Fabio Moliterni
Università del Salento

Vieni a narrare in Puglia. Il romanzo pugliese contemporaneo

 

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Sommario
I.
II.
Identità e marketing territoriale
Primavere e inverni della narrativa pugliese contemporanea


 

§ II. Primavere e inverni della narrativa pugliese contemporanea

 

I. Identità e marketing territoriale

La narrativa pugliese contemporanea fa registrare una varietà di scritture e di esperienze che non sono facilmente riconducibili a denominatori comuni né a caratteri normativi.1 È invece la plurivocità dei percorsi individuali a connotarne gli sviluppi più recenti, almeno dalla fine degli anni Novanta in poi, in un quadro sfaccettato nel quale, tuttavia, è possibile rintracciare proposte stilistiche significative, zone di tangenza e di sovrapposizione, punti di forza e di eccellenza. Questa sostanziale pluralità di voci e di espressioni caratterizza anche gli ultimi anni, tra la spinta di una ricerca sperimentale capace di aderire ai moti ideali e materiali del tempo e un dialogo a distanza con mondi, generi e immaginari più tradizionali. Si potrebbe dire, per semplificare, che gli ultimi decenni, fino agli anni delle più recenti prove dei giovani narratori pugliesi, siano contraddistinti da una oscillazione permanente tra due poli: da un lato, la tendenza allo sconvolgimento o allo sconfinamento dei generi, la forza inventiva sul piano linguistico e la tendenza a ibridare e mescolare diverse tipologie di scrittura (autobiografia e racconto generazionale; reportage, saggio e narrazione). Dall'altro lato, e in linea con i modelli vincenti su scala nazionale in termini di mercato (come il ciclo di Montalbano di Andrea Camilleri, o L'amica geniale di Elena Ferrante), si registra anche tra i narratori pugliesi contemporanei un'istanza innovatrice di tipo moderato, che permette di riprendere e di aggiornare i generi tradizionali come il romanzo storico o di formazione, l'epica familiare, e soprattutto il racconto giallo e il poliziesco, senza rinunciare alla leggibilità e al gusto dell'affabulazione.
Del resto, così come per gli esempi citati (penso ancora a Camilleri e alla casa editrice Sellerio), anche in Puglia c'è da registrare la presenza della piccola o media editoria locale, spesso in grado di recitare un ruolo di primo piano nel contesto nazionale, che nasce e si sviluppa proprio in questi ultimi decenni, fino alla fioritura di nuove forme di aggregazione e di comunicazione come i blog, le riviste on line, che danno spazio ai giovani narratori e alle giovani scrittrici pugliesi. Fatto salvo il problema del cosiddetto apparato, della concentrazione aggressiva e delle difficoltà di distribuzione delle piccole realtà indipendenti, questo fenomeno è comunque il segno di una vitalità conflittuale e variegata della cultura letteraria pugliese, che permette soprattutto ai più giovani autori delle Puglie - sottolineo il plurale che serve a definire la molteplicità delle identità locali che compongono la regione - di esordire presso editori del territorio con romanzi e prove narrative, e quindi di trovare accoglienza nei cataloghi degli editori nazionali. Per citare soltanto alcune di queste realtà editoriali pugliesi, vanno ricordate le salentine Manni e Besa e la casa editrice nata recentemente ad Alberobello, in provincia di Bari, Terrarossa edizioni.
Per cominciare un percorso attraverso la letteratura pugliese contemporanea, conviene fare un passo indietro alla fine degli anni Settanta. Nel 1978 esce la seconda edizione di Nostra Signora dei Turchi, il romanzo di Carmelo Bene che ha conosciuto, come è noto, varie trasposizioni sceniche e una celebre versione cinematografica. Nato a Campi Salentina nel 1937 e morto a Roma nel 2002, genio del teatro contemporaneo, Bene ha frequentato la scrittura narrativa nella sperimentazione febbrile di inedite modalità espressive. Collegandosi alle tendenze neo-sperimentali allora in voga, ma nell'originalità di una eccentrica esplorazione di linguaggi e soluzioni stilistiche innovative, con Nostra Signora dei Turchi Bene compie un viaggio onirico e visionario nel «sud del Sud dei Santi», tra il «kitsch moresco» e la «cattedrale-ossario dei martiri» nella Otranto presa d'assedio nel 1480. Attraverso l'uso ardito e tellurico della metafora e del montaggio, tra apparizioni e visioni, l'autore adopera la formula narrativa in terza persona che in realtà diventa scena barocca e oltranzista per l'irruzione di voci caotiche e molteplici, che come in un'ossessione prismatica e «sfinita» tessono la trama ipertrofica e straripante di ricordi, incontri, agnizioni, incubi e sogni del protagonista-alter ego dello scrittore. Anche le altre «incursioni cartacee» di Bene in ambito narrativo, tra abbozzi teatrali e «quasi-racconti», da Credito italiano (1967) a Lorenzaccio (1986), dalle pagine autobiografiche di Sono apparso alla Madonna (1983) a Giuseppe Desa da Copertino. A boccaperta (1976), disegnano le coordinate dilatate e convulse di un'immersione nei secoli e negli «sterminati silenzi» della storia meridionale, in un Sud o in un Salento vissuti e riscritti, secondo le sue parole, come spazio abitato dalla compresenza di identità plurali: «magnifico, religioso bordello, casa di cultura tollerante confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche».2 È una scrittura, come è stato detto, che liquida in direzione barocca ogni realismo comunque codificato, per dialogare insieme con le più avanzate espressioni dell'avanguardia artistica e letteraria (Joyce, in particolare) e con la ricerca filosofica di area per lo più francese, e con le figure centrali dell'immaginario meridionale e salentino (come per il «il più grande dei santi», il «Frate Asino» alias Giuseppe Desa da Copertino).3
Autoproclamatosi «straniero nella propria lingua», Bene rappresenta un punto fermo imprescindibile in campo letterario ma soprattutto per una attività teatrale di ricerca che, non a caso, si è venuta sviluppando nel Salento sin dagli anni Settanta (penso ad esempio ai soggiorni a Carpignano dell'Odin Teatret di Eugenio Barba). Come per il teatro, anche le altri arti, dal cinema alla musica, rientrano nella cosiddetta nouvelle vague della cultura pugliese contemporanea: in area cinematografica si possono citare gli esperimenti del regista barese Alessandro Piva, con il film La capagira (1999), di Sergio Rubini o del salentino Edoardo Winspeare; in campo musicale, oltre alle rivisitazioni più o meno filologiche del patrimonio folklorico della canzone popolare, che sfociano nell'evento estivo della Notte della Taranta, vanno ricordate le sperimentazioni nel nuovo rap e nel raggae dei Sud Sound System e di Caparezza, con il suo brano Vieni a ballare in Puglia da cui proviene il titolo di questo mio intervento.
