Thea Rimini
Università di Liegi

«Le macchine probabili» di Antonio Tabucchi1

 

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Sommario
I.
II.
III.
Tra contesto...
...e testo
«Le macchine» come laboratorio di scrittura


Nel 1995, l'anno successivo a Sostiene Pereira, Tabucchi pubblica su «MicroMega» una serie di brevi testi intitolati Le macchine probabili.2 In realtà, si tratta di una riedizione perché erano già apparsi, tra il 1971 e il 1972, sulla rivista «il Caffè».3 A introdurre Le macchine, su «MicroMega», è un trafiletto firmato da Tabucchi che ci fornisce importanti notizie sulla loro composizione:

«Questi testi sono del 1968. Risalgono ai miei anni universitari, quando studiavo a Pisa con Luciana Stegagno Picchio e Silvio Guarnieri. Li feci leggere a Silvio Guarnieri, mio professore di letteratura italiana contemporanea, amico di Italo Calvino che si occupava allora di quella bella e bizzarra rivista che era "il Caffè" [...]».4

Ecco delineato il contesto in cui nascono Le macchine - gli anni pisani di Tabucchi - con i nomi di Stegagno Picchio e Guarnieri che diventano i mentori dello scrittore esordiente. Sempre nella nota introduttiva di «MicroMega», Tabucchi spiega la natura di questi testi:

«Erano scherzi, abbozzi, progetti che poi in qualche modo ho ripreso nei miei scritti posteriori. Ho sempre avuto tendenza a bruciare possibili romanzi in raccontini di poche pagine. È una tendenza che già si vede in questi scritti acerbi. Ma in fondo è anche una scommessa. Perché, come dice Borges, a che scopo scrivere un romanzo di trecento pagine se la stessa cosa si può dire anche in tre pagine? (Non so se la citazione sia esatta, vado a memoria).
Come che sia, consegno qui le prove della mia giovinezza. Avevo venticinque anni, mi piaceva scrivere, e non sapevo ancora che sarei diventato uno scrittore».5

Scherzi, abbozzi, progetti, prove: cominciati nel '68 e finiti nel '70, questi scritti, eccentrici e folgoranti, sono esperimenti di un Tabucchi che, studente all'università di Pisa, è alla ricerca di una sua lingua, di una sua voce; sono un laboratorio di temi e di immagini che troveranno uno sviluppo negli anni a venire. Uno straordinario dizionario di oggetti improbabili che analizzeremo in quest'articolo.

 

§ II. ...e testo

 

I. Tra contesto...

Nella sezione «I collaboratori di questo numero» de «il Caffè» dove Tabucchi, nel 1971, pubblica la prima serie delle Macchine, ci si imbatte in una situazione che ben introduce all'atmosfera paradossale dei testi. Così lo scrittore esordiente (non) viene presentato ai lettori:

«ANTONIO TABUCCHI: questo testo ci fu mandato, pochi giorni prima della Sua scomparsa, da Niccolò Gallo, il caro grande amico il cui rimpianto durerà sempre. Come tutte le scelte di Niccolò, anche questa è stata ottima - giudichi il lettore: noi non abbiamo avuto la minima perplessità. Ma fino ad oggi ci è mancato il contatto diretto con questo singolare scrittore: l'illuminata mediazione di Niccolò è stata purtroppo interrotta (il Suo apporto prezioso alla letteratura italiana d'oggi). Preghiamo quindi Antonio Tabucchi, che non sappiamo come raggiungere altrimenti, di mettersi in comunicazione con noi».6

Probabilmente allora è stato Silvio Guarnieri, che Tabucchi aveva ricordato nella nota su «MicroMega», a segnalare i testi a Niccolò Gallo che, a sua volta, li avrebbe mandati a «il Caffè». Da notare anche il deciso apprezzamento mostrato dalla redazione nei confronti del nuovo e «singolare» scrittore di cui vengono fornite rapide notizie nel numero successivo:

«ANTONIO TABUCCHI, di cui omettemmo le notizie sul numero scorso, in occasione del Dizionario delle Macchine Probabili (nei prossimi nn. una nuova serie): 1943, Pisa, dove risiede. Ha pubblicato Petit dictionnaire abrégé du Prolixisme, Bâle 1969, in collaborazione con Alexandre O'Neill; e La parola interdetta. Poeti portoghesi surrealisti, Torino 1971».7

Queste poche righe completano il contesto in cui nascono Le macchine, tra Pisa e il Portogallo.8 Da una parte, la frequentazione assidua del poeta surrealista portoghese Alexandre O'Neill (e con una tesi sul surrealismo portoghese Tabucchi si laurea a Pisa nel 1969); dall'altra, la cerchia pisana: Silvio Guarnieri, docente di letteratura italiana e Luciana Stegagno Picchio che nello stesso ateneo insegna letteratura portoghese. Sarà lei a introdurre Tabucchi all'amico Giorgio Manganelli che, come vedremo, sarà un modello per Le macchine.
In questo dizionario meccanico, O'Neill è presente sia come autore che come personaggio. Del primo ruolo testimonia la macchina Conversaziofono tratta da un'opera che Tabucchi avrebbe scritto a quattro mani con il poeta surrealista portoghese:

«CONVERSAZIOFONO
"Piccola scatola con parlatore-ascoltatore incorporato, manoestrabile, funzionante (o no) numerodigitatamente secondo la composizione circolare delle basilari cifre numeriche arabe"
(Antonio Tabucchi, Alexandre O'Neill, Petit Dictionnaire Abrégé du Prolixisme, Bâle, 1969)».9

Naturalmente il dizionarietto abbreviato della lungaggine - che è già una contraddizione in termini - non esiste; il luogo di edizione, Bâle, non indica Basilea, ma è una "balla". L'ironia si delinea quale componente essenziale degli scherzi tabucchiani de «il Caffè». In un'altra macchina, il Larastro, O'Neill figura invece come amministratore della S.p.A. che produce il misterioso elettrodomestico dai possibili effetti nefasti: «in caso di incidenti dovuti a difetti di origine (estremamente improbabili), si accettano reclami solo se accompagnati dai relativi certificati di decesso».10
Quanto al polo italiano, Stegagno Picchio e Manganelli si fanno a loro volta personaggi nel Philolofago, una divertente presa in giro delle dispute filologiche, della filologia che diventa talvolta "filofagìa" e arriva a inghiottire lo stesso filologo smarritosi tra le ricerche testuali.11 Il narratore riferisce di una cena a Roma del '69 in cui si è disquisito del postscriptum di una lettera di Pomponio Mella: «Noli obliterare philolophagum meum». L'«illustre professoressa» - Stegagno Picchio - avrebbe avanzato l'ipotesi che il Philolophagum facesse parte delle «anatomie mobili» di uso rinascimentale e Manganelli le avrebbe chiesto: «Credi che ciò possa avere una qualche attinenza col braciolofilo aggeggio per il quale, peraltro, la mia persona avrebbe rappresentato un succulento manicaretto?».12 Dagli assurdi scambi tra i convitati viene fuori uno spassoso ritratto di una cena intellettuale romana. Accanto al surrealismo portoghese e alla lezione manganelliana, è evidente il debito contratto da Tabucchi nei confronti del surrealismo francese. La macchina Matatepam, ad esempio, è stata attribuita a Marcel Duchamp: è un congegno capace di fornire stimoli erotici ai papi ma che, una volta azionata, è impossibile arrestare; e il modellino in cartone del Saponificatore fu costruito da Picabia.13
Le macchine avrebbero dovuto essere riunite in un libretto e uscire per l'editore Scheiwiller nella collana "All'Insegna del Pesce d'Oro". Nell'archivio della casa editrice è stato infatti ritrovato il dattiloscritto omonimo; sul fascicolo, in copertina, compare la data «6/4/77» apposta a mano da Vanni Scheiwiller.14 Tuttavia, l'invio dell'opera deve essere retrodatato come dimostra la lettera di Tabucchi a Scheiwiller che risale al 1975 e restituisce l'inconfondibile timbro ironico della voce dello scrittore:

«Egregio Signor Scheiwiller,
si dice che chi tace acconsente. Lei forse dissente. Comunque, tace. E fa bene, perché il silenzio è d'oro.
Qualche anno fa, chissà se due o più, Le mandai, per consiglio dell'amico Amedeo Giacomini, un mio Dizionarietto delle macchine probabili. Ma Lei tacque. E pazienza. [...]».15

Il dattiloscritto delle Macchine deve essere allora antecedente al 1975 e la data del 1977 probabilmente sarà stata apposta da Scheiwiller in anni successivi, forse in fase di riorganizzazione dell'archivio (la Scheiwiller libri viene fondata nel 1977). Stando alle parole di Tabucchi, il volumetto sarebbe prossimo ai testi pubblicati su «il Caffè». Inoltre, esso contiene sei macchine che non si ritrovano in rivista - Brugliolo, Honagru, Portacaccole, Sburicatore, Telezonzero, Vertibello - e «il Caffè», a sua volta, presenta tre macchine in più rispetto al progetto editoriale: Gobò, Momificator, Prognometro. Sono testi dall'andamento più narrativo e più ampio rispetto alle Macchine dattiloscritte:16 è come se Tabucchi avesse voluto realizzare un dizionarietto più sperimentale, e meno narrativo, per la pubblicazione in volume e avesse proposto un materiale più vario ed eterogeneo su «il Caffè».
Al di là dei problemi di datazione che allo stadio attuale delle ricerche non possono essere risolti, il frontespizio del dattiloscritto ci fornisce una preziosa informazione: Le macchine probabili. Con quattro collages e un ready-made dell'Autore. Nelle intenzioni di Tabucchi, Le macchine avrebbero allora dovuto essere accompagnate da collages - che adesso sono conservati nell'archivio privato di Lisbona - a comporre un suggestivo iconotesto.17

 

§ III. «Le macchine» come laboratorio di scrittura

 

II. ...e testo

Di solito, le macchine hanno uno scopo, sono progettate e costruite per un fine. Lo sono anche quelle probabili, ma la loro utilità è talvolta difficile da decifrare. Il procedimento adottato da Tabucchi è paradossale: vengono fornite istruzioni precise su come costruire gli aggeggi (è il caso dell'Acchiappapiettorbie), su come azionarli (il Larastro) o su come usarli, ma spesso non si sa a cosa servano. Così per la Baùmia, macchina su cui torneremo nella conclusione del saggio:

«Mai usare la Baùmia a freddo o davanti a uno specchio. Si sa di un tale a Sidney che non prese tale precauzione e finì miserabilmente, vittima della sua ingenuità. Non immaginava neppure quello che può produrre una Baùmia davanti a uno specchio».18

Altre volte invece l'uso è facilmente deducibile dal nome, come per il Godenzio, congegno ideato per arrecare godimento, o per il più prosaico Portacaccole.
Le macchine di Tabucchi sono inquietanti, aggeggi spesso infernali e mutanti in cui l'umano e il metallico danno vita a un mostruoso innesto. La Bighèra, dalla «combinazione metallica» e dalle «zampette platinate»,19 tiene in ostaggio Vincent a Parigi impedendogli di raggiungere la sua Anna a Vienna; o la Faloppa, dalle «mani così umane», si è ribellata ai suoi creatori e ora ha imposto il suo giogo in un luogo e in un tempo imprecisato (nella Faloppa è evidente il confronto di Tabucchi con il genere distopico): «Moriremo tutti con lei, noi, i suoi padri?» s'interroga angosciato il narratore.20
Ci sono persino delle macchine delle torture, come lo Scrivente che arriva dalle pagine de Nella colonia penale di Kafka. Custodito in un negozietto di antiquariato di Praga, è costituito da una sagoma d'uomo piena d'aghi che si abbassa su una sorta di branda e «i suoi aculei improvvisavano una piccola danza di contrazioni e di erezioni».21
Altre macchine hanno invece impieghi più quotidiani: e il tono drammatico cede il passo all'accento umoristico, quasi Tabucchi volesse saggiare tutte le potenzialità espressive. La tipologia di Portacaccole identifica, ad esempio, il carattere del suo proprietario. Dal «bruno portacaccole in cuoio (in finta pelle o sky per i meno abbienti)»22 usato dagli «esibizionisti» al «cristallino anello, puntualmente riposto, dopo ogni uso, in un immacolato cappuccio di velluto cremisi» prediletto dagli «indefessi lettori di Proust» al «vetusto quadrante di un avito orologio da taschino» usato dagli «introversi» e ammiratori di «Taillard de Chardin» fino ad arrivare ai «vestibolanti del portacaccole» che si rifiutano di utilizzare un portacaccole e le attaccano dappertutto: «sono litigiosi, affannati, impudicamente linguacciuti, laureati in filosofia, venerano Adorno». In una vivace desacralizzazione di scrittori e intellettuali.
Le macchine di Tabucchi sono macchine che esprimono un tecno-pessimismo, l'artigianato ha sempre la meglio sulla tecnologia più avanzata: «Di Castex ne esistono due modelli [...]. Però si usi il vecchio tipo come si faceva una volta»;23 o la Dea-ex-machina che, finché era azionata da astrusi congegni artigianali produceva «inuguagliabili effetti miracolistici», ma ora «calata da una volgare gru impiegata nell'edilizia» o da «asettici ascensori di plexiglass» ha perso ogni alone di mistero.24 C'è una nota di nostalgia che attraversa questi testi, una nostalgia per un tempo passato che si avverte irrimediabilmente lontano: di fronte all'avanzare della sterile tecnica, l'unica possibilità di resistere è opporle una tecnica improbabile e una lingua inattuale, che fa uso di arcaismi e costruzioni sintattiche desuete.25 Anche il racconto può opporsi al senso di perdita e così i servitori della Faloppa, ostaggio della macchina, sfidano il negativo: «Ci raccontiamo le lettere che non possiamo più scrivere, reinventiamo le persone che non esistono più».26
Se dovessimo indicare il protagonista di questi testi, potremmo identificarlo nella lingua, una lingua che a volte si mette al servizio del racconto, ma che più spesso è lei stessa racconto: nelle Macchine le parole diventano parole-corpo. Seguendo inusuali tangenze foniche, i termini si affastellano in disordine sulla pagina a rappresentare il disordine del mondo, l'impossibilità di una modalità d'espressione binaria. In una sorta di ebbrezza fonica, come per il Bagege:

«Ciarla, pigola, va in sollucchero, sdrucciola, incalza e avventa, richiama l'attenzione, bagisce pietosamente, detesta l'umidità, arriva fino al sorriso, apostrofa con diffidenza, detesta gli ottonari, intristisce tutti i tramonti, singhiozza quando gli capita, crea problemi di tutti i generi, ma non c'è di meglio per compagnia».27

Attraverso un'enumerazione con catene allitteranti (intristisce tutti i tramonti), Tabucchi costruisce quasi un indovinello, è come se alla fine del testo ci aspettassimo di trovare la domanda "Che cos'è?" E che cos'è allora il Bagege? Un bambino? Un cane? O forse solo il linguaggio lasciato a briglie sciolte?
Talvolta l'esuberanza linguistica si fa espressionismo aggressivo: «[...] ascolto la pulsazione aritmica dei rigurgiti, l'oscillazione combinatoria dagli ipotetici contorni, il ventaglio elissoidale dei suoni appena smorzati della Bighèra»;28 o prende forma nelle dieresi e accenti gravi collocati sui nomi delle macchine: Baùmia, Bighèra, Biccïucca, Picciàcca. E il narratore va spesso a caccia di improbabili etimologie:

«L'etimologia del nome [Bobozuela] resta oscura. È stato ipotizzato che derivi da bobo (pagliaccio), perché come pagliaccio era deriso il disgraziato condannato a subirla. Ma potrebbe anche derivare dal berbero al-boba (la brocca)».29

La lingua delle Macchine non è solo quella densa di astrazioni e di cultismi, di arditezze e bizzarrie, ma è anche quella dei detti30 e delle filastrocche toscane che rivelano il gusto di Tabucchi per la musica popolare, i motivi che in Requiem definirà «barati», a buon mercato, prendendo in prestito il verso di una poesia di Drummond de Andrade. Nel testo per la macchina Telezonzero è tutto un rincorrersi festoso di toscanismi («uzzolo») e filastrocche: «Lo "staccia-buratta" era il mattino della gatta, la gatta andava al mulino a fare un focaccino, lo faceva con l'olio e col sale... buttalo buttalo in mare!».31 In un sorprendente impasto linguistico.
Molti sono i testi à la manière de e vengono presentati come se fossero stati scritti da autori dell'antichità fino al Novecento. Nei Remedia amoris Ovidio parlerebbe della macchina Sburicatore,32 mentre Puccini, in una lettera a Carducci, menzionerebbe il Vertibello, una sorta di esca simile a un «occhio vulvare».33 Particolarmente riuscito è il Beatificatore, una macchina capace di riconoscere la santità dei pontefici e porre così fine alle dispute sulle beatificazioni. La storia, inventata, viene offerta al lettore come se fosse tratta dall'Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi con tanto di indicazione bibliografica: «Libro 2°, cap. IX».34 E la lingua stavolta si diverte a riprodurre le movenze tardo cinquecentesche: «Li imperiali, anco quelli medesimi [...]».35 Per questa macchina, Tabucchi aveva realizzato un collage in cui una sorta di cilindro con coperchio semiaperto sormontava il concistoro degli ecclesiastici.
Il dattiloscritto si chiude, prima dell'appendice, con il Visiotymbale, macchina "menzionata" da Proust nella Recherche: un congegno capace di produrre visioni che «rapivano [...] in un mondo magico»,36 come del resto fa la letteratura.
Nelle Macchine la scrittura allora falsifica sia la Storia che la letteratura: «la scrittura falsa tutto, voi scrittori siete dei falsari», dirà tanti anni dopo Tristano.37 Ma a quest'altezza cronologica il modello della letteratura come menzogna è Manganelli. Non a caso, sempre su «il Caffè» e nello stesso anno della seconda serie delle Macchine, Tabucchi pubblica il testo Scoperta di una vocazione con il sottotitolo Un testo inedito di Giorgio Manganelli a cura di Antonio Tabucchi.38
In un vertiginoso gioco narrativo, il narratore informa di trascrivere il post-scriptum di una lettera inviata da suo padre, Antonio Tabucchi, a Manganelli nell'ottobre del 1955. La vocazione di cui il padre informa l'amico Manganelli è la passione per schedare i corpi dei suicidi. Tutto, continua il mittente, è cominciato in seguito al ritrovamento del corpo senza vita della vicina Adelaide, «signorina sessantenne, fervente factotum della locale Azione Cattolica».39 L'omaggio a Manganelli è evidente, ma la capacità di cogliere nel giro di una frase l'essenza di un personaggio - la triste zitella Adelaide - è tutta tabucchiana.

 

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III. «Le macchine» come laboratorio di scrittura

Al di là delle tangenze con il surrealismo portoghese (e francese) e con la ricerca manganelliana, le Macchine, ed è questo l'aspetto che più interessa, contengono in filigrana elementi del Tabucchi maturo. Come diceva Remo Ceserani, Tabucchi è uno scrittore in cui «le continuità prevalgono sulle discontinuità».40 Ciò non significa che Tabucchi non spiazzi il lettore, che sviluppi nuovi modi narrativi, ma ci sono temi, ossessioni, situazioni che ritornano da un libro all'altro: una nota di fondo costante e distintiva che identifica il suo universo e che si rintraccia già in questi primi testi.
Cominciamo dal rovello del tempo. «Due anni sono lunghi a passare, a volte sono brevissimi»,41 scrive da Parigi Vincent alla sua Anna abbandonata a Vienna perché lui è ostaggio di una mostruosa Bighèra (e la lettera, unidirezionale, sarà una forma privilegiata dal Tabucchi successivo). Quello in cui vive Vincent è un tempo largo, impossibile da calcolare secondo i parametri tradizionali. Spesso poi i personaggi hanno «scarso rigore nel controllo del tempo» come il povero signor Constant alle prese con il Prognometro, macchina capace di formulare previsioni. Si toglierà la vita perché, seguendo il vaticinio che gli annunciava una grande fortuna per il 21 marzo, contrae una serie ingente di debiti senza però che la fausta previsione si avveri. Se invece avesse avuto un maggiore controllo dell'orologio, la sua vita non sarebbe stata in pericolo:

«[...] a mezzanotte precisa (la vera mezzanotte, giacché l'orologio del signor Constant andava avanti di sei minuti e quaranta secondi, come risultato dal rapporto della polizia) suonò il postino [...]. Se avesse potuto aprire avrebbe letto nel telegramma che una zia dimenticata lo aveva nominato unico erede della sua colossale fortuna».42

Accanto al tempo che gioca brutti scherzi ai personaggi tabucchiani, c'è il tempo che invecchia e che si avverte come perduto, l'epoca delle macchine costruite in modo artigianale di cui si è già detto. Una nota di fondo malinconica incurva molte prose: le Biccïucche sviluppano «un ricamo di una malinconia struggente»; il narratore al servizio della Faloppa afferma che «Eppure, se non fosse per la nostalgia, la nostra giornata potrebbe passare quasi allegramente» mentre la sera è «malinconica»; il fanciullo della città caldea di Ur parla con un «accento gutturale e malinconico», Natalino ha un sorriso «che non sapevo se era malizia o malinconia».43 Ma non è una nostalgia di primo grado, semmai di secondo o di terzo, è come se l'autore, dietro le quinte, si prendesse gioco del senso di nostalgia instillato nel lettore.
A volte, poi, la nota malinconica è disinnescata da una trovata caustica finale, come avverrà in tante lettere "cattive" di Si sta facendo sempre più tardi.44 Nell'epistola prima ricordata, Vincent, dopo aver parlato all'amata Anna della Bighèra che ha distrutto il loro sogno d'amore, chiude con uno spiazzante «Ti penso quando posso e ti saluto caramente».45
Il tempo, in Tabucchi, è poroso, e lo è sin dalle Macchine che mettono in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. C'è un testo, Gobò, che sembra anticipare i racconti stregati de Il gioco del rovescio e di Piccoli equivoci senza importanza.46 Il protagonista è un uomo, Martino, che al Luna-Park decide di provare il Gobò, la macchina che «VI FARÀ ESSERE CHI AVETE SEMPRE DESIDERATO-SPESA MODICA INGRESSO LIBERO».47 Il lettore non saprà in chi si trasformi Martino ma la reazione della moglie al suo ritorno a casa fa supporre che assuma le fattezze del padre morto suicida quando Martino era ancora un bambino. Il confronto fra i due momenti - Martino bambino che chiede conferma al padre che la luna sia d'oro e Martino adulto che, dopo aver provato il Gobò, si sente rivolgere la stessa domanda dal figlio - rivelerebbe la perturbante analogia. Cominciamo dalla situazione che vede protagonista Martino bambino:

«Mamma, di che colore è la luna? Lei alzò gli occhiali sulla fronte e posò il lavoro sulle ginocchia; è gialla, disse. Rimase ritto sulla porta, con una mano attaccata alla maniglia, indeciso. Gialla, e perché gialla? Perché la luna è d'oro, disse la mamma. Martino si voltò e fece per andarsene. Chiudi la porta, gli ordinò la mamma. Fu allora che vide suo padre. Stava entrando dal cancelletto e gli faceva un cenno di saluto con la mano. Papà, papà, gridò correndogli incontro, è vero che la luna è d'oro? Era allora che la mamma aveva gridato, e poi i vicini erano accorsi, e i pianti e i rimproveri».48

In modo simile, Martino adulto è accolto dal figlio quando torna a casa dopo aver provato il Gobò al Luna-Park:

«Quando arrivò [Martino] davanti a casa sua il sole era già alto. Spinse il cancelletto ed entrò nel giardino. Il bambino era sotto il portichetto, sull'uscio di casa, e gli girava le spalle. Aveva un libro in mano, parlava con qualcuno in cucina, con la nonna, forse, o con Annamaria [la moglie di Martino]. Il bambino si volse e lo vide, gli si aprì un sorriso luminoso e gli corse incontro a braccia aperte. Papà, papà, è vero che la luna è d'oro?
Dalla cucina gli giunse l'urlo di Annamaria. Un urlo breve, lacerante disperato».49

In modo inquietante si (s)chiude la vicenda di Martino. Da un lato, Gobò sembra anticipare la situazione fantastica de I pomeriggi del sabato50 in cui il padre morto del narratore ragazzino fa forse ritorno a casa in un'estate torrida; dall'altro quella somiglianza perturbante tra Martino e suo figlio (vedendo una foto del marito da piccolo, la moglie «Aveva detto che se non fosse stata per la cartolina vecchia e sciupata agli angoli e per gli abiti di una volta [...] neanche lei avrebbe saputo distinguere il figlio dal marito»51) introduce il tema del doppio che sarà al centro di molte opere tabucchiane da Notturno indiano a Il filo dell'orizzonte.52
Accanto al nodo del tempo e ai suoi cortocircuiti, il gioco è il tema più presente nelle Macchine. È, per così dire, un gioco a due dimensioni: c'è il gioco surrealista con la lingua, ma c'è anche il gioco serio come possono esserlo quelli dei bambini secondo una lunga tradizione che va da Gerolamo Cardano a Johan Huizinga53 (e, si ricorderà, Tabucchi si è sempre schierato contro la deriva ludica di certa letteratura degli anni Ottanta).
Proprio attraverso i giochi, Tabucchi ci consegna il ritratto di un'epoca, o meglio della fine di un'epoca: la provincia italiana con i suoi rituali e i suoi divertimenti che negli anni Sessanta comincia a sgretolarsi per l'arrivo della televisione, la macchina Telezònzero.54 In una lettera aperta al Signor Presidente (della Repubblica?), il cittadino Tabonio Antucchi - evidente anagramma del nome dello scrittore - ripercorre i giochi che «una volta» scandivano le diverse fasi dell'infanzia e della giovinezza. Dal «gioco del perché» allo «staccia-buratta» al girotondo alla campana alla cruscherella al battimuro. E intanto sfila la società italiana di quegli anni con una presenza massiccia della Chiesa tra «suor benedette» commosse dal girotondo e «future factotum dell'azione cattolica» sedotte da mosca-cieca, tra «ragionieri nati» e «ade negri». Quel tipo di gioco aveva persino il potere di azzerare le differenze sociali e così «gli spocchiosi ragazzini» in villeggiatura finivano per sfidarsi a battimuro con i «ginocchiasudice» locali. Il ritmo festoso di una volta precipita in un desolante ora:

«Ma ora che tutto questo non esiste più, ora che perfino la scuola ha istituzionalizzato il Telezònzero, ora, domando io, Signor Presidente, dove andremo a finire?
         Tabonio Antucchi, cittadino fiorentino»

Ritorna, in una declinazione ludica, l'antitesi, più volte richiamata, tra il tempo, inventivo, dell'allora e quello, abulico, dell'ora, faglia che nessun gioco potrà più richiudere.
Le Macchine non sono solo un serbatoio di temi che Tabucchi svilupperà negli anni successivi, ma anticipano l'architettura delle sue storie. La musica popolare delle filastrocche o dei detti toscani55 è inserita in tessuti narrativi sperimentali, (neo)avanguardistici, a volte di ardua decifrazione, che nulla hanno del colore locale. Allo stesso modo, nei racconti e nei romanzi successivi le canzonette scandiscono le giornate di molti personaggi all'interno di strutture narrative tutt'altro che popolari, tramate da non detti e congedate da finali aperti (si pensi a Volare che allieta i pomeriggi di Ettore in Lettera da Casablanca o a quell'opera eversiva che è Tristano muore e che si inaugura con il motivetto di Rosamunda)56. Nelle Macchine sono insomma già in atto le due forze, uguali e contrarie, che sottendono alla costruzione delle opere di Tabucchi: la resa scrupolosa di tutta una serie di dettagli (qui il modo di funzionamento delle macchine o le istruzioni da seguire per azionarle) si accompagna a una narrazione disseminata da buchi (spesso non sappiamo nemmeno a cosa servano questi congegni di cui il funzionamento è descritto in modo così puntuale).
In questa direzione, un caso estremo è costituito dall'Arianografo. L'ellissi risucchia la storia della macchina dal nome stavolta abbastanza parlante (serviva, durante la guerra, a misurare il grado di arianità dei malcapitati) e il lettore rimane disorientato:

«La sua storia, quanto meno curiosa, mi è stata raccontata dal signor Afrânio Coutinho Teles, di Oporto, commerciante in vini pregiati. Ragioni di brevità e di pudore mi suggeriscono di tacerla; chi avesse curiosità di conoscerla può farne richiesta all'autore di queste righe, via Trieste, 10, Pisa.»

L'indirizzo è lo stesso di quello riportato, a mano, sulla prima pagina del dattiloscritto delle Macchine, giocando tra biografia e finzione. Segue una nota succinta in cui anticipa «brevi informazioni»:

«Secondo quanto attesta il signor Coutinho, il costruttore della macchina risulta essere tale Kurt Inelmann, ingegnere meccanico tedesco naturalizzato inglese, amministratore della ditta Sandeman & Company, deceduto nel 1950 a Bedford in seguito a incidente stradale».57

Il lettore potrà soddisfare la sua curiosità soltanto leggendo la macchina Arianografo pubblicata su «il Caffè» dove la storia invece viene raccontata (in linea con quella tendenza più narrativa già evidenziata nei testi editi su rivista). Il portoghese adesso incontra il tedesco a Londra e la sera della resa agli alleati il signor Kurt gli mostra, nelle sue cantine, l'arianografo ormai «inutilizzabile»: «Il tempo mi ha giocato», commenta.58 E saranno tanti i personaggi tabucchiani a cui il tempo giocherà dei tiri mancini.
Attorno a un doloroso non detto è costruita anche la lettera scritta da Vincent ad Anna, più volte ricordata, in cui l'uomo giustifica il fatto di averla abbandonata con la sudditanza alla Bighèra. Ma cos'è poi questa Bighèra?

