Giorgio Forni
Propaganda politica e farsa simbolista

 

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In quella paradossale Arcadia urbana che è l'ottocentesco regno di Boemia o, se si vuole, la Bohème, il «poeta moderno» si trova, a detta di Benjamin, accanto ai «cospiratori di professione».1
Non si tratta di una vicinanza priva di transiti, di contaminazioni, di simmetrie, e nemmeno di ragioni storiche. È forse un illuminista eccentrico e attardato come Saint-Simon il primo artefice del mito, fortunatissimo, secondo cui i rivoluzionari e gli artisti procedono ciascuno con i propri mezzi su strade parallele, «le due avanguardie». Ma, visto il carattere tutto novecentesco del seminario, converrà lasciare sullo sfondo la lunga prospettiva del XIX secolo, prendendo piuttosto le mosse da uno scorcio frammentario della Parigi fin de siècle. Nel 1892 Remy de Gourmont proclamava una sorta di equivalenza tra il simbolismo in letteratura e l'anarchia in politica. Pierre Quillard, che al principio del nuovo secolo troverà posto tra i Poètes d'Aujourd'hui di Van Bever e Léautaud, definiva il verso libero come un «atto di propaganda coi fatti» (che è, si badi, la formula del terrorismo anarchico). D'altra parte, secondo un discepolo del Lombroso quale è il Nordau di Dégénérescence, edito in quegli anni nella prestigiosa «Bibliothèque de philosophie contemporaine» di Félix Alcan, era proprio la letteratura decadente a fomentare il «nervosismo delle masse» e si trattava anzitutto di «circoscrivere l'epidemia intellettuale». Né va dimenticato come, all'epoca dei processi contro gli anarchici, i simbolisti abbiano rumorosamente preso le parti degli accusati. Anche un personaggio riservato quale Mallarmé, uno dei principali «degenerati» del libro del Nordau, si era presentato a deporre. A un altro dei futuri poètes d'aujourd'hui, Laurent Tailhade, si deve una celebre e semplicistica battuta in difesa degli attentati: qu'importe, si le geste est beau? Così, Ravachol che scoppia in una risata alla vista della ghigliottina o Henry che attende l'esecuzione leggendo il Don Chisciotte divengono immagini memorabili per quella stagione che Roger Shattuck ha voluto chiamare «gli anni del banchetto»2 e non sono certo estranee a quel gusto del «joli massacre» (mescolanza del riso e del sangue) che contraddistingue il tardo simbolismo.
Se la letteratura esplora ai propri margini i generi e le figure della parola non letteraria, vero è che la crisi dei valori simbolisti, per servirci del titolo di un celebre volume di Michel Décaudin,3 è anche un incrinarsi dello statuto stesso della letteratura, del suo carattere disinteressato o, per citare Aristotele, universale.

Ma, se abbiamo cucito insieme alcuni aneddoti variopinti e curiosi, non è che per sollevare un adeguato sipario sul primo oggetto del nostro discorso: la collaborazione di Gian Pietro Lucini alle testate militanti dei primissimi anni del secolo, «L'Educazione Politica» soprattutto, e successivamente «L'Italia del Popolo». Certo, l'autore del Libro delle Figurazioni Ideali avverte, dopo i massacri operai del 1898, il problema di una responsabilità civile della parola; ma ciò che si vorrebbe indagare, di là dal gioco contingente delle motivazioni, sono le forme del rapporto tra il Poeta e il Politico. Lucini ha voluto parlare, in uno spazio tutto militante, sia il linguaggio della propaganda che quello della poesia; pubblica, infatti, sia interventi politici che versi simbolisti; inoltre il suo discorso si dispiega, mobilissimo tra ragioni ideologiche e creative, in una terza dimensione che è quella della critica letteraria. Tuttavia, nell'aprile del 1900, ben consapevole di operare una cruciale «metamorfosi», Lucini pubblica su «L'Educazione Politica» un testo eccentrico e anzi anomalo, in cui i differenti piani che potevano articolare la collaborazione tra il Poeta e il Politico (letteratura, propaganda, critica) sono saltati. In esergo, si legge una immaginaria citazione che è quasi un proclama: «La curiosa metamorfosi! Una penna d'oca che s'impiega come uno stocco d'acciaio. Il Melibeo». Si tratta di un esperimento che è passato inosservato ma che forse, e cercheremo di dimostrarlo, è all'origine di una serie di effetti a largo raggio, di una catena di «metamorfosi» di portata europea. Esaminiamo dunque Monsieur Veto, che si sarebbe potuto anche intitolare, ma stiamo già anticipando alcune ipotesi, Ubu a Firenze o Ubu turista.