La pugliesità letteraria, la nuova identità culturale pugliese, come si può intuire da questa breve premessa, è un tema che mobilita una pluralità di metodi potenziali, di punti di vista e campi di indagine: la letteratura, certamente, ma anche le altre arti come il teatro, il cinema o la canzone; la socio-linguistica, se è vero che molte espressioni letterarie e artistiche legate all'identità regionale recuperano forme interessanti, più o meno marcate, di neo-dialettalità;4 e infine, le vicende editoriali, la storia sociale della cultura o la storia degli intellettuali, che ci aiutano ad affrontare il tema delle «mutazioni» che in questi ultimi decenni hanno influenzato la letteratura pugliese. È necessario adoperare un metodo di ricerca eclettico per tentare di ricostruire le discontinuità e i «mutamenti impercettibili» nella più recente storia letteraria pugliese, quelle che Foucault chiamava nel suo Archeologia del sapere «nascite silenziose, [...] corrispondenze lontane, [...] persistenze che durano ostinatamente sotto i cambiamenti apparenti, [...] lente formazioni che si avvalgono di cieche complicità, [...] le figure globali che a poco a poco si intrecciano e all'improvviso si condensano nella punta di diamante dell[e] oper[e]».5 Se utilizziamo le direttrici di questo metodo «archeologico» e versatile, che può servire a cogliere le origini e gli sviluppi delle vicende letterarie contemporanee, verrebbe alla luce il contesto storico e materiale con il quale dialoga l'attuale narrativa pugliese: un contesto storico attraversato dagli squilibri e dalle nuove disuguaglianze generate dalla globalizzazione. Va subito sottolineato, infatti, che queste tracce di modernità, o di ipermodernità, convivono nelle Puglie accanto al persistere di un paesaggio agricolo, alle permanenze del tessuto sociale, economico e antropologico di stampo ancora arcaico o patriarcale; e i flussi migratori, i «nuovi schiavi» nelle campagne della regione, il lavoro nero e gli abusi edilizi, l'eco-mafia, i fenomeni dell'emigrazione intellettuale (quella che viene definita «fuga dei cervelli»), sono il precipitato o il sedimento di una politica sempre più affaristica, autoreferenziale e corrotta, ispirata e asservita, come avviene in questi decenni in tutto il mondo occidentale, agli imperativi del mercato e al trionfo delle ideologie neoliberali.
Un'ultima digressione di carattere metodologico è necessaria per circoscrivere la questione dell'identità letteraria pugliese. Come ci insegna Benedict Anderson nel suo Comunità immaginate,6 i processi di elaborazione dell'identità del Sud sono storicamente connessi all'azione delle élite e dei gruppi colti meridionali che si trasformano, sin dal periodo pre-unitario, in «ingegneri» o costruttori di paradigmi e strategie discorsive di marca identitaria, la cui funzione va rintracciata sul piano ideologico-politico e delle espressioni artistiche e letterarie. Chi sono oggi questi «ingegneri» dell'identità culturale pugliese? Come vedremo, sono figure di intellettuali e scrittori «residenti» o stanziali, «restanti» (per usare la formula di un recente libro di Vito Teti),7 ma soprattutto apolidi e sradicati, «spatriati», i quali compiono un'opera di interrogazione a vasto raggio sulla propria identificazione sociale e culturale. Riproducono direttamente o indirettamente forme ereditate di una rappresentazione simbolica del Sud, organiche alla riproduzione di stereotipi e idee ricevute ormai plurisecolari, che si traducono ancora oggi nel gusto esotico dell'oleografia e del cliché turistico (i muretti a secco, il buon cibo, il mare e gli ulivi, almeno prima della devastazione della Xylella, il batterio che ha modificato e distrutto sensibilmente il paesaggio arboreo pugliese). Altri intellettuali e scrittori, all'opposto, scardinano e rinnovano le tradizioni e l'immaginario collettivo per rilanciare l'efficacia conoscitiva di una letteratura «provinciale» o «periferica», lontana dai centri culturali nazionali, come è quella pugliese. Di «cospirazione provinciale» scriveva già nella metà degli anni Cinquanta Vittorio Bodini, considerato il più importante poeta pugliese del secondo Novecento, ispanista e traduttore del Chisciotte e dei poeti surrealisti spagnoli.8
Proprio a partire dal 1970, che è l'anno dell'istituzione in Italia delle Regioni e della morte di Vittorio Bodini, si avvia in Puglia una militanza dal basso, più o meno sotterranea, che assorbiva le spinte dei movimenti del '68 e poi del '77 rivendicando il valore positivo della «marginalità», del folk revival e della «scrittura liberata» o «selvaggia»: riprende la letteratura neo-dialettale; uno scrittore-operaio come Tommaso Di Ciaula, scomparso di recente, pubblicava nel 1978 con Feltrinelli un romanzo sulla condizione del lavoro industriale, Tuta blu, che attirò l'attenzione di Leonardo Sciascia, Paolo Volponi e Italo Calvino;9 nuove generazioni di intellettuali meridionali tentavano di conquistare spazio nel panorama sclerotizzato dei posizionamenti del tempo.
La parola d'ordine che si origina in questo frangente storico, tra la fine degli anni Settanta e lungo i decenni successivi, è la «contaminazione». Di fronte alla neo-formazione di blocchi sociali e potentati locali, nel quadro dei fenomeni conclamati di corruzione politica, dello strapotere anche economico delle mafie e in un degrado culturale più o meno diffuso, le sperimentazioni dei giovani artisti pugliesi puntano sul meticciato della lingua e dei codici espressivi, incrociando una pluralità di generi e linguaggi tra innesti dialettali e il nuovo gergo o slang giovanile, l'immaginario pop derivante dalla tv, dalla musica o dai fumetti. Come vedremo, questa apertura al nuovo convive con il dialogo, spesso conflittuale, con i padri o i maestri della letteratura meridionalistica. È il caso della prima antologia di scrittori meridionali e pugliesi, in ordine di tempo, che va ricordata in questa breve panoramica sulla letteratura regionale contemporanea: si tratta di Sporco al sole. Racconti del Sud estremo, pubblicata nel 1998 dall'editore Besa e curata dal lucano Gaetano Cappelli, Enzo Verrengia e dal critico foggiano Michele Trecca.
Alcuni dei racconti pugliesi antologizzati - penso all'interessante plurilinguismo che poi troveremo nel volume Mistandivò di Livio Romano (in dialetto salentino significa Me ne sto andando), uscito con Einaudi nel 2001, come anche nel libro edito da Piemme nel 2001, Rosa sospirosa, di Annalucia Lomunno - si collegano al filone del romanzo «emotivo», giovanile e generazionale, che ha in Pier Vittorio Tondelli il punto di rifermento;10 e insistono, non a caso, sul tema dell'emigrazione verso il Nord. Si conferma quindi lo scandalo di un'Italia meridionale da sempre fucina di talenti e di innovazione, e incapace di trattenere i suoi artisti dando loro adeguate possibilità di lavoro in quello stesso settore in cui eccellono, tanto da costringerli in buona parte ad emigrare.11
È il periodo nel quale gli eventi globali, dall'economia alla geopolitica, insieme alle metamorfosi del ceto dirigente e ai cambiamenti del sostrato antropologico della società nazionale (il crollo della prima Repubblica, il successo della Lega nord, la cosiddetta discesa in campo di Silvio Berlusconi), investono prepotentemente e per vie capillari i contesti locali delle periferie e delle province pugliesi: dando l'impressione di una fase schizofrenica e contraddittoria, nella quale i segni dello sfaldarsi della dialettica politica e del tessuto sociale convivono con i fermenti culturali che come in passato continuano a percorrere sottotraccia quei luoghi.
