Silvia Bellotto
Il diarismo «impossibile» di Landolfi tra finzione e crisi del soggetto.

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Sommario
I.   Marginalità di Landolfi
II.   Autobiografismo e crisi del soggetto
III.  Anomalia dei diari landolfiani
IV.  Insidie del linguaggio dell'arte
V.  Un nichilismo radicale



§ II. Autobiografismo e crisi del soggetto

I. Marginalità di Landolfi

 

L'intera mia opera avrei dovuto distruggere, a tal punto insufficiente e marginale e vile è rispetto a me stesso.
Landolfi, Rien va

Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certo modo, di rappresentare.
Kafka, Diari

 

Se sostenere la tesi della marginalità in riferimento ad uno scrittore come Tommaso Landolfi, che si definiva «la cipolla fatta solo di spoglie», «il tipico minore»,1 equivalesse semplicemente ad assecondare la sua inclinazione ad indossare la maschera dell'autodenigrazione e dell'autoesclusione, ciò significherebbe di certo non avere colto l'importanza di tale tipo di affermazioni rispetto alla novità rappresentata dall'opera landolfiana. Al fine di riscattare il margine da sguardi pregiudizievoli e declassanti e di conferire ad esso una piena dignità, giova, infatti, considerare che, dal punto di vista delle astratte categorie di genere, l'itinerario artistico landolfiano è privo di una definizione esaustiva: il suo essere permanentemente in bilico tra più sistemi letterari denota una condizione, non tanto di marginalità, quanto di liminarità. «Eccentrico ottocentista in ritardo», come lo definì Contini, Landolfi è uno di quegli scrittori la cui l'inquietudine esistenziale si rispecchia narcisisticamente in un'ardito sperimentalismo stilistico che, rifrangendosi ecletticamente nelle forme del racconto, della poesia, della sceneggiatura teatrale, dell'elzeviro, della traduzione e del diario, assume la tecnica del travestimento polimorfico finalizzato ad una precisa operazione di diversione da un supposto centro, luogo di convergenza di convenzioni inossidabili, fulcro e perno di un ordine sistematico e aprioristicamente definito. La scrittura landolfiana è una scrittura di confine, pertanto intrinsecamente dialogica, plurima, allusiva, digressiva, consapevole della propria insufficienza. Non si trascuri che per Landolfi «insufficienza» è un concetto determinante, per la cui mediazione diventa giustificabile e praticabile la corrosione dei modelli canonici della letteratura nel momento stesso in cui se ne sancisce l'«impossibilità».

 

