrosione dei modelli canonici della letteratura nel momento stesso in cui se ne sancisce l'«impossibilità».
II. Autobiografismo e crisi del soggetto
Uno degli oggetti privilegiati di tale operazione dissacrante e corrosiva è il genere autobiografico, nella forma specifica del diario intimo che Landolfi adottò sia come cornice finzionale di taluni suoi racconti, sia come principale modalità scrittoria per lasciare traccia del suo vissuto. Nel primo caso, degno di nota è Cancroregina (1950), un racconto lungo narrato in prima persona e diarizzato nella seconda parte; nel secondo caso sono una eloquente prova di scrittura autobiografica i tre diari, La biere du pecheur (1953), Rien va (1963) e Des mois (1967). Vero è che l'inclinazione all'autobiografismo è in Landolfi qualcosa di congenito: Calvino, nella postfazione dell'antologia landolfiana da lui curata, ha sottolineato come «i rapporti di Landolfi con se stesso, a seguirli attraverso gli scritti, definiscono un egotismo tra i più complessi e contraddittori»,2 e ha significativamente destinato una sezione della raccolta alla tematica complessa dell'intreccio «tra autobiografia e invenzione», ad indicare come in questo scrittore il polo della vita e quello dell'arte siano indissolubilmente legati, sia pure sotto il segno di una nevrosi che indurrà Sanguineti ad enunciare per Landolfi la nota formulazione di «letteratura come morte».
III. Anomalia dei diari landolfiani
Verifichiamo, dunque, in quale misura e secondo quali modalità avviene in Landolfi l'operazione deformante del genere autobiografico, attenendoci, anzitutto, all'analisi delle componenti stilistiche e strutturali che qualificano un testo come testo diaristico. La biere du pecheur, non solo a causa dell'ambiguità del titolo, traducibile per l'omissione degli accenti tonici sia come «bara del peccatore» che come «birra del pescatore», si presenta come l'opera degli equivoci. Indubbiamente come diario, è un diario sui generis. Per quanto la scrittura diaristica possa pervenire ad un massimo di indefinibilità e di aleatorietà poiché collegata alla mutevolezza delle circostanze e all'immediatezza della loro registrazione,7 tuttavia essa è, comunque, soggetta ad un sistema di regole che nell'insieme formano quello che è stato definito da Philippe Lejeune il «patto autobiografico»:8 regole che il congegno testuale di La biere du pecheur sembra violare sistematicamente. Se ciò che qualifica il diario è la «loi de Blanchot», la legge del calendario, secondo cui «il diario vuole radicare il movimento di scrivere nel tempo, nell'umiltà del quotidiano datato e preservato dalla sua data»,9 allora, già solo limitatamente a questo, la Biere non è propriamente un diario, dato che la successione dei frammenti autobiografici è svincolata dalla scansione di una temporalità spazializzata, introducendo il narrato semmai nella dimensione di un tempo assoluto proprio dell'artificiosità letteraria. Se, poi, una qualità saliente del diario è quello di realizzare la massima coincidenza tra il tempo della storia e il tempo del racconto, realizzando una registrazione pressocchè immediata del quotidiano, anche rispetto a ciò la Biere ribadisce il suo carattere di eccezionalità, dato che il tono, talvolta, da diaristico si fa memorialistico, e la successione dei ricordi è interrotta da devianti inserimenti di autonomi brani narrativi, di materiale epistolare e aneddotico, rafforzando l'impressione di una ibrida e casuale eterogeneità, di per sé ammessa dall'informalità diaristica, data la sua prossimità con la caoticità della vita, ma che nel nostro caso ubbidisce, piuttosto, ad una strategia preordinata, come attestano le scrupolose indicazioni che Landolfi lasciò all'editore