Durante gli anni Novanta cambia anche il paesaggio urbano dei capoluoghi pugliesi, da Bari a Lecce: grazie ai Fondi europei destinati alle zone svantaggiate del Sud Italia, i centri storici delle città pugliesi si avviano a diventare meta di turisti attratti dalla gastronomia o dall'artigianato locale. Ma quell'attività più o meno significativa di maquillage, di decoro e riqualificazione urbana, dovrà misurarsi con la realtà tragica dell'emigrazione di massa che si riversa dall'Africa mediterranea e prima ancora dall'Europa ex comunista (è dell'estate del 1991 lo sbarco a Bari di ventimila albanesi dalla Vlora), nello scenario delle stragi mafiose del 1992-1993 e dell'incendio a Bari del Teatro Petruzzelli (nel 1991), mentre i successi nella lotta alla malavita organizzata di ambito locale (contrabbando e Sacra Corona Unita) si intrecciano con l'emergere di nuovi gruppi terroristico-mafiosi provenienti dall'ex URSS in rovina e dai Balcani devastati dalle guerre interne.
Intanto, nel 1996 era stato pubblicato da Laterza Il pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano, con cui si dava vita a una nuova stagione di riflessioni e interventi sull'immagine e l'identità del Sud, che trovano spazio e accoglienza negli ambienti editoriali su scala nazionale. Cassano procede a un ripensamento radicale dell'identità meridionale mettendo «in discussione l'assunto principale della questione meridionale» (la rappresentazione ereditata del Sud come condizione patologica di ritardo e dipendenza), insieme alle «immagini trionfalistiche ed ecumeniche della modernità». «La coincidenza di progresso e sviluppo s'incrina», scriveva Cassano, «si fanno visibili tutti gli effetti perversi di una crescita fuori controllo e appare legittimo parlare anche di "miseria dello sviluppo"».12 Partendo proprio dalla sua terra adottiva, la Puglia, secondo Cassano è il momento di ripensare il Sud instaurando uno statuto diverso se non opposto a quello essenzialmente negativo attribuitogli nel passato: Cassano propone un'idea del meridione come forma di vita dotata di una sua specifica dignità, di valori alternativi come l'ospitalità, il dialogo e la lentezza, capace di liberarsi da ogni complesso d'inferiorità, e quindi in grado di leggere criticamente alcuni aspetti cruciali della modernità, in particolare le devastazioni prodotte dal fondamentalismo del mercato e dall'assunzione della competizione come valore fondante.
Sulla scia del lavoro di Cassano intorno a questa nuova «pugliesità mediterranea», un'identità regionale aperta a traffici e scambi con il Sud d'Europa e del mondo, prende corpo una fenomenologia diversificata ma omogenea come effetto del riposizionamento variabile degli intellettuali (più o meno giovani) impegnati nella ridefinizione della questione e dell'identità meridionale. Si tratta di un «sistema gravitazionale» articolato che coinvolge l'Accademia e l'editoria, la stampa e gli apparati culturali, e si presenta con i tratti di un sapere tendenzialmente a-ideologico (dichiaratamente «post-ideologico»). Ora il contesto del lavoro intellettuale si fa più ampio, in linea con la necessità di ripensare il Sud nell'orizzonte dei cambiamenti nazionali e globali. E comprende, oltre a Laterza, gli editori vicini al riformismo di sinistra, da Donzelli a Meltemi, pronti a recepire e promuovere le parole d'ordine del nuovo pensiero meridiano, con tutti gli addentellati e le revisioni del caso; una galassia di riviste come «Meridiana» e centri studi come l'Imes (Istituto meridionale di Storia e di Scienze sociali) fondato nel 1986 dallo storico Piero Bevilacqua; l'attività permanente e infaticabile di Goffredo Fofi e, infine, i primi prodotti antologici sulla «nuova» narrativa pugliese e meridionale dopo l'esperimento pionieristico di Sporco al sole, che coinvolgono le generazioni più giovani di scrittori e giungono alla ribalta nazionale nel 2000, con la pubblicazione presso Einaudi della raccolta Disertori (nella collana Stile libero, la stessa di Gioventù cannibale, 1996).
Siamo arrivati così alla seconda metà degli anni Novanta, fino ai primi anni del decennio successivo, che è la stagione della cosiddetta «primavera pugliese»: accanto ai successi politici di un outsider della politica nazionale come Nichi Vendola, omosessuale e post-comunista dichiarato, che nel 2005 contro tutti i pronostici e le previsioni diventa Presidente della Regione, si assiste a una sorta di revival etnico-meridiano che interessa il cinema, la musica e le nuove leve di un'intellettualità pugliese come sempre diffusa e dispersa. Sono artisti e scrittori impegnati nelle sperimentazioni artistiche, musicali e letterarie che molto spesso traducono il tema o il progetto della contaminazione e della mescolanza di identità culturali diverse - che come abbiamo visto è un fil rouge che tiene insieme i discorsi di un irregolare come Carmelo Bene e il pensiero meridiano di Cassano - all'insegna dello slogan di «etnico è bello», cioè di un pluralismo culturale all'acqua di rose che tuttavia rischia di rimuovere o mascherare la gerarchizzazione sociale, l'accesso ineguale alle risorse e ai diritti individuali, la virulenza e i rigurgiti del razzismo.13 Sono gli anni dell'esplosione turistica che investe zone sensibili come il Salento (non a caso terra o «sub-regione» dalla forte e marcata identità, spendibile ora in termini di intrattenimento di massa), nel quale si esercita e si consolida un esperimento vincente di marketing applicato proprio a quella costruzione identitaria di segno alternativo che era stata propugnata e rivendicata dal pensiero meridiano (nelle forme più massificate, ricettive e commerciali: la Notte della Taranta).
Il marketing o la promozione di questa (nuova) identità meridiana vengono perseguiti dal pragmatismo virtuoso di alcune esperienze avviate nel corso del mandato di Vendola (i «distretti della creatività» e l'Apulia Film Commission), magari utilizzando parole-chiave più colte e raffinate e tentando di creare un (fragile) indotto per il progetto-feticcio di un turismo «alto» (destagionalizzato), per assorbire il precariato creativo e intellettuale del territorio. Permane oggi la sensazione di un panorama vario e conflittuale, nel quale la cronica lentezza nel «fare rete» e nell'innescare un dialogo concreto tra esperienze provinciali isolate - tra mondo accademico e cultura dal basso, intellettualità giovanile e precaria, istituzioni e creatività spontanea - si sovrappone al decadimento culturale diffuso, alla disoccupazione giovanile e alla crisi sociale che certo non sono risolti dalla ripresa turistica. E i rischi (i limiti) di un marketing omologante delle identità locali, di cui insieme si è vittime e spettatori, artefici e testimoni passivi, convivono con la fragile vitalità dell'editoria locale, ma anche con forme avvedute di recupero e valorizzazione del patrimonio storico delle tradizioni popolari (il misconosciuto Archivio sonoro della Puglia e della Basilicata, i Presidi del Libro, le attività della Biblioteca del Consiglio regionale, l'Istituto pugliese per la storia dell'antifascismo, eccetera).

