I «generi marginali» nel Novecento letterario
Seminario di studi
a cura di Daniela Baroncini e Federico Pellizzi
Tavola rotonda
Bologna, 22 maggio 1997
Dipartimento di Italianistica
Partecipanti:
Federico Pellizzi, Paolo Bagni, Andrea Battistini, Remo Ceserani
Intervengo un po' all'impronta, cercando di reagire alle vostre riflessioni. Mi fermo soprattutto su tre punti:
1) A me è capitato spesso di utilizzare nel mio lavoro il concetto di genere e quello di sistema dei generi. Non ne nego l'utilità e l'opportunità. Ho però sempre preferito ragionare in termini di 'modo' e 'sistema dei modi'. Con modo intendo le forme di organizzazione dell'immaginario attraverso cui, grazie alle modalizzazioni del discorso che essi offrono e rendono possibili, noi rappresentiamo le nostre esperienze, le nostre concezioni e immaginazioni, esprimiamo i nostri bisogni profondi, ci rappresentiamo e rappresentiamo il mondo.
Questo concetto è in parte ricavato dalla teoria letteraria di Northrop Frye, cercando di evitare una difficoltà in cui cadono i modi di Frye: quella di assomigliare molto agli archetipi di Jung, cioè di essere delle forme astoriche, e nemmeno degli atteggiamenti mentali di base come sono le 'forme semplici' di André Jolles, e nemmeno dei 'modelli' come sono quelli antropologici di Lotman, ma una specie di grandi temi o procedimenti o codici (si pensi al Grande codice biblico) depositati nel serbatoio dell'inconscio collettivo e di lì ripescabili a piacere. I modi come li intendo io si avvicinano più ai Weise o Dichtarten di Goethe a cui accennava Paolo Bagni: sono pochi, sono grandi sistemi di organizzazione dell'immaginario che informano di sé poi generi e sottogeneri sia quelli centrali sia quelli di cui vi occupate voi e cioè i marginali. E però hanno una loro storicità, sono collegati con le forme storiche della vita sociale.
Secondo me il ragionare per modi ci libera da una serie di problemi che ci intralciano non poco quando parliamo dei generi, e questo ancor più quando abbiamo a che fare con i generi 'marginali', i generi di confine tra i testi della letteratura e altri testi, che proprio perché più marginali e meno codificati sfuggono spesso alle classificazioni per generi, possono atteggiarsi di volta in volta secondo il modo epico o romanzesco, melodrammatico o picaresco o fantastico e così via.
2) Non sono molto contento quando sento parlare di Novecento con la N maiuscola come faceva prima Pellizzi. Mi pare di avvertire, in questi discorsi sul Novecento, una specie di reificazione della periodizzazione storica, una proiezione un po' rigida di movimenti e avanguardie ('Novecento' 'Novecentismo'), quasi una concretizzazione storiografica di una disciplina di insegnamento universitario (la letteratura contemporanea), di un interventismo culturale militante o di una certa produzione editoriale (l'Enciclopedia del Novecento¸ il "Bollettino '900") che in sé non fanno niente di male, ma mi sembra tendano a tagliare il fluire della storia con l'accetta. (Attività e tendenze che vedo pericolosamente crescere e gonfiarsi ora che ci avviciniamo alla fine del secolo, o addirittura, per quanto la ricorrenza non abbia nessuna base reale, del millennio). Le stesse e cosiddette 'poetiche' del Novecento, che qui a Bologna hanno avuto illustri cultori, mi pare che contribuiscano a questa tendenza a reificare il secolo, a considerarlo un'entità unica e autonoma, a costruire, come avete fatto voi, il sistema dei generi del Novecento, distinguendo all'interno di esso i generi marginali.
In realtà a me pare che non si possa parlare di un periodo storico omogeneo per il Novecento. Di cambiamenti e 'svolte' a ogni tratto di storia, nel nostro secolo a ogni decennio, parlano con facilità e disinvoltura la pubblicistica e il giornalismo. Io ritengo che di veri cambiamenti storici forti non ce ne sono stati molti negli ultimi secoli; uno, un primo grande cambiamento, a cui diamo il nome di 'Modernità', a cavallo tra Sette e Ottocento, che ha portato con sé trasformazioni profonde nelle condizioni di vita, nelle strutture economiche e sociali, nei sistemi culturali e anche nei sistemi dei modi e dei generi delle società che sono state investite dal cambiamento; l'altro verso la metà del nostro secolo, per cui a rigore, se vogliamo essere esatti di Novecenti ce ne sono almeno due, di cui il primo appartiene sostanzialmente insieme con l'Ottocento al periodo della Modernità, mentre il secondo si è sviluppato nei paesi del tardo capitalismo a partire dagli anni '50. A me pare che sia stato accertato con una certa forza e precisione che ci sono stati due cambiamenti ampi e radicali nel sistema dei generi, l'uno tra Sette e Ottocento, all'inizio della modernità, e l'altro tra primo Novecento e secondo Novecento, al passaggio tra modernità e postmodernità.