Enrico Vallecchi.10 Se una delle condizioni della scrittura diaristica è la mancanza di progettualità, qui è, invece, proprio la preliminare strutturazione del materiale a caratterizzare quest'opera destinata sin dall'inizio alla pubblicazione. Il confronto con gli altri due diari landolfiani, Rien va (1963) e Des mois (1967), l'uno infestato di «fogliolini» volanti, l'altro intercalato da strofe poetiche, conferma il carattere programmatico della commistione formale come elemento costante di stile. Si tratta, comunque, di un eclettismo studiatissimo e per nulla arbitrario, di cui cercheremo di fornire la spiegazione ultima nel corso della nostra analisi.11
È da segnalare che Landolfi si è sempre compiaciuto di mascherare la propria identità sotto le mentite spoglie di eteronimi, omonimi e palindromi in segno di ammiccamento, tendenza che potremmo assimilare al concetto di «scomposizione spettrale della funzione dell'io» - «evidentemente una scomposizione immaginaria»14 - su cui insiste Lacan parlando del meccanismo freudiano di identificazione dell'io. Ma qui si tratta di distorcere il ruolo del soggetto all'interno di un diario intimo, ovvero all'interno di un genere che più di tutti gli altri si deve fondare innegabilmente sulla reale identità di chi scrive. Qui l'«io» narrante è diventato l'«io Alessandro dei Tali; e non già il solito personaggio che parla in prima persona».15 Sembra un gioco delle parti in cui, alla stregua degli altri «personaggi» che via via vengono introdotti nel discorso - e si noti che è Landolfi per primo ad adottare per essi il termine «personaggio» - chi dice «io» viene elevato alla condizione di finzionalità, in un movimento dissociativo rispetto al suo autore e segnala che la valenza autenticante del suo ruolo di mediazione della voce narrante è da mettersi in dubbio. A ciò si aggiugano i sospetti sulla sanità mentale del narratore, il quale sostiene che ciò che scrive inclina verso la patologia pura e semplice e che dovrebbe essere oggetto d'analisi psichiatrica, sospetti che accrescono l'incertezza di percorrere il territorio del vero e del reale - e si ricordi che l'«esitazione» per Todorov segnala il dominio del fantastico. A seguito del duplice tentativo di omicidio di cui è stato vittima ad opera dei due personaggi femminili a lui legati sentimentalmente, il narratore arriva ad insinuare che tutto il racconto sia frutto della sua immaginazione:
Il principium individuationis, a cui il genere diaristico è obbligato ad attenersi, si dissolve per lasciare spazio al dubbio e alla contraddizione. Lo spettro della falsità investe non solo il reale, ma anche la scrittura e il soggetto conoscitivo e linguistico. Zanzotto, nell'Introduzione alla edizione del 1989 della Biere, ha affermato che «la realtà di Landolfi è congegnata in modo più che mai sviante, è sfogliabile in innumerevoli pelli e pellicole»:17 tra le pieghe del reale, per Landolfi, si annida l'irreale, il possibile o meglio l'impossibile: la verità per uno scrittore come Landolfi intento a far passare nelle «buie pagine» del suo diario «ciò che non è, niente di ciò che è»,18 è sempre una verità probabilistica, mai certa, è il dubbio elevato a verità del mondo. Si comprende, allora come nei suoi scritti le categorie di falsità e di sincerità siano sempre relativi e interscambiabili. Guido Guglielmi ha opportunamente segnalato, quale aspetto fondamentale della poetica landolfiana, il fatto che «il vero è una figura del falso» e che «il non essere - la precarietà - del mondo si ripercuote sul non essere del narratore».19 In particolare, nella Biere du pecheur, afferma Guglielmi, appare chiaro che «l'identità del soggetto non è meno illusoria di quella dell'oggetto».