Protagonista non è un Re ma il Re, «spodestato dalle Rivoluzioni» e a spasso «en touriste» per Firenze, «maschera» irreale di un potere assetato di vendette e di supplizi, che reclama il «bavaglio» e la «forca». «Stupiva il buon fiorentino all'incontro della Maschera eteroclita; Monsieur Veto, passava con un mondo di cartone nella sinistra, per canna da passeggio, nella destra, una scuriada, ed al cappello lucido e serico si era inanellato una pesante corona d'ottone». Già a prima vista la «maschera eteroclita» di Monsieur Veto sembra riprendere lo sferico «caparaçonnage de carton» di Père Ubu, razionalmente dissimilato in un «mondo di cartone», e il «Bâton-à-physique», nella «scuriada» o «sferza»; come Ubu, poi, porta la corona sul cappello. Ma anche le parole di Monsieur Veto sembrano conservare qualcosa, forse un poco stemperato, delle cadenze meccaniche di Père Ubu: «Che vuol dire pensare? Il paterno governo basta a tutto. Provvede a tutto, anche a diminuire la troppo spessa popolazione, quando il bisogno si fa sentire, col lasciar libero corso alle carestie ed alle pestilenze». Del resto, di lì a poco, Lucini citerà Ubu come un personaggio ben noto: «è l'eterno Homais, l'eterno Père Ubu, è il disgraziato borghese».

Ma qual è il senso dell'operazione di Lucini? Come è costruita? Nel testo compaiono tre figure: la maschera arbitraria del Potere, «Monsieur Veto»; la silhouette ironica e complice del Politico, «Il Gentiluomo»; una presenza dilatata e solenne, «la sera placida», «la nobile libertà del cielo». Si tratta di un dialogo tra il Potere e il Politico al tacito e ignorato cospetto dei «fiori» e del «cielo», ossia dell'occhio del Poeta. Al centro dell'informale colloquio, in corsivo e nel rovescio della parodia, scintilla il discorso della propaganda politica. Una considerazione di Monsieur Veto, che va letta però nel gioco multiplo dell'ironia, ci mette sulla strada: «Lungarno a specchio del fiume. Egli considerò la stranezza dei riflessi, che fanno vedere le cose alla rovescia e che per questo appajono più poetiche e care». Nell'ottica rovesciata della farsa, le verità ideologiche della propaganda risultano più penetranti e più acuminate; la «penna d'oca» del Poeta, prestata alla lotta politica, può divenire uno «stocco d'acciaio». Lucini sta delineando il progetto di un'arte minore di propaganda, «tra parodia», sono parole sue, «e sobillazione». Monsieur Veto, dunque, è uno scritto al contempo letterario e propagandistico, che presuppone però anche una dimensione critica, una lettura interpretativa dell'Ubu roi di Jarry. Allo stesso modo, nel 1901, il Jaufré Rudel di Lucini è uno straordinario testo poetico, un intervento di propaganda antimperialista, un rovesciamento critico del Jaufré Rudel di Carducci attraverso la «stranezza» deforme dei «riflessi» parodici. Che il primo sia in prosa e il secondo in versi non fa che confermare il carattere, per così dire, transgenerico dello spazio verbale inaugurato da Lucini.