«Cara Anna,
forse avevi sempre immaginato che sarebbe successo, prima o poi. [...] A che vale parlarti di lei [della Bighèra], spiegarti... e che cosa?».59

Il sistema di pieni e vuoti adottato da Tabucchi nelle Macchine non è lontano da quello che trionferà in Lettera da Casablanca in cui le descrizioni puntuali di volti, canzonette, sapori, che hanno popolato l'infanzia del narratore e della sorella convivono con un'enorme voragine che ha sconvolto quell'infanzia:

«Perché io me la ricordo bene, quell'anno, dico l'anno in cui fu abbattuta la palma, avevo dieci anni, era sicuramente d'estate, e il fatto successe in ottobre, una persona possiede perfettamente la memoria dei suoi dieci anni, e io non potrò mai dimenticare quello che successe quell'ottobre. Ma piuttosto il signor Quintilio, te lo ricordi? Faceva il fattore in un podere a circa due chilometri dal casello, dove a maggio andavamo a cogliere le ciliegie, era un omino nervoso e allegro che raccontava sempre barzellette [...]».60

Le Macchine si rivelano un'officina inesauribile di temi e tecniche per il futuro Tabucchi narratore. L'appendice: Storia autentica di una macchina probabile Sin dagli esordi, Tabucchi coltiva il gusto del paratesto. Il dattiloscritto delle Macchine si chiude con un'appendice intitolata Storia autentica di una macchina probabile, un testo più lungo degli altri che viene pubblicato anche su «il Caffè» senza però la menzione di «appendice».
La Storia autentica di una macchina probabile si svolge nell'aprile del '49, in un paese della campagna (toscana) situato tra un fiume e le colline. Le giornate del ragazzino narratore trascorrono tra scambi di figurine di Bartali, processioni, e giri in bici con l'amico Natalino. L'atmosfera di quest'appendice ricorda il realismo magico che troveremo in Piazza d'Italia con quel mago Genovino che aveva centovent'anni ma ne dimostrava cinquanta e che invece dell'orologio possedeva una scimmia «che dava l'ora esatta con dei colpi di tosse».61
Natalino è gobbo, ma compensa la deformità fisica con l'inventività verbale (quella di cui Tabucchi stesso ha dato prova nelle Macchine):

«Sgovonitore, però, era un nome inventato da noi. L'aveva inventato Natalino, che con le parole ci sapeva fare. Natalino parlava con quelle poche parole, ma quelle poche dicevano come nessun'altra [...] Natalino si sfogava con le parole perché era gobbo, e tante cose come noi non le poteva fare».62