Ma non solo: qui è la sparizione del soggetto protagonista e quindi la sua completa divaricazione rispetto al narratore a mettere in crisi l'impianto diaristico del racconto. Giunti all'ultima pagina, infatti, chi scrive afferma:
Remo Ceserani ha notato come non sia casuale l'elevata frequenza con cui il racconto ottocentesco magico-surreale-grottesco ha fatto uso della forma diario, sottolineando come, in genere, il protagonista non si esimi dall'esibire una personalità turbata, e individuando, quindi, un nesso tra crisi dell'io e scrittura dell'io.22 Pensiamo, per esempio, al Diario di un pazzo di Gogol, tra l'altro da Landolfi molto amato. Senza distogliere lo sguardo dall'orizzonte della produzione landolfiana, potremmo ricordare, precedente a Cancroregina, il breve diario fittizio Settimana di sole, un racconto del 1937, che narra la follia visionaria e maniacale del protagonista. Dato che i fondamenti essenziali del diario sono l'identità del soggetto e la successione cronologica, potremmo pensare che a far propendere gli autori di racconti surreali verso la forma diarizzata siano, in primo luogo, la possibilità di sottoporre il soggetto ad un processo di straniamento radicale minandone il fondamento logico della coscienza, e, in secondo luogo, di conseguenza, l'opportunità, proporzionale al grado di follia del narratore, di stravolgere la consequenzialità temporale.
IV. Insidie del linguaggio dell'arte
A quali conclusioni pervenga l'esercizio metalinguistico landolfiano non è arduo dire: alla innegabilità, quasi si direbbe alla greve inevitabilità del carattere letterario della propria scrittura diaristica, alla consapevolezza che l'espressione artistica è irrimediabilmente fondata su un principio di deformazione, e che tale deformazione ostacola, in primo luogo, l'epifania dell'identità profonda e ignota del proprio essere. Landolfi perviene, cioè, a quello che Lacan definisce il «muro del linguaggio».26 Scrive Landolfi nella Biere:
E in altro luogo della Biere si legge:
Il tema della distorsione linguistica, del tradimento dell'io da parte della scrittura continua anche nel secondo diario landolfiano, Rien va, che sin dalle prime pagine sembra preannunciare una delle questioni più urgenti e nodali del libro:
E ancora:
Ricordiamo che l'anelito alla naturalezza e alla spontaneità stilistica rientra costitutivamente nella definizione e nella prassi della forma-diario. Ricordiamo come Rousseau, padre dell'autobiografia classica, negli Abbozzi delle Confessioni si riprometta uno «stile diseguale e naturale», tale da «districare» il «caos immenso» dei sentimenti dell'animo, e dichiari:
Ma per Rousseau l'eterogeneità stilistica si radicava nel principio unitario dell'identità soggettiva:
Egli scrive con il timore non di «dire troppo o dir menzogne, bensì di non dire tutto e di tacere qualche verità»,33 nella convinzione che niente di sé possa rimanere oscuro o nascosto: egli vuole «dire tutto» perché sa di poter «dire tutto» di sé. È il trionfo della soggettività. Rousseau realizzerebbe quello che secondo Maria Zambrano è il fine del racconto autobiografico: «la confessione altro non è che un metodo attraverso il quale la vita si libera dai suoi paradossi e giunge a coincidere con se stessa».34
E certo non è casuale che, recensendo il Journal di Julien Green, Landolfi ne apprezzi in massima misura il suo «essere fatto di nulla», il suo valere per quello che «presuppone o sottende»:36 insomma, per il non detto, le lacune, i vuoti.