Tuttavia, come la «metamorfosi» a cui egli accenna è soltanto «curiosa», così resta un fenomeno marginale rispetto alla poesia: il Poeta «quanto alla vita» apprezza la «negazione», certo, ma «quanto all'opera» mira al «simbolo». La strategia letteraria di Lucini configura così due livelli non equivalenti e, per certi versi, antitetici. Quando il Poeta presta la sua penna al Politico, la scrittura resta ai margini del letterario, in una dimensione minore, «duttile ed utile». Rivolgendosi, nel dicembre del 1901, ai lettori de «L'Italia del Popolo» nella nuova veste di critico ufficiale, Lucini conclude le sue programmatiche Massime d'integrazione sovversiva e letteraria (e già il titolo è significativo) con una nitida immagine che è variazione di un topos classico, quello del poeta e dell'ape. «Or dunque, vogliate, miei buoni amici», scrive, «che, un ozioso par mio, qualche volta, vi venga a schiudere l'usciolo secreto della eterodossa biblioteca; abbiate pazienza, ch'io vi citi opere ed autori, non come un maestro che insegna a compitare, ma come un amatore che desidera farvi piacere; dimenticate, ch'io possa essere un uomo di lettere», ed è qui che affiora uno sdoppiamento di piani, «e cercate in me, in vece, quanto meglio vi possa essere utile. Troverete, per esempio, ch'io mi fermerò volontieri alle Aventures du Roi Pausole, all'En Anarchie ai Jours et les Nuits d'un Réfractaire; e come l'apicoltore lascia scorrere il miele dalle borse appese e si impadronisce della cera duttile ed utile (il miele è una preziosità), eccovi dei pensieri, delli atti, non delle imagini di nebbie e di vento, curiose e squisite preziosità letterarie». Ciò che interessa all' «apicoltore», ossia al Politico, non è il «miele» o le «preziosità» del «simbolo», ma la «cera» della «negazione» (tra i cui esempi, si badi, viene citato un romanzo di Jarry, Les jours et les nuits).

In una divagazione critica del 1901 dal titolo Il grottesco, spicca una frammentaria genealogia di quel personaggio che un lettore scapigliato di Bouvard et Pécuchet come Felice Cameroni aveva chiamato «l'imbecille borghese»: «Homais, Buvard e Pécuchet» e poco oltre, ma è un transito fondamentale, il Tribulat Bonhomet di Villiers de l'Isle-Adam. Accanto alle «imagini» preziose e squisite, Lucini si sta accorgendo di un nuovo orientamento letterario verso il «grottesco», verso il «mostro». «Ma ora, nella sequenza della vita cotidiana, nella nenia noiosa della pratica, sorge un fiore strano», scrive, «che non è tutta bellezza ma che la ricorda e che la fa desiderare appunto perché la corolla curiosa ne è l'antinomia». Come accanto all'Eve future, che reca la doppia dedica «Aux rêveurs» e «Aux railleurs», Lucini ricorda subito Tribulat Bonhomet; così, vicino al Conte de l'Or et du Silence di Gustave Kahn, menziona Le Roi Fou, «una specie di romanzo politico»; e dopo aver difeso l'Aphrodite di Pierre Louÿs, si sofferma sul Roi Pausole, collocato già nelle Massime sotto il segno della sostanza «duttile ed utile» della «negazione». «Pausole», si legge in un articolo del gennaio del 1902, «è il re anarchico, Giglio è l'arte insofferente di legami e di imposizioni, è l'amore libero; Taxis, che fa la peggiore figura di tutti e recita versetti della Bibbia, è l'eterno Homais, l'eterno Père Ubu, è il disgraziato borghese». Al fondo dell'opera Lucini ritrova il gioco di tre personaggi simbolici - il Potere, il Poeta e il Politico - e vi sovrappone la metafora ideologizzante del «bisogno al cibo» e delle «bocche». «Ma io, qui, anche mi dimentico che, mentre li uomini pratici e serii cercano di codificare per fine sull'istinto e sul bisogno al cibo e tentano pesare per ogni bocca tanto di carne e di pane, come se ogni bocca dovesse, per legge, mangiar tanto di pane e carne statutaria, o non più, o non meno; quelli altri, li anarcoidi, tentano di liberare dalle leggi ingombranti, fastidiose ed inutili bocche e menti». Insomma, proprio lo spazio ibrido, liminare e, se si vuole, tendenzioso che Lucini inventa tra letteratura e propaganda, ha reso possibile una mobilissima esplorazione di quella terra incognita che si dischiude incessantemente tra il «già fatto» e il «fare nuovissimo», sono formule sue, della parola letteraria. Vi è però un limite: la divaricazione tutta positiva tra «opera» e «negazione» confina gli esperimenti critici e ideologizzanti in una dimensione minore, marginale, propedeutica. Accontentiamoci di un solo, rapido esempio. «Dal Boito del Re Orso al Piacere del D'Annunzio quanta strada percorsa! Abbiamo sostituito alla negazione, l'opera; una fede scientifica all'ultima lagrima del romanticismo convulso».