 

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II. Primavere e inverni della narrativa pugliese contemporanea

Nel campo letterario, come dicevo all'inizio, questa nuova e contraddittoria tensione identitaria viene declinata dal romanzo pugliese in forme e tipologie plurali, diversificate e distinte. Per definirne tendenze o prospettive, in questo ragguaglio sintetico e provvisorio, sarà indispensabile intrecciare l'analisi delle forme e delle scelte stilistiche con un'indagine sul piano contenutistico, procedendo a una selezione delle migliori esperienze narrative locali. D'altra parte, va tenuto presente che la narrativa regionale va inquadrata nella cornice più vasta della letteratura nazionale contemporanea, o iper-moderna, della quale condivide i limiti o le fragilità, i punti di forza e le traiettorie più marcate.14
Sono due le tematiche centrali attorno a cui ruota l'attività letteraria che può rientrare nei confini (sfaccettati e frastagliati) della nuova narrativa pugliese. Qui si sorvola sulle differenze sostanziali che intercorrono tra scrittori e artisti appartenenti a diverse generazioni, «residenti» nelle terre di cui narrano ovvero distanti, «fuorisede», «esiliati» o «spatriati» per effetto dell'emigrazione intellettuale. Tuttavia, è possibile individuare negli snodi tematici del ritorno, della nostalgia e della devianza i tratti che tengono assieme esperienze diversificate e che in qualche caso si intrecciano o convivono anche negli stessi percorsi di ricerca. E raccontano di una rappresentazione del Sud pugliese sospesa tra la reinvenzione estetizzante, memoriale o autobiografica, e la durezza della cronaca e dell'inchiesta, tra memoria individuale e collettiva, passato e presente, arcaico e postmoderno.
È una «congiuntura di voci» molteplici, non una new wave compatta. Lo fa notare molto bene un interessante scrittore di origini tarantine, Carlo D'Amicis, in un'intervista dal titolo La letteratura apolide di noi pugliesi lontani dalla nostra terra, pubblicata sulla rivista on line affaritaliani.it il 26 ottobre del 2009: «Non amo che gli scrittori si riconoscano in manifesti più o meno programmatici», scrive D'Amicis: «anche quando non c'è malizia [...], in certe operazioni mi pare di riconoscere una determinazione a prendere posizione, a definirsi, [...] che poco ha a che fare con la precaria e magmatica ricerca identitaria che, per me, è alla base dello scrivere».
Questa ricerca identitaria, in bilico tra l'autobiografia e una vena onirica o fantastica con la quale si ricostruisce la «diversità» profonda e quasi ancestrale delle Puglie, ha spesso il sapore di un vintage agreste e paesano, intimo o generazionale, crudele e spietato, o all'opposto raffinato e fiabesco, come emerge ad esempio da alcune opere narrative e cinematografiche ambientate sullo sfondo (etno-antropologico) di un Sud trattato - letteralmente - come «teatro di posa» o set cinematografico. Mi riferisco per semplificare a Teresa Manara di Luisa Ruggio (2014) o al romanzo di Desiati, Il paese delle spose infelici (Milano, Mondadori, 2008), ambientato a Martina Franca in Valle d'Itria, non a caso portato sullo schermo dal film diretto da Pippo Mezzapesa nel 2011; e a certi film di Sergio Rubini, il quale dichiarava in un'intervista del 2009: «Torno sempre a girare in Puglia perché è il teatro di posa che conosco meglio e lì mi viene più facile inscenare anche quel che ho pensato ed è successo altrove».15
Nel Paese delle spose infelici, Desiati rivendica ciò che definisce l'«imperante diritto alla nostalgia». Ripercorre a ritroso l'infanzia e l'adolescenza del protagonista, soprannominato Veleno, nel territorio compreso tra Taranto e una provincia popolata da bande di giovani irregolari e falliti, tossici, tifosi di calcio e comunità di lebbrosi, nell'arco temporale che va dal 1990 al 2006. L'andamento corale della narrazione si unisce alla sovrapposizione dei registri e dei piani temporali: l'anafora che punteggia soprattutto la prima parte del romanzo, e che è ripresa nel titolo del romanzo («In un luogo dove le spose erano infelici», «un paese di spose infelici», eccetera), consegna il tempo del racconto alla dimensione del mito e del mistero, che sono i caratteri dominanti con i quali viene ricostruita la vicenda tragica e stregonesca della protagonista femminile, Annalisa. Ma questo sprofondamento nelle zone ancestrali e arcaiche delle Puglie convive con i riferimenti alla cronaca più stringente, tra l'ombra dell'Italsider, «piovra capovolta», e l'incredibile vicenda di Giancarlo Cito, ex picchiatore fascista, fondatore di un'emittente televisiva locale e poi di un partito politico con il quale diventa sindaco di Taranto nel 1993 e poi deputato (una sorta di piccolo Berlusconi ante litteram). Il protagonista, intanto, consuma il proprio congedo dalla «disperata vitalità» della giovinezza tra lutti e solitudini, fughe disastrose a Torino e la scelta finale di rinchiudersi per sua volontà nell'ultimo lebbrosario esistente in Italia, seminascosto nelle campagne, sulla via che da Gioia del Colle porta a Matera.