La funzione terapeutica del tenere quotidianamente un diario non è di per sé garanzia di completa guarigione: l'effetto «digestivo» che Landolfi attribuisce ai propri diari, così prossimo all'effetto «igienico» di sveviana memoria, non assicura che la «ricerca cosciente di vita e di morte, ricerca di palpiti furiosi»,40 come la definisce ancora Landolfi, abbia un esito positivo. Già nella Biere il narratore, la cui «unica passione» è «non vivere»,41 si identifica in «quelle farfalle notturne sorprese dalla luce o dall'agonia che rimangono a sbattere disperatamente le ali sui nostri pavimenti»;42 mentre ora in Rien va, dopo aver accennato all'«orrore incontrollato della disgregazione fisica»,43 egli scrive che «il Petrarca di sé non dubitò mai, che ebbe in sé di che vivere, che fu in certo modo un dilettante di sensazioni e di aberrazioni, eventualmente di libertinaggio [ ], che ignorò sempre la disgregazione o il principio di disgregazione della personalità ».44 E più oltre:
V. Un nichilismo radicale
Si tratta della fatiscenza, del crollo delle strutture portanti della soggettività. Non è certo una tematica nuova nella tradizione del diarismo novecentesco. Kafka, in questo senso, nei suoi diari, ci ha lasciato alcune delle immagini più intense e sofferte che siano mai state evocate, e proprio per questo è stato assunto dalla critica quale modello dell'autobiografia moderna.46 Tuttavia, è bene notare che in Kafka permane saldo un principio riparativo. Nonostante egli arrivi a percepire quello che lui chiama l'«affollamento nel profondo quasi irraggiungibile con lo sguardo»,47 nonostante avverta la precarietà esistenziale ad un punto tale di vertigine da farlo parlare di sé come di un «reticolato vivente, un cancello che sta ritto e vuol cadere»,48 egli mantiene nel diario una salda fiducia salvifica. In data 19 ottobre 1921 scrive:
Il diario per Kafka è la registrazione di una verità, scaturita dalla sofferenza, è uno strumento euristico che penetra tra le crepe dell'io e ne indaga le possibilità di senso. Ma c'è un altro concetto da evidenziare: quello di costruzione, o meglio di ricostruzione dell'io, concetto in cui, lo abbiamo visto, risiederebbe l'intero significato dell'operazione diaristica. In uno dei suoi Frammenti Kafka annota il principio ispiratore del suo raccontarsi: «Voglio poi costruire me stesso, come uno la cui casa sia pericolante decide di costruirsene un'altra più sicura, lì vicino, magari col materiale di quella precedente».50
Non è la testimonianza di un sopravvissuto intento a ricucire i brandelli dell'esistenza. È un anelito di morte, l'unica speranza essendo rappresentata per Landolfi dal nulla:
Nell'ultimo diario landolfiano, Des mois, ritroviamo alcune delle costanti già messe in luce: ad esempio, la violazione della norma dell'annotazione giornaliera e il soggetto avvertito nella sua indefinitezza e pluralità (non si dimentichi che Des mois significa tanto «dei mesi», quanto «dei me»). Immediata è, soprattutto, l'impressione di assoluta deformità di De mois rispetto ad un presunto canone diaristico, subito tradotta con acutezza da Manganelli nell'immagine di un «aspro coacervo».53 Varrebbe, quindi, la pena riprendere la questione dell'eterogeneità stilistica e compositiva che caratterizza non solo Des mois, ma i diari landolfiani nel loro complesso per approfondire il senso del ricorrente impiego di materiale scrittorio incongruo (abbozzi narrativi, lettere, versi poetici, «fogliolini») rispetto alla diretta registrazione del vissuto. Quale potrebbe essere lo scopo ultimo della commistione formale, così come viene praticata da Landolfi nel contesto di una poetica in cui la compresenza delle questioni dell'artificio e della morte assumono una rilevanza notevole, se non quello di provocare una dilatazione della durata delle cellule temporali in cui è scandito il diario? Come se il pastiche formale trovasse la sua giustificazione ideologica nel sabotaggio della linearità e della scorrevolezza del continuum temporale. Come se, cioè, lo straniamento formale fosse qui impiegato, più o meno consapevolmente, con il preciso fine di straniare la percezione del tempo. È tramite l'artificio letterario che Landolfi realizza la sua «terapeusi del tempo»54 al fine di esorcizzare il fluire irrefrenabile della vita. La morte coinciderà con la fine della scrittura:
L'angoscioso interrogativo del lettore non può non riflettere il disagio complementare dello scrittore intento a chiedersi: «cosa scriverò?»; o più radicalmente: «scriverò?». Persistere nella scrittura diaristica nella consapevolezza della prossimità della morte può significare, allora, l'estremo tentativo di non concludere. Ma anche questo non costituisce affatto un espediente risolutore dato che in Landolfi riscontriamo i segni di un'altra consapevolezza, più amara, più definitiva, relativa allo svuotamento di ogni senso edificante o compensativo interno alla letteratura stessa, la quale non solo si pone come un itinerarium in mortem, ma è l'emblema stesso della morte, la sua presentificazione:
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