Ormai abbiamo sufficienti elementi per assistere, sulla scena del nostro discorso, a una prima metamorfosi: Monsieur Veto che diviene lo straordinario, e a suo tempo fortunatissimo, Roi Bombance di Marinetti, opera, dirà un lettore d'eccezione come Rubén Darío, «pomposamente comica, tragicamente burlesca». L'ammirazione del giovane Marinetti verso Lucini è un dato acquisito e ben documentato: nel 1899 traduce in francese una sua poesia, Eliana; nel 1902 sollecita, attraverso un comune amico, una recensione al suo primo libro, La Conquête des Etoiles. Non pare quindi inverosimile che il Roi Bombance, in cui il virtuosismo immaginifico della poesia simbolista si mescola al linguaggio ideologico della propaganda politica, prolunghi e amplifichi gli esperimenti eterodossi di Lucini. Anzitutto, la «tragédie satirique» di Marinetti si articola su tre figure fondamentali: il Potere, «Roi Bombance», «Père Bedaine»; il Poeta, «l'Idiot»; e le varie immagini del Politico, non soltanto il rivoluzionario «Estomacreux», ma soprattutto lo sfuggente «Anguille».4 Inoltre, la metafora del «bisogno al cibo» e delle «bocche» che Lucini aveva sovrapposto al Roi Pausole diviene ora il cardine parodico di tutta l'opera, grottesca rappresentazione di un mondo che muore di fame e che trabocca di violenza. Per altro, si possono seguire nel Roi Bombance molteplici ramificazioni di un tema caro all'immaginazione propagandistica di Lucini come quello di un Cristo opportunista, di un «Gesù» che «si scorda presto delli Eroi, / che son de' sognatori. / Egli l'incontra, ma non li vede affatto» (dove è ironicamente ripresa la figura baudelairiana del poeta: «Et les vastes éclairs de son esprit lucide / Lui dérobent l'aspect des peuples furieux»). «Oh Nazareno critico!», si legge ancora nel Dialogo per l'occasione del 1901, «uscì dal limbo della paganità / per dar valore a un sogno, / ed ha prostituito il sicuro al di là / del riposo assoluto, / coll'affresco ridicolo e sgargiante, / cartellone réclame del Paradiso, / perché anche il sogno serva a qualche cosa. / Tiene omelie e meetings, / col beneplacito della questura, / e si assicura un posto al Municipio e al Parlamento». Ritorniamo allora al Roi Bombance cercando di estrarre dal testo soltanto il minimo indispensabile al nostro discorso. Per gli affamati «l'Idiot», ossia il Poeta, è «un fumiste» (p. 72), «un jongleur» (p. 80) e «n'a pas d'estomac» (p. 70); si proclama «venu du ciel», «interprète du Divin» (pp. 75-76) e, anzi, «l'élu du ciel», «le Roi des Rois de par l'incantation de mon verbe» (p. 80); processato, è riconosciuto dal re come «Aldor»,5 un vecchio poeta di corte, e si salva così da una condanna a morte (Atto II). «Anguille», lo spregiudicato consigliere di tutti, annuncia: «Je suis le fils de Dieu et je porte ma croix dans mon ventre!»; poi, sollevando una forchetta con un pezzo di carne e una brocca di vino, grida: «Mangez!... (il tend la fourchette) ceci... est mon corps!... Buvez!... (il tend le broc de vin.) Buvez... ceci est mon sang!» (p. 187); in quel momento appare «Sainte Pourriture», bizzarro spettro della distruzione, «fantôme spiralique de brume», che incessantemente trascina tutto «vers le néant» (Atto III). Sia «l'Idiot» idealista e sognatore, che «Anguille» realista e ironico si esibiscono in una «répétition fantômale» della passione di Cristo: «l'homme est une tragédie hilare qui... ne sera jamais représentée et que l'on répète incessamment» (p. 184). L'ironia corrode l'Ideale, il sogno sgretola il Reale: recitando un fallimento simmetrico, il Poeta («Le Rêve», «l'impossible qui pleure») e il Politico («L'Ironie», «le possible qui rit») configurano nella penombra vacillante del potere una radicale antinomia. Il loro delirio prepara il trionfo della distruzione, della fetida dea della putredine, «Sainte Pourriture». La tragedia si chiude con un immenso torrente di sangue che cola dalla scena.

