Michela Meschini
Università di Macerata

Il «male del reticolato». Le ombre della Shoah in «Sostiene Pereira» di Antonio Tabucchi

 

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Sommario
I.
II.
III.
La «saudade» come nostalgia della storia
Dal «Mal del Tempo» al «male del reticolato»
Sulle tracce della Shoah: il caso «Pereira»


 

§ II. Dal «Mal del Tempo» al «male del reticolato»

I. La «saudade» come nostalgia della storia

Come è noto, il sentimento di fondo della scrittura di Antonio Tabucchi è la saudade, quella «nostalgie dell'irréversible»1 che fa dei suoi personaggi degli inquieti flâneurs temporali, alle prese con un passato eccedente, che si infiltra nel presente, chiede udienza e diventa racconto. La saudade, infatti, non è semplicemente un tema dominante dell'opera tabucchiana, con tutto il suo corollario di motivi - slanci, rimpianti, rimorsi, desideri, comprensioni tardive, malintesi, incertezze - sui quali l'autore si è più volte espresso,2 ma costituisce l'anima della scrittura, la sua energia, il suo motore, senza il quale il racconto tabucchiano non esisterebbe. Torna utile rispolverare l'immagine del volano che si agita nel petto di Álvaro de Campos ne Il gioco del rovescio, racconto eponimo della raccolta del 1981, dove la saudade fa il suo debutto narrativo nell'opera tabucchiana, insieme al suo artefice poetico, Fernando Pessoa. Assimilata a "un gioco del rovescio", la saudade trova in quella sede la sua prima teorizzazione testuale, anche sub specie iconica, per il tramite della tela de Las Meninas di Velázquez3 e di una serie di dettagli visivi, come appunto il volano, che nel mondo narrativo di Tabucchi non svolgono mai una funzione puramente accessoria. Felice forma della visione pessoana, l'immagine del volano esprime infatti, insieme al valore metatestuale individuato da Monica Jansen, che vi rintraccia la «forza centrifuga che si sprigiona dal racconto e che impedisce tesi univoche di lettura»,4 il valore simbolico di correlativo oggettivo della saudade e della sua forza d'azione narrativa. La saudade è in altre parole il "volano" della narrazione tabucchiana; una narrazione che ha il suo cuore nel mistero del tempo e procede per binari esistenziali e psicologici, finanche metafisici, senza tuttavia mai perdere di vista il côté storico e politico del reale. Sulla compresenza di queste due dimensioni - esistenziale e storica - e sul loro rispettivo peso specifico all'interno dell'opera tabucchiana, la critica letteraria si è a lungo interrogata, specie a partire dal 1994, quando Sostiene Pereira divenne un caso letterario e il suo autore venne catapultato pretestuosamente nell'arena politica italiana con accuse di propaganda elettorale da parte della stampa filoberlusconiana.5 La prevalente dimensione esistenziale di un romanzo che è costruito come confessione/testimonianza della crisi di coscienza di un vecchio giornalista portoghese, cattolico e malinconico, preoccupato per la resurrezione della carne e desideroso di pentimento, passò del tutto inosservata nella polemica mediatica sorta intorno all'opera; polemica incentrata invece sul «panno di fondo»6 della vicenda che «è il fascismo italiano, il salazarismo portoghese e la guerra civile spagnola».7 La suscettibilità di parte della stampa nazionale per lo scenario storico del romanzo tradisce le resistenze del mondo politico, e della società italiana in genere, nel fare i conti con il passato totalitario del paese, del quale si vorrebbero disconoscere proprio quei legami con il presente che la reazione mediatica inavvertitamente denuncia. Scriverà a proposito Tabucchi, qualche anno più tardi, sulle pagine di «Micromega»:

«Sostiene Pereira è stato letto come un romanzo che parlava del berlusconismo, ma non dipende certo da me se nell'epoca che stiamo vivendo spirano certi venti (nazionalismi, razzismi, xenofobie, bellicismi), simili a quelli che spiravano negli anni Trenta in cui è ambientato il mio romanzo. Attraverso il salazarismo mi riferisco senz'altro a certe categorie della natura e della Storia, quelle che Umberto Eco ha definito l'Urfascismo, cioè il fascismo eterno».8