Ritorni, partenze e fughe, in definitiva, sono i poli attorno ai quali ruota una linea della narrativa pugliese contemporanea attraverso la quale si mette in scena un'interrogazione, insieme individuale e generazionale, sulla propria identità di sradicati. Il soggetto di questi romanzi è spesso un individuo precario, emigrato nei centri del Nord o a Roma, un individuo apatico e marginale, che fa i conti con il peso del passato, con i rimorsi e la solitudine ma anche con una energia vitale confusa e spesso autodistruttiva, e che scappa dalla «morte certa dentro un forno» delle industrie locali (l'Ilva di Taranto) con il solo obiettivo di «vivere giorno per giorno, senza pensare al domani». È il caso del primo brano che ho selezionato, tratto dal romanzo d'esordio di Desiati, Neppure quando è notte, uscito nel 2003, che racconta la fuga dalla Puglia e il vagabondaggio tra i senzatetto e gli accattoni della stazione Tiburtina di Roma del giovane narratore, orfano di madre, anarchico e ribelle: «Arrivai a Roma per fuggire, per essere lontano dai rumori domestici di preti e parenti pronti a tendermi la mano, mortis causa. Lontano da tutto: lontano anni luce da Taranto ex Italsider [...], soffocato da misteriose polveri di colore arancione che riempiono [...] tutta Taranto e i suoi mari metallici. [...] Sopravvivere a Roma. [...] Mi sistemai come un cane sotto il primo capezzale di pietra».16
Gli scrittori pugliesi vivono l'esilio dalla propria terra d'origine tornando con la memoria e con la reinvenzione letteraria sui luoghi o i tempi della propria infanzia o adolescenza, come ad esempio nel bel romanzo di D'Amicis, La guerra dei cafoni, del 2008. Ambientato nell'estate del 1975 in un villaggio della costa salentina, sullo sfondo delle guerre tra bande che oppongono i ragazzini benestanti ai figli dei pescatori, dei pastori e dei contadini, narra la difficile storia d'amore tra il leader dei «figli di papà» e una ragazza «cafona», che diventa l'immagine o la metafora di un Sud imperfetto, in bilico tra la volontà di cambiamento e i vecchi e nuovi squilibri sociali. D'Amicis intreccia nel racconto vari registri e tipologie narrative che trascorrono felicemente dal romanzo di formazione e picaresco alla narrazione sociale, e adotta uno sguardo antropologico per cogliere le trasformazioni della mentalità pugliese a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta: «Oggigiorno le tre di pomeriggio non significano più niente. Oggigiorno, alle tre del pomeriggio, c'è gente che è appena scesa sulla spiaggia. Che fa il bagno. Che, se sta a casa, accende la televisione. A metà degli anni Settanta, invece, alle tre del pomeriggio il mondo si fermava. [...] Era la controra. Un nome che non significa niente, ma che dice tutto. Alla controra di quell'estate del '75, io mi rigiravo dentro al letto e pensavo alla guerra. Ai cafoni. Alla prossima battaglia».17
I narratori pugliesi raccontano il difficile congedo da quel passato e l'ingresso nella vita adulta con tutto il disincanto e le disavventure sentimentali che essa comporta, per parafrasare il titolo di un altro romanzo di Desiati uscito nel 2006 (appunto Vita precaria e amore eterno). È una tipologia letteraria capace di farsi sguardo allargato sui conflitti persistenti che nel corso del tempo intaccano il proprio vissuto insieme al territorio di provenienza, in un orizzonte etico e conoscitivo che si lega produttivamente al tema dell'esilio e alle ragioni esistenziali del «dispatrio». Come scriveva ancora Carlo D'Amicis nell'intervista già citata: «È impossibile non notare, in questa congiuntura di voci, un fenomeno ricorrente: la lontananza: quasi tutti gli autori [...] vivono la propria terra attraverso una distanza che, se da una parte toglie qualcosa alla conoscenza degli occhi, dall'altra può offrire allo sguardo dell'anima uno sguardo più acuto e dolente (c'entra la nostalgia? Forse, ma anche molto di più: il bisogno di emancipazione, la perdita dei legami, la ferita dell'esilio). È insomma, in molti casi», continua D'Amicis, «una letteratura apolide, anche quando esalta le proprie radici».
Questa corrente della nuova narrativa pugliese mostra di avere maggiore consapevolezza letteraria, e si confronta con i classici del romanzo moderno e contemporaneo, italiano e non solo, da William Faulkner e Roberto Bolaño a David Foster Wallace, da Cormac McCarty a Thomas Bernhard. Rispetto alle opere che si inseriscono con successo nella polimorfa e vincente «letteratura di genere» (il giallo politico di De Cataldo, il poliziesco al femminile di Gabriella Genisi ovvero quello notturno, metropolitano e ambiziosamente allegorico di Carofiglio - con gli inevitabili adattamenti televisivi o cinematografici), sono progetti letterari che a mio parere aprono strade e percorsi più complessi e articolati. Si tratta di una produzione narrativa più inquieta, ibrida e impura, disponibile alla sovrapposizione dei registri e dei generi letterari, alla mescolanza linguistica e al plurilinguismo (la presenza del dialetto arricchisce lo stile di questi scrittori in direzione espressionistica).