3) Sarebbe interessante domandarsi — ma temo che sia difficile dare una risposta qui sui due piedi, in un quarto d'ora — quale posto hanno avuto i generi cosiddetti "marginali" in quelle due grandi trasformazioni, che hanno certamente comportato una generale messa in discussione dei concetti di centralità, gerarchia e ordine, e quindi, a maggior ragione, il concetto di marginalità.
La mia impressione è questa: che nel Settecento, alle soglie della modernità, nonostante ci fosse un grande sperimentalismo, un'esplorazione estesa delle forme e delle antiforme, un gran laboratorio dei modi e dei generi e anche un gusto molto forte per le forme brevi — non so se possiamo chiamarle marginali — per le lettere, per esempio, in particolare le lettere ben lavorate con dentro un bel Witz come quelle di Voltaire, per i cammei, per la lirica d'occasione, per le relazioni di viaggio, il dialogo, il saggio e l'articolo di giornale; nonostante tutto questo c'era in letteratura una situazione di equilibrio e reciproco sostegno tra le forme più lunghe e le forme brevi (pensate al rapporto fra la lettera e il romanzo epistolare) e comunque tutto si svolgeva dentro un sistema dei modi e dei generi che era molto gerarchizzato, che rimase gerarchizzato, che aveva i generi forti e quelli meno forti e seguiva un principio d'ordine. Possiamo anche arrischiarci a dire che il Settecento è stato un periodo di forte innovazione delle modalità letterarie e di introduzione di modi e generi nuovi, come per esempio quello che Peter Brooks chiama il 'melodrammatico': un modo non totalmente nuovo ma che ebbe una forte espansione nel Settecento, invase altri territori, invase la tragedia e la trasformò nel dramma borghese, invase il romanzo e lo trasformò nel romanzo alla Richardson che faceva piangere Diderot. E però tutte queste innovazioni (o trasformazioni) avvennero senza scardinare sostanzialmente la gerarchia tra i modi e i generi, senza sconvolgere i rapporti che erano ancora abbastanza rigidi.
Nel periodo successivo, che possiamo chiamare della Modernità e che si sviluppa, pur tra le inevitabili sfasature tra paese e paese, a partire dal primo Ottocento, a me pare che quelle ipotesi che voi avete espresso e usato per il Novecento siano già tutte in atto, con un primo grosso fenomeno: che i generi cosiddetti marginali sono utilizzati proprio per mettere in discussione il sistema e le sue gerarchie. Tutte le operazioni a cui avete accennato fino a quella della contaminazione mi pare che siano parte integrante dell'esperienza forte della modernità, nella quale un investimento di valore estetico ebbe per oggetto i generi minori o marginali con il risultato di ribaltare le gerarchie, portare il romanzo (tipico genere misto, che assorbe tutti gli altri generi) e la lirica nella posizione più alta e di prestigio. Le avanguardie — e io considero avanguardie anche i primi gruppi romantici — fecero oggetto della loro trasgressività non solo il linguaggio, non solo il rapporto con il pubblico, ma appunto anche i generi, spesso poggiando di proposito su quelli minori e marginali. Del resto, appunto, già i primi romantici si sono sforzati di utilizzare le forme apparentemente più legate con l'occasione, con la vita interiore, con la vita intima, con il non-finito per incidere e rivedere le forme alte e rinnegarle. I formalisti russi, nel primo Novecento, hanno fatto di queste pratiche sostanzialmente avanguardistiche una teoria, in particolare con il discorso che essi hanno sviluppato sul rapporto tra la serie letteraria e quella che loro chiamavano la serie del byt, cioè il tipo di scritture di cui parlava prima Battistini: il diario, la nota autobiografica, il momento di contatto fra scrittura ed esperienza diretta, già tutta d'altra parte formata e sottoposta al patto con un primo lettore interno.
In tutta la modernità lo scambio di prospettive e la collaborazione tra generi marginali e generi considerati centrali è fortissima, e su questo agiscono anche dei forti elementi sociologici, come il cambiamento del pubblico per numero e qualità, le forme nuove della comunicazione. Il giornale, naturalmente, ha una funzione importantissima in questo quadro, perché dà origine esso stesso a una serie di generi marginali: l'elzeviro, la prosa estemporanea, che racconta dentro una misura precisa di parole un incontro o una passeggiata divagante in una città nota o sconosciuta, o una meditazione filosofica o una libera divagazione. La stessa cosa succede anche per la produzione narrativa vera e propria, che spesso deve adattarsi alla misura del giornale, della lettura giornalistica, della pubblicazione seriale. Queste nuove condizioni del mercato editoriale finiscono per livellare forme di scrittura e strati di pubblico, o relegare alcune espressioni della letteratura marginale in luoghi specifici, e pur riconosciuti dal sistema generale. Pensate a fenomeni clamorosi come le riviste fatte da uno solo, come "La Critica" di Benedetto Croce o "Die Falke" di Karl Krauss, dove sia Benedetto Croce (per esempio con il genere della "conversazione critica") sia Karl Krauss (con il genere dell'aforisma) trasformano la nota a margine in una riflessione investita di valore conoscitivo. Sulla base delel'esperienza di Nietzsche e di Krauss si può anzi dire che fa parte dell'esperienza della modernità questo avere investito di un forte valore conoscitivo e al tempo stesso di ricerca letteraria il genere dell'aforisma, dandogli un eccezionale prestigio.