Ma proprio la conclusione tesa e irrisolta che, disorientando i lettori, ha contribuito all'immediato successo dell'opera, ci rimanda ancora una volta a Lucini, al suo gusto per le antinomie, «L'Antinomia, / senza speranza e nella vaga danza, / del fiore della Morte e della Vita / incorona le porte dell'Impossibile».6 Che Lucini sia «fondamentalmente antidialettico», come ebbe a dire Luciano De Maria,7 va forse inteso non nel senso di un limite ma di una scelta: inducendo una lacerazione, le figure antinomiche non preparano una sintesi, ma dischiudono una sorta di apertura, di varco, «le porte dell'Impossibile». Se poi si osserva più da vicino il bizzarro spettro che conclude col suo trionfo il Roi Bombance, «Sainte Pourriture», ovvero «la Mort dans la Vie, accouplées!», non tardano ad emergere non solo i segni di un'affinità, ma gli indizi di un rapporto. Si legge in quello che è stato considerato il manifesto del simbolismo italiano, i Prolegomena al Libro delle Figurazioni Ideali del 1894, ed è una proposizione su cui Lucini ha costruito tutto il proprio discorso: «ogni cosa che ne circonda, scienza, religione, forma politica, economia, si tramutano, né il tramutarsi è senza un fine, né la fine è senza una morte od una rovina: né senza morte e putredine havvi nuova vita». Ma proprio questo è il discorso di «Sainte Pourriture»: «Je suis la vie incessante qui pullule dans la mort successive des cellules épuisées!... Je suis la vie des foules qui se renouvelle dans la mort des individus!» (p. 258); «C'est la loi souveraine! Se défaire dans la mort illusoire, pour se refondre et renaître identique!... C'est la loi décomposante qui gouverne les mondes!» (p. 188).8 Anche per il Marinetti del Roi Bombance sembrano dunque appropriate le parole con cui il De Maria contrappone Lucini al futurismo: «gli elementi dinamici, mutevoli, del divenire sono epifenomeni di una sostanza statica, di un'essenza perenne, immutabile»,9 «se refondre et renaître identique!». Pur operando una sintesi tra «opera» (o «simbolo») e «negazione», il che vuol dire sviluppare le sperimentazioni di Lucini al di fuori della loro dimensione marginale e minore, il principio costruttivo del Roi Bombance e soprattutto l'antinomia del Poeta e del Politico si collocano in uno spazio che è ben diverso da quello del futurismo. Chi prende la parola nel Manifeste du Futurisme è una figura ormai ibrida, Politico della poesia, Poeta della politica. Fra il Roi Bombance e il Manifeste vi è, per così dire, un salto logico. Per colmarlo, proviamo a rivolgerci altrove, magari verso la cultura spagnola dei primi anni del secolo. D'altronde, che fin da subito il Roi Bombance sia stato «un succès incontestable parmi les lettrés des nationalités diverses» è affermazione di uno dei principi della critica parigina di allora, Jules Bois. Per limitarsi a un esempio peregrino, una rivista portoghese, «O Oriente», dedicava il fascicolo del 15 marzo 1908 a «F.T. Marinetti, autor do Roi Bombance».