Nella costruzione delle trame e nell'invenzione dei personaggi principali, questa linea della narrativa pugliese fa i conti con la tradizione del romanzo di formazione, come abbiamo visto in Desiati, con la dimensione saggistica o riflessiva che accompagna il racconto e l'investigazione a largo raggio sulla ricerca identitaria individuale e sulla nuova realtà pugliese (è il caso di D'Amicis); ma attinge talvolta anche a un immaginario fantastico-surreale, disforico o distopico, pulp o splatter, crudele e grottesco, con una predilezione per il gotico o il noir. Questi scrittori tendono verso l'«estremo»: raccontano fatti scabrosi, esibendo le proprie ferite - reali o simboliche che siano - e più in generale puntano tutto sull'anima nera della regione e sull'«osceno», su «ciò che resta sempre e comunque fuori scena»18 rispetto alle rappresentazioni oleografiche della Puglia, buone ormai solo per qualche cartolina o dépliant turistico.
È il cosiddetto filone del southern gotic o del noir mediterraneo, che pur con qualche forzatura accomuna i romanzi più o meno recenti di Cosimo Argentina;19 i più giovani salentini Graziano Gala e Andrea Donaera, che hanno pubblicato in questi ultimi anni i loro primi romanzi con editori di respiro nazionale come NN e Minimum fax;20 e soprattutto Omar di Monopoli, che nel 2017 ha pubblicato con Adelphi Nella perfida terra di Dio, e del quale leggiamo una pagina dal suo romanzo Uomini e cani uscito nel 2007. Vorrei far notare come la scena descritta possa essere riportata all'invenzione di un nuovo e inedito sotto-genere letterario, una sorta di western pugliese; e come il verismo immaginifico di Di Monopoli, ciò che è stato definito un «neorealismo in versione splatter», serva a rappresentare una terra e un popolo condannati alla rabbia o alla brutalità, alla violenza e alla cieca disperazione quasi fuori dal tempo e dalla Storia. Sul piano dello stile, va detto che in questo filone del nuovo noir o gotico pugliese troviamo una escursione tra la tendenza a un periodare breve, sincopato, a dominante paratattica (soprattutto nei romanzi di Donaera), una aspirazione della frase alla perentorietà come solo modo per rappresentare una realtà avvertita come impenetrabile;21 e all'opposto, come in Di Monopoli, una sintassi più articolata e un impasto di dialetto e italiano letterario che offre esempi interessanti di una lingua liricamente tornita, barocca, sperimentale e innovativa: «Una tromba nera di fumo sozzo e filaccioso saliva da un ammasso di vecchi pneumatici in fiamme. Ovunque c'erano mucchi di letame, spazzatura e carcasse di elettrodomestici. Il fetore era insopportabile. [...] Scostando una tenda unta piena di rattoppi, Pietro Lu Sorgi uscì allo scoperto imboccando a piedi nudi il sentiero dirupato. [...] Ti laggiu dittu, già... a me mi devi lasciare stare!».22
Come accennavo poco fa, accanto al tema del ritorno e della «ferita dell'esilio», la nuova narrativa regionale si è confrontata anche con i risvolti sociali o civili dell'identità pugliese contemporanea, scommettendo sulla cartografia di quella feroce mutazione antropologica di larghe zone del Sud che nei primi decenni del nuovo millennio dilaga in uno spazio non più circoscrivibile dal punto di vista geografico (come avvertiva Sciascia: «la palma va a Nord»). Si tratta di autori che provengono da quelle province o da quei centri urbani infestati dalle sacche persistenti delle mafie, tra residui arcaici e modernizzazione selvaggia, dal Gargano a Bari, dal Salento al tarantino, luoghi o microcosmi che diventano nelle opere di Nicola Lagioia, Argentina, Di Monopoli e in parte di Donaera scenari allegorici per attraversare conflitti familiari e sociali più ampi e radicali.
Il (fertile) filone della scrittura di inchiesta e di denuncia, che come vedremo utilizza e mescola i registri narrativi e quelli dell'autobiografia o dell'autofiction, si è avventurato con un passo spesso più deciso ed efficace rispetto a gran parte della ricerca istituzionale,23 riuscendo ad aprire squarci analitici di grande importanza di fronte ai vecchi e nuovi fenomeni della «devianza» criminale come il caporalato o il traffico dei migranti, che attraversano da nord a sud la regione pugliese. Mi riferisco all'opera di Alessandro Leogrande, ai confini del reportage e della non fiction novel. Nato a Taranto nel 1977 e prematuramente scomparso nel 2017, Leogrande ha da sempre intrecciato alla sua attività di scrittore-giornalista o di «scrittore-intellettuale» spesa su riviste e quotidiani come «Lo Straniero», diretto da Goffredo Fofi, e il «Corriere del Mezzogiorno», la scrittura d'inchiesta: da Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, uscito con Mondadori nel 2008; a Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali, del 2010, fino ai più recenti Il naufragio. Morte nel Mediterraneo uscito nel 2011, e La frontiera, del 2015. Come leggiamo dall'incipit di Uomini e caporali, l'io narrante non si nasconde dietro l'obiettività e l'attività di documentazione sui temi legati alla devianza o alla criminalità nel territorio pugliese, aspetti che pure non mancano nella scrittura d'inchiesta di Leogrande (in questo caso la denuncia del fenomeno dello sfruttamento e delle lotte dei braccianti nelle campagne del Gargano). È invece un io narrante che si espone in tutta la sua fragilità e rivendica apertamente la tensione etica e civile di uno sguardo in difesa degli ultimi, dei sommersi e dei marginali. Leogrande costruisce una scrittura originale e stratificata, di tenuta letteraria, un saggismo molto libero ed eclettico che vive al confine tra narrazione autobiografica e reportage (partendo anche qui da riferimenti non solo nazionali, potremmo dire da Carlo Levi a Kapuściński):