Quando si viene all'altro grande cambiamento, a quello della postmodernità, temo che le cose si complichino non poco. Mi è difficile dare un giudizio sicuro, sento che la situazione è molto contraddittoria. Per esempio gli storici dell'arte dicono: guardate, se voi volete sapere dove si esprime oggi la creatività artistica, non andate a cercare il quadro, non andate nei salotti dei mecenati, non andate nelle gallerie d'arte: è finita la committenza borghese da parte di coloro che volevano comprare dei 'quadri' da attaccare alle pareti delle loro case o delle statue da mettere nei loro giardini. Non è più lì che si realizza la creatività artistica: dovete cercarla altrove, nel design della pubblicità, nelle copertine dei libri o dei dischi, nello styling delle riviste, nelle strisce e nei fumetti, e così via. Sembrerebbe un esempio che i generi cosiddetti marginali hanno addirittura preso il sopravvento; diceva prima Battistini che sembrano l'unica cosa rimasta in un mondo dove la centralità non c'è più, quella centralità che c'era ancora al tempo di Joyce, quando cercava di fare l'opera-mondo mettendoci dentro tutti i generi. E naturalmente le reti informatiche sembrano lavorare in questo senso. Non tanto tempo fa mi è capitato di leggere una discussione tra apocalittici e integrati su "Harper's" a proposito del futuro dell'informatica e uno dei partecipanti, un vecchio reduce dai movimenti politici e ambientalisti che non è più riuscito a mantenere competitiva la sua farm biologica nel Midwest, a causa della concorrenza asiatica, ed è andato a lavorare in una delle ditte di informatica che sono sorte come funghi attorno a Boston, ha raccontato che di recente gli è capitata una tragedia in casa, è morta la sua compagna dopo tanti anni d'amore. Le hanno fatto il funerale e sulla tomba lui, rifacendosi a un nobile genere letterario minore, ha pronunziato un'orazione funebre. Gli era venuta bene, ha raccontato, e allora arrivato a casa ha riletto il testo, gli è parso bello e ha deciso di farlo circolare in Internet: nel giro di tre giorni ha ricevuto 15 megabyte di condoglianze: un'intera comunità virtuale si è sostituita alla piccola e stretta comunità tradizionale colpita dal lutto e inevitabilmente ha dissolto il lutto in una grande chiacchiera planetaria.
Nella letteratura contemporanea sembrano esserci parecchi fenomeni che vanno in parallelo con quelli evocati dagli storici dell'arte. E però le cose sono più complicate di così, e c'è anche un ritorno dei generi forti, addirittura forse un ritorno delle gerarchie. Non è solo Harold Bloom che, come una voce disperata nel deserto cerca di difendere i momenti sublimi della letteratura. Ci sono modi e generi letterari che avevamo considerato spacciati, a causa dei cambiamenti nelle istituzioni, nel mercato letterario, nel pubblico, che invece ritornano. Saranno casi di autoconservazione della letteratura, ma quello che si avverte nella nuova atmosfera postmoderna è una forte resistenza della poesia, nei suoi generi più alti e tradizionali, persino nelle sue forme lunghe (il poemetto, il romanzo in versi), con risultati che avrebbero fatto stupire Edgar Allan Poe. Lo stesso discorso, sorprendentemente, si può fare per il romanzo tante volte dichiarato morto, sottoposto alla dissoluzione delle avanguardie, che ritorna trionfalmente nelle sue forme e modalità più tradizionali, come il romanzo storico, il romanzo ciclico, e, presi dal romanzo di consumo, tutti i generi fissi e minori: il giallo, l'avventura, lo spionaggio, e così via. I giovani scrittori con grande spregiudicatezza (e meritandosi sorprendentemente il patrocinio dei vecchi avanguardisti del Gruppo '63) sembrano non avere remore davanti ai generi tradizionali, davanti a nessun genere, si direbbe. Da un certo punto di vista si può dire, forse, che dopo le esperienze della modernità, si avverte un ritorno alle forme tradizionali o a una situazione insomma premoderna o settecentesca.
Su una situazione così contraddittoria sospendo il giudizio, evito di pronunciarmi, vi invito a discuterne, perché mi sembra una situazione interessante.
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