Osserviamo allora, o per lo meno immaginiamo, una seconda metamorfosi: il Roi Bombance che diviene il lucido e ironico Paradox, rey di Pio Baroja. Quando, nell'autunno del 1905, il libro di Marinetti sta diventando un caso letterario, Baroja si trova a Parigi; Paradox, rey appare a Madrid nella primavera del 1906. Nella «tragedia grottesca» di Baroja si possono ritrovare, in via del tutto congetturale, le tracce di una sorta di omaggio a Marinetti: le voci del mare e del vento (I, VII) richiamano La Conquête des Étoiles, l' «Elogio metafísico de la destrucción» (II, XII), il secondo volume di Marinetti, Destruction. Ma atteniamoci all'essenziale: come è costruito Paradox, rey? Già uno dei primi recensori italiani, nel 1906, aveva avanzato una facile ipotesi: «Forse, i veri personaggi di questo libro sono le idee». A ciò si può aggiungere che le figure che contano sono soprattutto due, il Poeta e il Politico, «Paradox» e «Sipsom»; i loro profili però non si disegnano più sullo sfondo di un Potere già costituito, in rapporto a un Re. («UBU: Cornegidouille, Messieurs, je crois que voici ce qu'il faut demander: qui sera Roi?»). Quel che viene rappresentato nel Paradox, rey è infatti, tra utopia ironica e avventura onirica, il variopinto tentativo di fondare un regno in una sperduta regione africana, che finirà per aprire la strada ai devastanti grigiori del colonialismo europeo. Insomma, non si tratta di un antico regno come nel Roi Bombance, ma di una spedizione o, se si vuole, di un viaggio allegorico. «Paradox», come «l'Idiot» marinettiano, è «un imbécil, un farsante» (I, VII), e tuttavia la sua natura di «casi vegetariano» (II, VIII) e di «poeta» (II, IX) si rivela attraverso lo sguardo di «Sipsom», del Politico; allo stesso modo, è «Paradox» a identificarlo come un «discípulo de Maquiavelo» (II, V). I due profili non sono dunque maschere fisse all'ombra del Re, ma si scoprono attraverso un riconoscimento reciproco, una sperimentazione dei differenti punti di vista dell'immaginazione poetica e del realismo politico. Così, e per due volte, è il Politico che cede il potere al Poeta e lo incorona re: ma il Poeta non è più «idiota». Se «l'Idiot» marinettiano rimane «l'impossible qui pleure», nel «diccionario» di Paradox «no existe la palabra imposible...» (II, X). L'antinomia si trasforma allora in un dialogo, in un rapporto dinamico tra elementi diversi che ha il carattere irreversibile di certe reazioni chimiche. A chi assuma l'ipotesi di un rapporto tra i due testi, apparirà evidente come il nuovo spazio del Paradox, rey pieghi i valori simbolisti del Roi Bombance verso un dinamismo che prefigura quello futurista. Limitiamoci a due esempi. Verso la fine del Roi Bombance l'untuoso cappellano di corte, «Père Bedaine», «le pouvoir au delà», annuncia per «la planète de l'appétit» la lontana e vaga minaccia di una «grande Dypepsie»: a fronte dell'angusto realismo «de l'appétit», la dimensione ideale è quella «impossible» del digiuno, anzi della «Dypepsie». Le medesime parole ritornano in una decisiva battuta del Paradox, rey che contiene in nuce il rifiuto futurista dei languori romantici: «¿Por qué el apetito ha de ser más antipoético que la dispepsia?» (II, XIII). E qui, si badi, chi parla è «Sipsom»: il Politico interroga la poesia. Per rimanere alle scene conclusive del Roi Bombance, rivolgiamo ora la nostra attenzione a un inciso breve ma illuminante, in cui il sistema metaforico dell'opera rivela una delle sue chiavi: «C'est toujours pour des choses mortes et vermoulues - tombeaux, musées ou bibliothèques - que les Bourdes s'entre-tuent!». Con il suo gusto per le «sottises» putrefatte, il popolo dei «Bourdes», «éternels Affamés», rimanda anche all'«eterno affamato» di Nietzsche, all'«enorme bisogno storico», sono formule della Nascita della tragedia, «dell'insaziabile cultura moderna».10 Ma se nel Roi Bombance la critica al «passatismo» si lascia decifrare attraverso un minimo tassello, una rapida catena di sinonimi, «tombeaux», «musées», «bibliothèques», nel Paradox, rey diviene invece un gesto militante contro il «fetichismo del arte» che ha già il tono interiettivo del futurismo: «¡abajo las Universidades, los Institutos, los Conservatorios, las escuelas especiales, las Academias, donde se refugian todas las pedanterías!» (III, IV). Per Paradox, mentre l'Europa inghiotte il mondo, si tratta piuttosto di «africanizarlo», di vivere come «bárbaros».