In Natalino potremmo allora rintracciare quello che Tabucchi, diversi anni dopo, definirà «il fenotipo» di molti suoi personaggi: «un personaggio sconfitto ma non rassegnato, ostinato, tenace».63 Sin dagli esordi, in Tabucchi, il corpo è fragile (Gavure, in Piazza d'Italia, è anche lui gobbo) e negli anni questa fragilità si accentuerà sempre di più per culminare nel corpo malato di Tristano e dello scrittore di Clof, clop, cloffete, cloppete tormentato dai dolori alla colonna vertebrale.64 Ma torniamo alla Storia autentica di una macchina probabile. «Sgovonitore» è il nome che Natalino ha dato alla macchina, attrazione della fiera, che permette di trasformarsi in qualsiasi cosa o persona si voglia. «Sgovonire» è una parola polisemica che può indicare diverse cose: imprese audaci o voglia matta di fare qualcosa; quello di Natalino è un linguaggio altro rispetto alle espressioni consuete, è «il nostro linguaggio di cui nessuno all'infuori di noi possedeva la chiave». C'è già insomma la consapevolezza che il rapporto tra le parole e le cose non è biunivoco, che le parole possono avere un dritto e un rovescio, come quel gioco che la Maria Do Carmo de Il gioco del rovescio amerà fare nella sua infanzia bonairense.65
La macchina Sgovonitore funziona e Natalino si trasforma in un gabbiano, s'innalza in cielo, si posa sulla testa della statua di Garibaldi (che ritorna in Piazza d'Italia)66 «appena il tempo di cacargli sul naso» e, dopo aver salutato l'amico con due stride, si dirige verso il mare. Il volo di Natalino sembra anticipare quello di Leonido ne Il piccolo naviglio che sfida la legge di gravità67 e, metanarrativamente, può anche essere letto come il volo di Tabucchi verso nuovi lidi narrativi.
Il lettore avrà colto le numerose analogie tra due macchine probabili, lo Sgovonitore e Gobò, entrambe capaci di trasformare chi ne fa uso nell'uomo o nell'animale che ha sempre desiderato essere, ma i toni delle storie sono ben diversi. In Gobò il paesaggio non è quello della campagna in cui scorrazza Natalino, ma si è degradato: il fiume «pareva di catrame» e c'è una fabbrica di vetro con una sirena che scandisce i turni con gridi «rauchi».68 Anche la proprietaria della macchina, una vecchia dalla «grassezza mostruosa», è ben diversa dall'aura che circonda Govino con «due sottili baffi rossi che parevano un rigo di marmellata».69 Ma soprattutto se lo Sgovonitore si chiude con il volo liberatorio di Natalino, Gobò termina con l'urlo della moglie di Martino quando lo vede varcare la soglia dopo aver subito una mostruosa metamorfosi. Attraverso Gobò e lo Sgovonitore, Tabucchi sonda lo stesso spunto narrativo sperimentandolo su due registri, l'uno lieve e scherzoso - lo Sgovonitore - l'altro greve e drammatico - il Gobò. Alla ricerca del timbro più efficace.
La storia dello Sgovonitore non fa parte solo della serie delle Macchine, ma è spalmata su più capitoli del romanzo, rimasto inedito, intitolato La bottega dei fischi. Romanzo minimo.70 Scritto agli inizi degli anni Settanta e conservato sempre nel fondo Scheiwiller, il romanzo ha per protagonisti non persone ma oggetti: i fischi da richiamo per gli uccelli e la bicicletta. Oggetti, sì, ma che si portano dietro un'atmosfera e soprattutto un'epoca: l'Italia degli anni Cinquanta vista dalla specola di un paese della campagna toscana tra il fiume Serchio e il padule, che è facilmente identificabile in Vecchiano. A raccontarla è un bambino che ha trascorso l'infanzia aiutando il nonno a costruire i fischi da richiamo per gli uccelli e attraversando il paese in canna alla bici dell'amico Natalino.
Sono evidenti le somiglianze con Piazza d'Italia, che sarà pubblicato di lì a qualche anno e che racconta la storia d'Italia dalla proclamazione dello stato unitario all'avvento della Repubblica attraverso le vicissitudini di un paese toscano. Nella Bottega lo spettro temporale è però meno ampio (anni Cinquanta e Sessanta), ma soprattutto la Storia interviene a sprazzi, se ne accenna solo se è collegata alla storia privata dei personaggi e non si indugia sui dettagli: il padre di Natalino tornato dalla campagna in Grecia «in una scatola» o il padre della bambina Mirella morto in un sottomarino bombardato.
Ma soprattutto, rispetto a Piazza d'Italia, cambia il punto di vista: ne La bottega dei fischi il narratore è alla prima persona, il punto di vista è interno alla storia. Un luogo, Vecchiano, e un tempo, l'Italia del dopoguerra, visti allora da uno sguardo duplice: esterno quello di Piazza d'Italia, interno quello della Bottega dei fischi. Di più. Nella Bottega, la Storia non è solo la Storia d'Italia ma è la Storia della famiglia Tabucchi, o meglio del ramo materno: il nonno Cesarino Pardella, gli zii Ferruccio e Cisello, il narratore che si chiama Tonino.
Nonostante ciò, La bottega dei fischi non è una cronaca familiare, semmai è una leggenda familiare in cui pubblico e privato interferiscono, in cui Storia e storie si mescolano, in cui il dato biografico viene ricreato dalla letteratura e il realismo trascolora nella favola. Un esempio di questo tono da realismo magico è dato proprio dall'episodio di Natalino che grazie allo Sgovonitore si trasforma in gabbiano.
Se lo Sgovonitore costituiva allora una parte de La bottega dei fischi, un'altra macchina, la Baùmia ci porta ancora indietro, ai primi racconti scritti da Tabucchi negli anni Sessanta e rimasti inediti.71 Sono narrazioni dalla grande intensità emotiva, pervase spesso da un senso di putrefazione e di morte: racconti kafkiani, altamente perturbanti.
Nel racconto intitolato L'inizio il narratore si incammina verso la stazione della sua città. Fa caldo, è estate - e l'estate è la stagione tabucchiana per eccellenza, i demoni di Tabucchi sono spesso meridiani. All'improvviso l'uomo avverte «un gran freddo [...] un sapore di sangue» e un senso di nausea. In una sorta di flashback, lo troviamo nella camera mortuaria di un ospedale davanti a un uomo a lui caro che è stato ferito al cervello. Poi si torna al presente della narrazione e a questa morte violenta se ne aggiunge un'altra, perché alla stazione viene riferito al narratore che il treno è in ritardo a causa di una donna che si è lanciata sulle rotaie. Glielo dice il barista:

«- Accidenti! -, disse lui [il barista] - sulla ruota della locomotiva c'era il cervello tutto spappolato!
- Cosa? -, dissi io.
- Il cervello.
- Senta -, dissi piano - vuol dire la Baùmia.
Mi guardò senza capire, poi disse: - Che ne dice, sarà morta?
- Chi era? -, dissi io.
- Mah! Che ne so... gliel'ho già detto. Una donna, una villeggiante di Marina.
- Era una Baùmia -, dissi io.
- Senta -, disse il ragazzo - io non la capisco. Scusi, ho da fare.
[...] Non avrei dovuto dirlo al ragazzo. Finché lo dicevo tra me poteva andare, ma non potevo dirlo agli altri. Non avevo potuto farne a meno. Era uscito da sé. La parola era proprio uscita fuori in sostituzione di tutto. Aveva sostituito tutto. Era l'accaduto, l'esattezza, la cosa in sé».72

Non sapremo molto di più sull'accaduto, ma Tabucchi, sin dagli esordi, è un maestro nel costruire la narrazione intorno a un gorgo, a un buco nero che risucchia qualsiasi spiegazione, creando un'atmosfera inquietante. Non solo. Quella parola, Baùmia, che rimanda a una verità dolorosa, profonda ma indicibile, è, si ricorderà, il nome di una macchina probabile dall'uso indecifrabile. Ma cosa significa Baùmia? Probabilmente il termine non ha un significato, è il segno di quella sfida al rapporto tradizionale, biunivoco, tra parole e cose che Tabucchi sovvertirà in modo deciso nella raccolta del Gioco del rovescio. E che ha anticipato in quella rapsodia linguistica che sono Le macchine probabili.

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