«Appurare come sono andate le cose. Questo era l'obiettivo. Questo è sempre stato l'obiettivo. Mettere insieme i cocci; ricomporre il vaso rotto non della realtà, cosa che sarebbe impossibile, ma nella nostra mente. Restaurare la memoria, ricostruire la presenza della lotta (sì, proprio della lotta), reinterpretare il campo su cui è andata in scena. [...] Solo ora capisco che il mio moto inconsapevole (verso l'accertamento dei fatti) non poteva seguire che questa strada, l'unica strada che mi era consentita: avvicinarmi al passato attraverso una storia che avevo sentito raccontare per sommi capi in famiglia fin da ragazzino. [...] La nostra generazione fa fatica a capire tutto questo. Ma questa umanità che vive ai margini esiste. [...] Il compito di oggi è quello di capire».24

Sull'esempio di Leogrande, per avviarmi alla conclusione e per tracciare in estrema sintesi un primo bilancio della narrativa pugliese contemporanea, suggerirei di prestare attenzione a questa costellazione di scritture che sfuggono a troppo comode classificazioni, nelle quali l'attraversamento dei generi e dei linguaggi, dei codici espressivi e dei modelli culturali, e una qualità letteraria di marca sperimentale, si fanno strumenti per un esercizio realmente critico e conoscitivo intorno alla nuova identità pugliese. La tipologia del romanzo di formazione o di «iniziazione», ad esempio, che come abbiamo visto percorre anche la narrativa di Desiati (fino al suo romanzo più recente, Spatriati, vincitore del Premio Strega del 2022), diventa in alcune opere del barese Nicola Lagioia, come La ferocia, del 2014, una sorta di mezzo di carotaggio per realizzare un viaggio a ritroso nelle Puglie degli ultimi decenni, e convive con una pluralità considerevole di generi adoperati: thriller e noir, ma anche epica familiare e favola apocalittica o allegorica, satira sociale e reportage.
È una letteratura «debordante», al di là dei confini tradizionali di pertinenza, nei continui cambi di registri, tra dissonanze e lirismi, tragico e grottesco, tra un espressionismo tagliente e scabro e una scrittura più mentale e analitica. Ricorda per questo l'esperimento tentato già dal 2008 in quello che forse potremmo considerare il più importante romanzo meridionale contemporaneo, Il tempo materiale del siciliano Giorgio Vasta. E piega le ragioni dello stile all'istituzione di forme nuove e inedite riconducibili a un'idea di romanzo storico sul presente o sul passato prossimo delle Puglie. Qui la microstoria e i riflessi del vissuto autobiografico dialogano e si misurano con le ferite del tempo e con le esistenze di personaggi irregolari o maledetti; i destini individuali si collegano alle parabole dei nuclei familiari e dei blocchi sociali, agli snodi dell'immaginario che segnano le origini delle mutazioni nella società pugliese - rivissuta, per certi versi, come laboratorio, allegoria o «metafora» dell'identità nazionale e della storia italiana contemporanea.
Leggiamo l'incipit de La ferocia, con cui Lagioia, ex direttore del Salone internazionale del libro di Torino, ha vinto il Premio Strega nel 2015. Al centro del romanzo c'è una famiglia barese, i Salvemini. Il padre è costruttore, la moglie casalinga, e tra i loro quattro figli Michele è nato fuori dal matrimonio. Proprio Michele, l'elemento estraneo, che può ricordare a tratti l'ospite misterioso del film Teorema di Pasolini, si mette alla ricerca di una verità alternativa, ben oltre le versioni o le convenienze ufficiali, sulla morte o l'uccisione della sua sorellastra Clara, a cui è stato legato da ragazzo in modo quasi viscerale. Lagioia racconta il disfacimento morale della famiglia Salvemini, il crollo del suo sistema di malaffare, mettendo in scena una galleria di personaggi spaventosi e realistici. Come si evince da questo brano, conta molto nel libro il paesaggio naturale che crea uno sfondo metafisico e straniante alle vicende narrate:

«Una pallida luna di tre quarti illuminava la statale alle due del mattino. La strada collegava la provincia di Taranto a Bari, e a quell'ora era di solito deserta. Correndo verso nord la carreggiata entrava e usciva da un asse immaginario, lasciandosi alle spalle uliveti e vitigni e brevi file di capannoni simili ad aviorimesse. Al chilometro trentotto compariva una stazione di servizio. Non ce n'erano altre per parecchio, e oltre al self-service erano da poco attivi i distributori automatici di caffè e cibi freddi. Per segnalare la novità, il proprietario aveva fatto piazzare uno sky dancer sul tetto dell'autofficina. Uno di quei pupazzi alti cinque metri, alimentati da grossi motori a ventola. Il piazzista gonfiabile ondeggiava nel vuoto e avrebbe continuato a farlo fino alle luci del mattino. Più che altro, dava l'idea di un fantasma senza pace. Superata la strana apparizione il paesaggio continuava piatto e uniforme per chilometri. Sembrava quasi di avanzare nel deserto. Poi, in lontananza, un diadema sfrigolante segnalava la città. Oltre il guardrail c'erano invece campi incolti, alberi da frutto e poche ville ben nascoste dalle siepi. Tra quegli spazi si muovevano gli animali notturni».25

«Un fantasma senza pace»: in quell'immagine del pupazzo pubblicitario che lungo la superstrada tra Taranto e Bari sventola inquietante nella notte, forse possiamo trovare l'allegoria o l'emblema della narrativa pugliese contemporanea che nel corso del tempo si è confrontata, dalla fine degli anni Settanta a oggi, con i cambiamenti che hanno dato forma alla nuova identità e al nuovo paesaggio naturale e umano della regione. Se è vero che nel resto dell'Italia la trasformazione paesaggistica e antropologica degli ultimi anni è avvenuta mediante una più o meno graduale sostituzione degli scenari, attraversando la Puglia, invece, lo ricordava ancora Carlo D'Amicis in quell'intervista uscita nel 2009, «è evidente la sovrapposizione, l'intreccio, la convivenza tra vecchio e nuovo, tra una natura primitiva e in parte incontaminata e un intervento umano così violento da essere già, in partenza, definibile degrado. In questa simultaneità», scriveva D'Amicis, «c'è una rappresentazione del conflitto: conflitto sociale, ma anche interiore. Impossibile non vedere una potente metafora di quella coesistenza tra bene e male, tra il sublime e l'abbietto, tra la grazia e il peccato, a cui da sempre si radica il lavoro dello scrittore».
Non a caso, dopo La ferocia, abbandonando per il momento l'ambientazione pugliese e partendo invece da uno dei casi di cronaca nera più efferato degli ultimi anni, con il suo romanzo pubblicato nel 2020, dal titolo antifrastico, La città dei vivi, Lagioia ha compiuto un viaggio fino al termine della notte per le strade non più di Bari o di Taranto, o del foggiano, ma nelle periferie di Roma. E ha tentato di estendere lo sguardo, potremmo dire, dalla Puglia intesa come metafora della corruzione e del degrado antropologico che hanno irrimediabilmente intaccato il tessuto civile della società nazionale, verso un'indagine sui temi universali della natura umana come l'istinto di sopraffazione, l'abiezione e il degrado, la colpa e il libero arbitrio.26

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gennaio-maggio 2023, n. 1-2