Marinetti conosceva questo testo? Una risposta sensata non può andare di là dalla sfera tutta congetturale del probabile. Per due volte Marinetti incrocia il Paradox, rey. Nel 1906, una delle prime recensioni italiane del volume «terribilmente anarchico» di Pio Baroja, «scrittore», si dice, «già favorevolmente noto», compare sul «Rinascimento», a cui Marinetti collaborava al seguito di Gustave Kahn con brevi segnalazioni firmate «Roi Bombance» (sfuggite alla diligente bibliografa del primo Marinetti, Brunella Eruli). Nel 1909 poi, proprio quando Marinetti iniziava un rapporto di collaborazione, la casa editrice Treves annuncia che «Paradox re, di Pio Baroja» è «in preparazione». Sono semplici indizi che richiedono, evidentemente, un supplemento di indagini.
Ma vi è un'altra domanda che merita per lo meno di essere posta. Stando alle indicazioni di Serge Fauchereau, nel 1905 Gabriel Alomar pubblica in catalano l'opuscolo El futurisme, tradotto nel 1907 in spagnolo sulla rivista «Renacimiento» e salutato con entusiasmo da una cultura che inizia a porsi il problema della parola letteraria di fronte alla nuova civiltà industriale.11 Perché allora, nonostante gli sforzi di Marinetti, non è esistito un «futurismo» spagnolo? «Los Lombroso y los Ferrero, los Loria y los D'Annunzio, los Marinetti y los Papini, los Mascagni y los Puccini, todo esto», scriverà Baroja nel 1920, tra il risentito e il deluso, «tiene mucho aire de quincalla» (La caverna del humorismo). Forse, la giovane generazione spagnola aspirava a una modernità letteraria meno flamboyante. Se il Paradox, rey racchiude una metafora della responsabilità, anche politica, dell'immaginazione, i testi fondamentali di Marinetti dalla Conquête des Étoiles al Manifeste contengono piuttosto il gesto contrario, «Qu'importe?».12 E dissolvendo il rilievo del reale, la ripetuta esclamazione di Marinetti riecheggia certo la semplicistica battuta di Laurent Tailhade ma corrisponde anche, secondo la psichiatria poetica del Nordau, a quell'ultimo grado della «degenerazione» ereditaria che è l'«idiozia». Nella sua genesi, l'irresponsabilità lirica potrebbe rispondere a una strategia parodica.

Per concludere, più che esaminare come «l'Idiot» marinettiano divenga il Perelà di Palazzeschi o il Sam Dunn di Corra, limitiamoci a qualche minima osservazione intorno al romanzo africano di Marinetti, Mafarka le futuriste, dove il Poeta e il Politico appaiono fusi nella figura ibrida, barbarica di un ultimo re simbolista. Chi proceda a un allineamento intertestuale della prima stesura francese (Paris, Sansot, 1910), della versione italiana di Decio Cinti (Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1910) e della «nuova edizione» apparsa dopo la guerra (Milano, Sonzogno, 1920) potrebbe ricavare qualche elemento non privo di interesse. Uno di essi, tanto evidente quanto significativo, mi sembra debba richiamare la nostra attenzione. Nella revisione del romanzo, Marinetti ha tagliato un episodio esemplare di quel tono di «ebbrezza beffarda» e di «facezie ironiche», di «risate crepitanti» e di «ilarità», che contraddistingue il profilo primitivo dell'opera, per cui «Mafarka» è ancora, a detta di Lucini, «l'Idiot divino di Roi Bombance».13 Nel 1920 l'eroe futurista non compare più con un «interminabile» e «ingombrante» organo sessuale lungo ben «undici metri», che arrotolato viene preso per una «fune» e irrigidendosi diventa poi il bizzarro «albero» di una stravagante imbarcazione.14 Se si ricolloca al suo posto il brano soppresso, gli stupri colossali, le violenze grottesche del romanzo riacquistano le proporzioni parodiche di un «joli massacre» simbolista. Forse, più che Mafarka, è la sua revisione ad aprire la strada al «futurismo eroico» degli anni venti, agli Indomabili. La grande guerra, scomponendo la miscela futurista, ha cristallizzato nuove immagini che si sovrappongono retrospettivamente alle vecchie, ridefinendole. D'altronde, negli anni più duri della guerra Marinetti ha compiuto un atto tacito ma eloquente, ha tradotto uno di quei «maîtres symbolistes» che il futurismo aveva risolutamente rinnegato, Mallarmé. «Quand vous regrettez quelque chose», avvertiva già l'autore del Roi Bombance, «c'est déjà un germe de mort que vous portez en vous». Si tratta di una minuscola antologia personale che comprende, tra gli altri, un testo su cui vale la pena di riflettere, Le pitre châtié, il «pagliaccio punito». Mallarmé evoca la figura di un clown che si accorge che la biacca, il trucco parodico che gli ricopre il volto, è ormai divenuta la sua pelle: questa è la sua punizione. Mentre sceglie e traduce il sonetto, Marinetti non può non avergli confusamente attribuito il valore di uno specchio o, se è lecito spiare le intenzioni silenziose e oscure, di un'ammissione. Il bistro iniziale, la «fraîcheur de nacre» del clown futurista era ormai una pelle definitiva, «rance nuit de la peau», e tuttavia «sacre».

 

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Dicembre 1999, n. 2


 

 

 

 

 

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