§ III. Anomalia dei diari landolfiani Sommario

II. Autobiografismo e crisi del soggetto

Uno degli oggetti privilegiati di tale operazione dissacrante e corrosiva è il genere autobiografico, nella forma specifica del diario intimo che Landolfi adottò sia come cornice finzionale di taluni suoi racconti, sia come principale modalità scrittoria per lasciare traccia del suo vissuto. Nel primo caso, degno di nota è Cancroregina (1950), un racconto lungo narrato in prima persona e diarizzato nella seconda parte; nel secondo caso sono una eloquente prova di scrittura autobiografica i tre diari, La biere du pecheur (1953), Rien va (1963) e Des mois (1967). Vero è che l'inclinazione all'autobiografismo è in Landolfi qualcosa di congenito: Calvino, nella postfazione dell'antologia landolfiana da lui curata, ha sottolineato come «i rapporti di Landolfi con se stesso, a seguirli attraverso gli scritti, definiscono un egotismo tra i più complessi e contraddittori»,2 e ha significativamente destinato una sezione della raccolta alla tematica complessa dell'intreccio «tra autobiografia e invenzione», ad indicare come in questo scrittore il polo della vita e quello dell'arte siano indissolubilmente legati, sia pure sotto il segno di una nevrosi che indurrà Sanguineti ad enunciare per Landolfi la nota formulazione di «letteratura come morte».
Sono le questioni basilari dell'artificio e della morte a determinare l'originalità del diarismo landolfiano, per intero inscritto nel solco della modernità e per la cui comprensione l'adozione di parametri classici appare impropria. In questo caso sembra che la teoria della letteratura non possa non coniugarsi alle moderne teorie della soggettività e che l'analisi formale non debba perdere di vista il problema dell'identità soggettiva. È opportuno, anzitutto, chiedersi cosa fa della forma diario una forma classica e in che modo essa muti in qualcosa di moderno. Lontanissimo e forse perduto è il tempo in cui Alfieri poteva scrivere il proprio diario «per vedere se in così appannato specchio mirandomi, il migliorare d'alquanto mi venisse poi a riuscire»,3 manifestando nelle potenzialità introspettive e risananti del diario una fiducia sostanzialmente salda, sia pure venata dalla consapevolezza dell'azione deformante della scrittura rispetto ai cangianti contenuti dell'intimità soggettiva. Mentre ora, nell'epoca della modernità, converrà verificare se la scrittura dell'io, non corrisponda, forse, a puntare quell'«appannato specchio» su una soggettività dimezzata, incrinata, dissociata, per prendere atto con sguardo disincantato della frattura dell'Io.
È stato affermato che il presupposto basilare del genere della confessione (ed è indubbio che il diario intimo sia anche una confessione) sia quello di scaturire da una situazione di crisi.4 Lo svisceramento, l'introspezione, l'autoanalisi sfocia in scrittura dell'Io solo nel momento in cui il soggetto si trovi in trappola e si dibatta nel tentativo di una fuga: «nella confessione si manifesta il carattere frammentario della vita, il fatto che l'uomo si percepisca come pezzo incompleto, un abbozzo e niente di più; una parte di se stesso, un frammento».5 Ora, non è probabilmente un caso che Landolfi si affidi a forme più dichiaratamente autobiografiche proprio a partire dagli anni Cinquanta, nel punto cruciale, di passaggio da una fase narrativa fantastica e surreale ad un'altra più dichiaratamente intimistica e confessionale, e che questo coincida con una sperimentazione assidua della forma diaristica: non è forse un caso che Cancroregina, l'opera in cui viene generalmente individuato il punto di svolta («tipico libro di trapasso e di avvio»,6 lo aveva definito Sereni), si presenti in parte in forma diarizzata, e che solo tre anni più tardi si assista all'uscita del primo diario landolfiano, La biere du pecheur. Il punto di trapasso è, quindi, anche il punto di incrocio tra due generi, il racconto e il diario: vedremo fino a che punto il loro condizionarsi reciproco darà forma ad una contaminazione formale, evidente messa in crisi della imperturbabilità dei codici tradizionali .

 

§ IV. Insidie del linguaggio dell'arte Sommario

III. Anomalia dei diari landolfiani

Verifichiamo, dunque, in quale misura e secondo quali modalità avviene in Landolfi l'operazione deformante del genere autobiografico, attenendoci, anzitutto, all'analisi delle componenti stilistiche e strutturali che qualificano un testo come testo diaristico. La biere du pecheur, non solo a causa dell'ambiguità del titolo, traducibile per l'omissione degli accenti tonici sia come «bara del peccatore» che come «birra del pescatore», si presenta come l'opera degli equivoci. Indubbiamente come diario, è un diario sui generis. Per quanto la scrittura diaristica possa pervenire ad un massimo di indefinibilità e di aleatorietà poiché collegata alla mutevolezza delle circostanze e all'immediatezza della loro registrazione,7 tuttavia essa è, comunque, soggetta ad un sistema di regole che nell'insieme formano quello che è stato definito da Philippe Lejeune il «patto autobiografico»:8 regole che il congegno testuale di La biere du pecheur sembra violare sistematicamente. Se ciò che qualifica il diario è la «loi de Blanchot», la legge del calendario, secondo cui «il diario vuole radicare il movimento di scrivere nel tempo, nell'umiltà del quotidiano datato e preservato dalla sua data»,9 allora, già solo limitatamente a questo, la Biere non è propriamente un diario, dato che la successione dei frammenti autobiografici è svincolata dalla scansione di una temporalità spazializzata, introducendo il narrato semmai nella dimensione di un tempo assoluto proprio dell'artificiosità letteraria. Se, poi, una qualità saliente del diario è quello di realizzare la massima coincidenza tra il tempo della storia e il tempo del racconto, realizzando una registrazione pressocchè immediata del quotidiano, anche rispetto a ciò la Biere ribadisce il suo carattere di eccezionalità, dato che il tono, talvolta, da diaristico si fa memorialistico, e la successione dei ricordi è interrotta da devianti inserimenti di autonomi brani narrativi, di materiale epistolare e aneddotico, rafforzando l'impressione di una ibrida e casuale eterogeneità, di per sé ammessa dall'informalità diaristica, data la sua prossimità con la caoticità della vita, ma che nel nostro caso ubbidisce, piuttosto, ad una strategia preordinata, come attestano le scrupolose indicazioni che Landolfi lasciò all'editore Enrico Vallecchi.10 Se una delle condizioni della scrittura diaristica è la mancanza di progettualità, qui è, invece, proprio la preliminare strutturazione del materiale a caratterizzare quest'opera destinata sin dall'inizio alla pubblicazione. Il confronto con gli altri due diari landolfiani, Rien va (1963) e Des mois (1967), l'uno infestato di «fogliolini» volanti, l'altro intercalato da strofe poetiche, conferma il carattere programmatico della commistione formale come elemento costante di stile. Si tratta, comunque, di un eclettismo studiatissimo e per nulla arbitrario, di cui cercheremo di fornire la spiegazione ultima nel corso della nostra analisi.11
Tuttavia è nella trasgressione di una ulteriore condizione - imprescindibile affinchè un testo autobiografico possa definirsi tale - che consiste la più evidente anomalia della Biere. Secondo l'indicazione di Lejeune, infatti, il patto autobiografico deve assicurare, in primo luogo, il lettore dell'identità tra autore, narratore e protagonista: «l'identità è il punto di partenza reale dell'autobiografia».12 E la Biere è sì un diario, almeno nella definizione che ne dà il suo autore, ma un diario romanzato, un diario travestito da romanzo, l'esatto rovesciamento di Cancroregina, racconto travestito da diario. La diarizzazione del racconto e la romanzizzazione del diario si costituiscono come due operazioni speculari e complementari al tempo stesso, nei quali il mondo della finzione si intreccia a quello della realtà, facendo così sbiadire e vacillare qualsiasi principio di veridicità e di autenticazione.
L'adozione della prima persona - forzosa in quanto, scaturirebbe, stando alle parole di Landolfi, dalla frustrazione di una «antica e perenne aspirazione alla terza persona» - sembrerebbe rientrare nella dinamica di un gioco letterario ironico che impiega e imbroglia, come se fossero le carte truccate di un illusionista, le nozioni narratologiche di autore, narratore e personaggio, incrinando il patto fiduciario con il lettore tradito nell'aspettativa di trovare in un diario un'opera fondata sull'autodiegesi. Paradossalmente la Biere è la storia di un personaggio che dice «io» mentre narra le sue relazioni pericolose con tre donne, la sua passione per il gioco d'azzardo e la sua malattia letteraria; ma si tratta di un «io» di nome Alessandro e non Tommaso. Scrive l'autore della Biere:

l'eventuale lettore deve infatti in primo luogo sapere che esso narratore altri non è dal personaggio infinto sotto il nome alquanto paradossale di Alessandro. E la storia di questo Alessandro, alias di me narratore, ossia quella parte della sua storia che riguarda la presente storia, è presto riferita.13

È da segnalare che Landolfi si è sempre compiaciuto di mascherare la propria identità sotto le mentite spoglie di eteronimi, omonimi e palindromi in segno di ammiccamento, tendenza che potremmo assimilare al concetto di «scomposizione spettrale della funzione dell'io» - «evidentemente una scomposizione immaginaria»14 - su cui insiste Lacan parlando del meccanismo freudiano di identificazione dell'io. Ma qui si tratta di distorcere il ruolo del soggetto all'interno di un diario intimo, ovvero all'interno di un genere che più di tutti gli altri si deve fondare innegabilmente sulla reale identità di chi scrive. Qui l'«io» narrante è diventato l'«io Alessandro dei Tali; e non già il solito personaggio che parla in prima persona».15 Sembra un gioco delle parti in cui, alla stregua degli altri «personaggi» che via via vengono introdotti nel discorso - e si noti che è Landolfi per primo ad adottare per essi il termine «personaggio» - chi dice «io» viene elevato alla condizione di finzionalità, in un movimento dissociativo rispetto al suo autore e segnala che la valenza autenticante del suo ruolo di mediazione della voce narrante è da mettersi in dubbio. A ciò si aggiugano i sospetti sulla sanità mentale del narratore, il quale sostiene che ciò che scrive inclina verso la patologia pura e semplice e che dovrebbe essere oggetto d'analisi psichiatrica, sospetti che accrescono l'incertezza di percorrere il territorio del vero e del reale - e si ricordi che l'«esitazione» per Todorov segnala il dominio del fantastico. A seguito del duplice tentativo di omicidio di cui è stato vittima ad opera dei due personaggi femminili a lui legati sentimentalmente, il narratore arriva ad insinuare che tutto il racconto sia frutto della sua immaginazione:

Invero queste due giornate sono inventate di sana pianta. D'altronde è appena necessario avvertirlo, né c'è lettore un po' fine che non se ne avvedrebbe. Beh, inventate non proprio tutte: da un certo limite assai arretrato in qua. Ma a quel lettore medesimo non sarebbe difficile, suppongo, situare questo limite colla sola analisi della scrittura. E come mai ho sentito il bisogno di servirmi di simili invenzioni, per giunta così poco originali? E che intendevo fare, gabellarle per cose vere, e soltanto ora ho cambiato idea? Ma ancora: si tratta appunto di invenzioni o non di immagini fedeli, anzi più vere del vero? A tutto ciò non so rispondere. Io devo ormai essere sincero: non so neppure materialmente, se queste siano invenzioni. (Di più: per quel che mi riguarda quasi mi verrebbe da dubitare della verità, nonchè delle due storielle in parola, di tutto quanto ho raccontato finora.)16

Il principium individuationis, a cui il genere diaristico è obbligato ad attenersi, si dissolve per lasciare spazio al dubbio e alla contraddizione. Lo spettro della falsità investe non solo il reale, ma anche la scrittura e il soggetto conoscitivo e linguistico. Zanzotto, nell'Introduzione alla edizione del 1989 della Biere, ha affermato che «la realtà di Landolfi è congegnata in modo più che mai sviante, è sfogliabile in innumerevoli pelli e pellicole»:17 tra le pieghe del reale, per Landolfi, si annida l'irreale, il possibile o meglio l'impossibile: la verità per uno scrittore come Landolfi intento a far passare nelle «buie pagine» del suo diario «ciò che non è, niente di ciò che è»,18 è sempre una verità probabilistica, mai certa, è il dubbio elevato a verità del mondo. Si comprende, allora come nei suoi scritti le categorie di falsità e di sincerità siano sempre relativi e interscambiabili. Guido Guglielmi ha opportunamente segnalato, quale aspetto fondamentale della poetica landolfiana, il fatto che «il vero è una figura del falso» e che «il non essere - la precarietà - del mondo si ripercuote sul non essere del narratore».19 In particolare, nella Biere du pecheur, afferma Guglielmi, appare chiaro che «l'identità del soggetto non è meno illusoria di quella dell'oggetto».
Anche in Cancroregina, il racconto che precede di poco il primo diario landolfiano, chi narra in prima persona, in stile pseudo-diaristico, insinua il sospetto che il narrato si possa inscrivere per intero nella dimensione dell'immaginario onirico:

Però, a pensarci bene: esistono davvero queste cose che vedo, che mi circondano? Non saranno Filano e tutta questa storia e la stessa Cancroregina soltanto un parto della mia immaginazione alquanta malata? Non mi risveglierò tra amiche braccia, magari a letto con mia moglie?. 20

Ma non solo: qui è la sparizione del soggetto protagonista e quindi la sua completa divaricazione rispetto al narratore a mettere in crisi l'impianto diaristico del racconto. Giunti all'ultima pagina, infatti, chi scrive afferma:

Non ho detto che me lo sentivo? Son morto da due giorni.21

Remo Ceserani ha notato come non sia casuale l'elevata frequenza con cui il racconto ottocentesco magico-surreale-grottesco ha fatto uso della forma diario, sottolineando come, in genere, il protagonista non si esimi dall'esibire una personalità turbata, e individuando, quindi, un nesso tra crisi dell'io e scrittura dell'io.22 Pensiamo, per esempio, al Diario di un pazzo di Gogol, tra l'altro da Landolfi molto amato. Senza distogliere lo sguardo dall'orizzonte della produzione landolfiana, potremmo ricordare, precedente a Cancroregina, il breve diario fittizio Settimana di sole, un racconto del 1937, che narra la follia visionaria e maniacale del protagonista. Dato che i fondamenti essenziali del diario sono l'identità del soggetto e la successione cronologica, potremmo pensare che a far propendere gli autori di racconti surreali verso la forma diarizzata siano, in primo luogo, la possibilità di sottoporre il soggetto ad un processo di straniamento radicale minandone il fondamento logico della coscienza, e, in secondo luogo, di conseguenza, l'opportunità, proporzionale al grado di follia del narratore, di stravolgere la consequenzialità temporale.
Una conferma ci viene dall'analisi del meccanismo testuale di Cancroregina. Abbiamo visto come il pratogonista-narratore, che già aveva dato segni di squilibrio mentale, arrivi ad autoannullarsi. È alquanto significativo che nel momento in cui ciò accade anche il testo in un certo senso si estingua, procedendo a chiudersi a cerchio, a congiungere esattamente la fine con l'inizio, a dare luogo ad una struttura perfettamente circolare, ed eternamente replicantesi. Un'ulteriore contestazione della forma diario, che di per sé non può non assoggettarsi allo scorrere lineare e progressivo del tempo reale. Ed è da notare che anche la Biere, a suo modo, allude ad una circolarità del testo, dato che le ultime parole del diario sono le medesime con le quali Landolfi ha dato avvio al racconto di sé o della maschera di sé. In conclusione Cancroregina e la Biere du pecheur danno forma ad una crisi attraverso una crisi della forma, violando i paradigmi interni di una scrittura autobiografica, fittizia o reale che sia, che a sua volta esprime la destabilizzazione del soggetto raziocinante e scrivente, trascinato via dal cortocircuito della logica e del tempo.
Indubbiamente centrale è il nodo problematico della sincerità e della veridicità, che nella Biere viene connesso alla «sola analisi della scrittura», ad una questione, potremmo dire, di stile. Starobinski, nel suo saggio sullo «stile dell'autobiografia», facendo diretto riferimento alla concezione spitzeriana di stile come scarto dalla norma e affermando che nel genere autobiografico non esiste forma obbligata, enuncia il valore strettamente autoreferenziale del linguaggio utilizzato nella scrittura in prima persona: «Lo stile assume un'importanza che non si limita più alla sola operazione del linguaggio, alla sola ricerca tecnica degli effetti, ma diviene enfaticamente autoreferenziale e tende a rinviare immancabilmente alla verità «interiore» dell'autore».23 Nel Landolfi diarista questa consapevolezza è presente sino a diventare quasi una fissazione divorante e tale per cui l'autoriflessione ricorrentemente si iscrive nel testo nei modi del metalinguaggio: la riflessione sulla scrittura del diario diventa oggetto del diario stesso, che arriva a presentare l'aspetto del diario di un diario, di un'opera colta nel suo farsi. In alcuni casi l'autocommento assume la valenza di un vero e proprio sdoppiamento della personalità, quasi interloquissero due soggetti in disaccordo, l'uno contestando i modi di affermazione dell'altro. «Il soggetto non si confonde con l'individuo»,24 ha affermato Lacan, per spiegare il decentramento dell'uomo post-freudiano: in un processo simbolico inconscio essi, in primo luogo, diventano latori di due linguaggi concorrenziali da armonizzare attraverso l'uso mediatore della parola. E, a proposito di sparizione del soggetto e di metalinguaggio, è opportuno non dimenticare la riflessione di Foucault sul «pericolo che l'esperienza nuda del linguaggio farebbe correre all'evidenza dell'«io sono », per cui «la parola della parola ci conduce attraverso la letteratura, ma forse anche altre vie, a quel di fuori dove sparisce il soggetto che parla».25

 

§ V. Un nichilismo radicale Sommario

IV. Insidie del linguaggio dell'arte

A quali conclusioni pervenga l'esercizio metalinguistico landolfiano non è arduo dire: alla innegabilità, quasi si direbbe alla greve inevitabilità del carattere letterario della propria scrittura diaristica, alla consapevolezza che l'espressione artistica è irrimediabilmente fondata su un principio di deformazione, e che tale deformazione ostacola, in primo luogo, l'epifania dell'identità profonda e ignota del proprio essere. Landolfi perviene, cioè, a quello che Lacan definisce il «muro del linguaggio».26 Scrive Landolfi nella Biere:

fatalmente la mia penna, cioè la mia matita piega verso un magistero d'arte, intendo verso un modo di stesura e di composizione che alla fine fa ai pungni colla libera redazione propostami, e di' pure colla mia volontà di scansar la fatica. Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì almeno da sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me? 27

E in altro luogo della Biere si legge:

Sono stanco di questa mia scrittura, giaccè stile non si vuol chiamare, falsamente classiccheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata e giù con tutte le altre falsità.28

Il tema della distorsione linguistica, del tradimento dell'io da parte della scrittura continua anche nel secondo diario landolfiano, Rien va, che sin dalle prime pagine sembra preannunciare una delle questioni più urgenti e nodali del libro:

E come al solito mentre qui scrivo, tutto si confonde e perde il suo vero carattere, la sua urgenza, a mano a mano che si dispone in un ordine purchessia sulla pagina. Dico che fra tre mesi avrò cinquantanni, e che più di una volta ho voluto cominciare questa specie di diario, un diario (la sola cosa che mi restasse da fare), e che ogni volta sono stato trattenuto sul bel principio dall'insorgere delle abituali preoccupazioni oziose, disposizione degli argomenti, perspicuità del dettato e altri maledetti inceppi della cui oziosità avevo d'altrone piena coscienza, sì che neppure diversione avrei potuto sperare, non che rinnovamento. Camicia di Nesso, una tal letteratura o scrittura che non sa abbandonare i suoi lenocini, o piuttosto i suoi mezzucci, e neanche rinunciare a una vantaggiosa sistemazione tipografica, cioè visiva (delle righe, delle parole sui fogli del manoscritto). Ma come uscirne? E invece io vorrei che questo fosse il libro (il registro) del mio abbandono, il quale (registro) non riguardasse altri che me.29

E ancora:

«L'infelice principio di questo diario mi scoraggia; guarderò d'insistere tuttavia. Nel frattempo esso già tenderebbe (nella mia testa e nei miei fiacchi pensamenti) a prendere una direzione, a ordinarsi, a comporsi, a scegliere gli argomenti. Cercherò d'impedirglielo: l'eterogeneo, l'eteroclito deve invece dominarvi - eppure anche questo è una specie di piano!".30

Ricordiamo che l'anelito alla naturalezza e alla spontaneità stilistica rientra costitutivamente nella definizione e nella prassi della forma-diario. Ricordiamo come Rousseau, padre dell'autobiografia classica, negli Abbozzi delle Confessioni si riprometta uno «stile diseguale e naturale», tale da «districare» il «caos immenso» dei sentimenti dell'animo, e dichiari:

Sullo stile decido come sulle cose. Non mi proporrò di renderlo uniforme; avrò sempre lo stile che mi verrà né avrò scrupoli a mutarlo a seconda dell'umore, dirò ogni cosa come la sento, come la vedo, senza ricercatezza, senza impaccio, senza preoccuparmi dell'eterogeneità.31

Ma per Rousseau l'eterogeneità stilistica si radicava nel principio unitario dell'identità soggettiva:

Mi accingo a un'impresa che non conosce esempi e che non conoscerà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della propria natura, e quell'uomo sono io.32

Egli scrive con il timore non di «dire troppo o dir menzogne, bensì di non dire tutto e di tacere qualche verità»,33 nella convinzione che niente di sé possa rimanere oscuro o nascosto: egli vuole «dire tutto» perché sa di poter «dire tutto» di sé. È il trionfo della soggettività. Rousseau realizzerebbe quello che secondo Maria Zambrano è il fine del racconto autobiografico: «la confessione altro non è che un metodo attraverso il quale la vita si libera dai suoi paradossi e giunge a coincidere con se stessa».34
L'eterogeneità di cui parla Landolfi, al contrario, non può poggiare su una dogmatica coesione armonica dell'io, bensì, semmai, sulla sua labilità. Nei diari landolfiani lo stile dell'abbandono riflette la crisi dell'io, è lo stile di chi ha assunto la piena consapevolezza della moltiplicità delle istanze che governano la propria interiorità inconscia, lo stile di chi sa che «io è un altro» e partecipa dell'essenza del caos. La forma-diario non può non risentire del «disordine» e del «subbuglio» a cui Landolfi non trova soluzione e che lo inducono, piuttosto, ad uno situazione di compromesso, in moto oscillatorio tra attrazione e repulsione. Quanto al «dire tutto», si pensi che il titolo originale di Rien va doveva essere, nelle intenzioni dell'autore, No dice, indicativo del niente che tale diario doveva esprimere: dire niente, di definitivo, di sostanziale, di vero. Rien va si conclude con questa amara constatazione:

Santo cielo, ma che altro faccio qui dentro che parlare di me stesso? Eppure non è vero, non ho neanche questo coraggio. Non ne ho parlato, non ne parlo, forse non giungerò mai a parlarne.35

E certo non è casuale che, recensendo il Journal di Julien Green, Landolfi ne apprezzi in massima misura il suo «essere fatto di nulla», il suo valere per quello che «presuppone o sottende»:36 insomma, per il non detto, le lacune, i vuoti.
Si è detto all'inizio di questo intervento che la confessione è il genere della crisi del soggetto. Nella rivisitazione che ne fa Landolfi, il diario palesa aspetti inequivocabilmente moderni in quanto rinuncia consapevole alla ricostruzione dell'identità soggettiva, al recupero dell'unità perduta. L'«io» è frammento, è scheggia impazzita, è assenza di significato, è compresenza dei contrari: il diario non fa che restituirne l'immagine mostruosa, deformata, indefinibile. Come mostruosa è la coscienza soggettiva, nei termini di Landolfi, la «perfida bestia»: dato che essa «non porge alcun rimedio», «non indica alcuna via», non rimane che «ucciderla», «tentare di ucciderla».37 È lo scacco della soggettività.
Se nella Biere il soggetto veniva scomposto in un abile gioco metaletterario e pluriprospettico, in Rien va l'«io» diventa l'oggetto della «mania di mortificazione»38 dell'autore. Sembra che qui Landolfi possa parlare di sé solo a patto di calunniarsi, impugnando le armi di un'ironia sarcastica, all'insegna del negativo:

Come sempre la mia comprensione è stata ed è soltanto negativa. So bene ciò che non si deve fare o essere, non ciò che si deve; son disgustato di un me stesso, e son vanamente sulle tracce di un altro, o dell'altro me stesso. Come dire che ho schifo di me stesso per intero; e del resto non son sulle tracce di nulla, mi limito a disprezzarmi.39

La funzione terapeutica del tenere quotidianamente un diario non è di per sé garanzia di completa guarigione: l'effetto «digestivo» che Landolfi attribuisce ai propri diari, così prossimo all'effetto «igienico» di sveviana memoria, non assicura che la «ricerca cosciente di vita e di morte, ricerca di palpiti furiosi»,40 come la definisce ancora Landolfi, abbia un esito positivo. Già nella Biere il narratore, la cui «unica passione» è «non vivere»,41 si identifica in «quelle farfalle notturne sorprese dalla luce o dall'agonia che rimangono a sbattere disperatamente le ali sui nostri pavimenti»;42 mentre ora in Rien va, dopo aver accennato all'«orrore incontrollato della disgregazione fisica»,43 egli scrive che «il Petrarca di sé non dubitò mai, che ebbe in sé di che vivere, che fu in certo modo un dilettante di sensazioni e di aberrazioni, eventualmente di libertinaggio […], che ignorò sempre la disgregazione o il principio di disgregazione della personalità…».44 E più oltre:

Ha luogo in me, più o men consapevole ma piuttosto meno che più, una perenne distruzione preliminare degli effetti, di tutti gli effetti per me possibili, dati quasi tutti come egualmente vani, uno scontarli non soltanto nella sfera dei significati ma in quella medesima dell'essere; donde un'inutilità delle cause, un dissolversi di esse nel punto stesso che accennino a formarsi.45

 

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V. Un nichilismo radicale

Si tratta della fatiscenza, del crollo delle strutture portanti della soggettività. Non è certo una tematica nuova nella tradizione del diarismo novecentesco. Kafka, in questo senso, nei suoi diari, ci ha lasciato alcune delle immagini più intense e sofferte che siano mai state evocate, e proprio per questo è stato assunto dalla critica quale modello dell'autobiografia moderna.46 Tuttavia, è bene notare che in Kafka permane saldo un principio riparativo. Nonostante egli arrivi a percepire quello che lui chiama l'«affollamento nel profondo quasi irraggiungibile con lo sguardo»,47 nonostante avverta la precarietà esistenziale ad un punto tale di vertigine da farlo parlare di sé come di un «reticolato vivente, un cancello che sta ritto e vuol cadere»,48 egli mantiene nel diario una salda fiducia salvifica. In data 19 ottobre 1921 scrive:

Colui che da vivo non riesce a rendersi conto della vita usa una mano per allontanare un poco (e avviene in misura molto approssimativa) la disperazione causata dal proprio destino, ma con l'altra mano può registrare ciò che vede sotto le macerie, perché vede diversamente e più degli altri, dato che è morto in vita e, a rigore, un sopravvissuto.49

Il diario per Kafka è la registrazione di una verità, scaturita dalla sofferenza, è uno strumento euristico che penetra tra le crepe dell'io e ne indaga le possibilità di senso. Ma c'è un altro concetto da evidenziare: quello di costruzione, o meglio di ricostruzione dell'io, concetto in cui, lo abbiamo visto, risiederebbe l'intero significato dell'operazione diaristica. In uno dei suoi Frammenti Kafka annota il principio ispiratore del suo raccontarsi: «Voglio poi costruire me stesso, come uno la cui casa sia pericolante decide di costruirsene un'altra più sicura, lì vicino, magari col materiale di quella precedente».50
Landolfi, pur muovendosi sulla stessa linea kafkiana, porta agli estremi le conseguenze della crisi d'identità. Il suo è un nichilismo irrimediabile. Misuriamo la drasticità del punto di vista landolfiano, mantenendo operativa la metafora della casa e del crollo che connota la pagina conclusiva della Biere du pecheur:

Questa pioggia non era purificante, era corrompente; non scioglieva i pensieri, li inzuppava e appesantiva. Essa macerava fin nel midollo, scommetteva pietra per pietra quanto resta di questa vecchia casa, la quale un giorno non lontano si fenderà a mezzo e lentamente rovinerà seppellendo il suo solitario abitatore; e di tra la fenditura si sarà mostrata una luna rossa; insomma come nella casa di Roderigo Usher. Non è bello che io muoia con lei, o lei con me?51

Non è la testimonianza di un sopravvissuto intento a ricucire i brandelli dell'esistenza. È un anelito di morte, l'unica speranza essendo rappresentata per Landolfi dal nulla:

L'esistenza è una condanna senza appello e senza riscatto; niente vi è da fare contro di essa; ed è forse la nostra speranza soltanto, il nostro bisogno di riprender fiato come da un acuto dolore d'una ferita, che ha immaginato uno stato altro dall'esistere, un nulla.52

Nell'ultimo diario landolfiano, Des mois, ritroviamo alcune delle costanti già messe in luce: ad esempio, la violazione della norma dell'annotazione giornaliera e il soggetto avvertito nella sua indefinitezza e pluralità (non si dimentichi che Des mois significa tanto «dei mesi», quanto «dei me»). Immediata è, soprattutto, l'impressione di assoluta deformità di De mois rispetto ad un presunto canone diaristico, subito tradotta con acutezza da Manganelli nell'immagine di un «aspro coacervo».53 Varrebbe, quindi, la pena riprendere la questione dell'eterogeneità stilistica e compositiva che caratterizza non solo Des mois, ma i diari landolfiani nel loro complesso per approfondire il senso del ricorrente impiego di materiale scrittorio incongruo (abbozzi narrativi, lettere, versi poetici, «fogliolini») rispetto alla diretta registrazione del vissuto. Quale potrebbe essere lo scopo ultimo della commistione formale, così come viene praticata da Landolfi nel contesto di una poetica in cui la compresenza delle questioni dell'artificio e della morte assumono una rilevanza notevole, se non quello di provocare una dilatazione della durata delle cellule temporali in cui è scandito il diario? Come se il pastiche formale trovasse la sua giustificazione ideologica nel sabotaggio della linearità e della scorrevolezza del continuum temporale. Come se, cioè, lo straniamento formale fosse qui impiegato, più o meno consapevolmente, con il preciso fine di straniare la percezione del tempo. È tramite l'artificio letterario che Landolfi realizza la sua «terapeusi del tempo»54 al fine di esorcizzare il fluire irrefrenabile della vita. La morte coinciderà con la fine della scrittura:

Tra pochi giorni sarà la fine dell'anno. Voltata che qualcuno abbia quest'altra pagina, poche ne rimarranno da leggere: un fascetto che l'occhio male apprezza, esiguo ad ogni modo. Ma questo sarebbe il meno, gli è invece che il libro non riserba ormai sorprese; i caratteri dei personaggi sono ormai definitivamente rappigliati, la vicenda è virtualmente conclusa; solo per un senso come di dovere, con noia forse, l'autore ha seguitato a scrivere, e il lettore seguita a leggere; è la fase malinconica in cui il secondo si chiede con vaga angoscia: Dopo questo libro (appassionato o tedioso) che cosa leggerò? Certo, la fine ultima resta aperta, disponibile, lieta o triste secondo il capriccio dell'autore; ma l'ordine di questa fine, ahimè, non è ormai più dubbio.55

L'angoscioso interrogativo del lettore non può non riflettere il disagio complementare dello scrittore intento a chiedersi: «cosa scriverò?»; o più radicalmente: «scriverò?». Persistere nella scrittura diaristica nella consapevolezza della prossimità della morte può significare, allora, l'estremo tentativo di non concludere. Ma anche questo non costituisce affatto un espediente risolutore dato che in Landolfi riscontriamo i segni di un'altra consapevolezza, più amara, più definitiva, relativa allo svuotamento di ogni senso edificante o compensativo interno alla letteratura stessa, la quale non solo si pone come un itinerarium in mortem, ma è l'emblema stesso della morte, la sua presentificazione:

No davvero: la letteratura è sempre una diversione e un divertimento. Non serve a nessuno, quella scritta; e l'altra, che sarà forse la vera, è fumo che si addensa un attimo e subito si disperde, e non si può acchiappare. La letteratura non è vita (semplice constatazione, del resto, senza giudizio).56

 

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Giugno 2001, n. 1