Accertato che allo scrittore spetta il compito di restituire non tanto i fatti quanto «la temperatura»9 di un'epoca, e di registrare non gli eventi politici ma il loro «risultato psicologico»,10 non si può tuttavia non rilevare come la Storia in Sostiene Pereira non funga semplicemente da quinta scenica, da décor11 della vicenda narrata, ma sia uno dei due poli interpretativi dell'opera, senza il quale la trasformazione esistenziale del vecchio giornalista, da passivo spettatore ad attivo accusatore delle violenze del regime salazariano, perderebbe non solo la sua forza e incisività politica ma anche il suo senso più profondo sul piano esistenziale, che è proprio quello di una ritrovata sincronia con il proprio tempo da parte di un uomo che vive sepolto nel passato. Perché, se è vero che la maturazione di Pereira coincide con una lenta elaborazione del lutto, tramite la quale egli potrà smettere di «frequentare il passato» e iniziare a «frequentare il futuro»,12 è anche altrettanto vero che tale processo interiore può attuarsi solo per mezzo dell'interazione sempre più assidua di Pereira con la realtà materiale dei suoi tempi. Saranno l'incontro con il giovane militante antifascista Monteiro Rossi e la sua fidanzata, Marta, il confronto con la censura e la delazione, la percezione sempre più inquietante del clima oppressivo e autoritario che il regime di Salazar instaura nel Portogallo degli anni Trenta del secolo scorso, a rompere progressivamente l'isolamento letterario di Pereira e a determinare la crisi di coscienza che porterà all'epilogo quietamente rivoluzionario del romanzo. Per iniziare a "frequentare il futuro", Pereira deve prima aprire gli occhi su un presente dove soffiano i venti sinistri dei totalitarismi europei. Sebbene, dunque, la scrittura di Tabucchi si presenti al lettore dominata da questioni per così dire "private" e l'autore stesso abbia più volte sostenuto che la sua narrativa si inscrive in un orizzonte più esistenziale che politico,13 è innegabile che le vicende interiori dei suoi personaggi siano destinate a impigliarsi nei rami del tempo storico e ad acquisire un senso e una direzione proprio nell'interazione con esso. Pereira è certamente il caso più noto di questa convergenza del piano dei sentimenti con il piano degli accadimenti, ma non è l'unico né il primo. Analoghi itinerari esistenziali e politici sono percorsi da Spino ne Il filo dell'orizzonte (1986), da Xavier/Roux in Notturno indiano (1984), dagli "io narranti" di Requiem (1991) e Tristano muore (2004), dai personaggi di molti racconti dei Piccoli equivoci senza importanza (1985) e de L'angelo nero (1991), nonché dai personaggi favolistico-simbolici del romanzo d'esordio, Piazza d'Italia (1975), i quali richiamano anche nell'onomastica la Grande Storia, a conferma della coabitazione genetica di preoccupazioni esistenziali e politiche nell'esperienza letteraria dell'autore toscano. Da questo contesto, risulta evidente che Sostiene Pereira non rappresenta la svolta verso la storia e l'impegno di uno scrittore interessato a indagare fino a quel momento la metafisica della finzione, ma semmai la conferma di una vocazione letteraria fondata fin dal principio su una visione del mondo che è insieme storica ed esistenziale. Infine, la questione da sottolineare ai fini delle riflessioni che propongo nelle pagine seguenti è che urtando un nervo scoperto della società italiana, Sostiene Pereira ha portato in primo piano il "panno di fondo" delle opere di Tabucchi, ha permesso, cioè, di guardare al rovescio della tela esistenziale della sua narrativa, sul quale è tratteggiato per scorci il cuore nero del Novecento italiano ed europeo con i suoi misfatti, le sue ingiustizie, i suoi massacri e, non ultimi, gli interrogativi che il "secolo breve" non cessa di suscitare.

 

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II. Dal «Mal del Tempo» al «male del reticolato»

A questo punto è necessario riprendere il discorso sulla «parola-concetto»14 iniziale per mostrarne il risvolto storico-politico. Tra le varie definizioni di saudade sparse nei testi tabucchiani figura quella di «Mal del Tempo»,15 usata a indicare la sindrome di cui soffre Volturno in Piazza d'Italia.16 Volturno è il capostipite letterario di una stirpe di personaggi affetti dalla stessa malattia, che secondo la diagnosi dell'autore consiste in «un rapporto sfasato con il Tempo quale dimensione in cui non riusciamo più ad abitare, un rapporto guasto con la Storia».17 Seguendo la tradizione filosofica che dall'irrazionalismo giunge al postmodernismo, Tabucchi riconduce al Novecento lo strappo del soggetto con la Storia; il "secolo breve" segna una cesura nel rapporto con il tempo, dalla quale sono sorte forme di turbamento, di estraneità, di inquietudine di cui «la letteratura è stata, ed è sicuramente il sismografo più attendibile».18 La saudade, cifra distintiva dell'universo narrativo tabucchiano, non è dunque soltanto espressione di un malessere esistenziale ma anche di un disagio storico, che prendendo in prestito le parole di Vittorio Sereni chiamerei qui il «male del reticolato»,19 per indicare le varie forme di esclusione e separazione, oppressione e prigionia sperimentate dall'uomo nel Novecento, fra le quali risalta per eccezionalità e mostruosità quella dei campi di concentramento nazisti:

«C'è "un qualcosa" che caratterizza i secoli che l'umanità ha vissuto? Forse è necessario semplificare, forse è inevitabile semplificare per cogliere l'essenza, l'anima di un'epoca. Il Cinquecento è il secolo del Rinascimento, il Settecento è il secolo des Lumières, l'Ottocento è il Romanticismo e la Restaurazione. E il nostro "secolo breve", come è stato definito? I massacri, non c'è dubbio. E all'interno di essi il massacro per eccellenza che Jankélévitch ha definito l'indicible, lo sterminio di sei milioni di ebrei e di altri milioni di minoranze (rom, omosessuali, handicappati) organizzato dalla Germania di Hitler».20

In questa prospettiva, il «Mal del Tempo» e il «male del reticolato» non indicano patologie differenti, bensì i due volti di uno stesso malessere, la cui sintomatologia oscilla tra nostalgia e inquietudine, abbracciando tutte le sfumature intermedie fra l'uno e l'altro atteggiamento. Quanto alle forme di tale bifida affezione, in Della difficoltà di liberarsi del filo spinato, racconto liberamente ispirato al «male del reticolato» di Sereni che compare in epigrafe, Tabucchi ragiona sulla possibile origine endogena o esogena del reticolato, distinguendo tra fili spinati mentali e fili spinati materiali. Sono i primi a fornire la materia del suo racconto che si sviluppa intorno alle forme esistenziali di prigionia, quelle che «costruiamo noi stessi»,21 non senza però prima soffermarsi, con un certo vigore espressivo e un'interessante preterizione, sul reticolato costruito dagli altri, quello imposto dalle ideologie, di cui il filo spinato di Auschwitz è la drammatica icona novecentesca:

«Ci sono due fili spinati fondamentali che agiscono per uccidere la comprensione della nostra anima: uno è quello che ci erigono gli altri, l'altro è quello che costruiamo noi stessi. Non parlerò del primo: è tristemente noto, in questo nostro secolo che Primo Levi ha riassunto con questa formula sinistramente chimica: Zyklon B, radioattività e filo spinato. E in questa epoca di negazionismo e revisionismo secondo la quale i cadaveri delle fosse comuni dei campi di concentramento, le montagne di scarpe e di occhiali ancor oggi visibili a Auschwitz non sono altro che fumo uscito dai camini dell'immaginazione degli storici settari, parlare del filo spinato sembrerebbe sarcasticamente tautologico».22

Il reticolato di Auschwitz ha prodotto separazioni e discriminazioni radicali, dislocazioni e sfasature temporali senza appello, ma non appartiene a un passato chiuso e superato, perché altrettanto pericoloso è il reticolato ideologico che impedisce di riconoscerne la mostruosità e che potrebbe perciò riproporne l'orrore, ovvero il negazionismo e il revisionismo.23 Sembra questo il senso del sarcastico affondo finale, dove è evidente che la voce dell'autore sovrasta quella del narratore, aprendo una digressione storico-politica all'interno di un racconto dal taglio prepotentemente esistenziale il cui tema di fondo è la questione dell'anima. Si potrebbe anche aggiungere che la voce autoriale reca qui i segni dell'attività giornalistica di Tabucchi, particolarmente intensa nel periodo a cavallo fra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila. La raccolta in cui è compreso il racconto in questione, Si sta facendo sempre più tardi (2001), segna in effetti un mutamento di tono e di atmosfera nella scrittura tabucchiana, ascrivibile proprio all'interferenza che si viene a creare in quegli anni tra il ruolo di scrittore e il ruolo di intellettuale e giornalista; un'interferenza più di atteggiamenti che di forme, nel senso che è la visione tabucchiana del mondo a modificarsi, virando verso una cupa inquietudine, che si tinge di disincanto e stanchezza.24 Scorrendo la fiction dell'ultimo Tabucchi, si nota come in essa la compenetrazione tra impegno intellettuale e immaginario narrativo si faccia via via più salda e urgente e, in molti luoghi, analogamente al caso appena esaminato, la narrazione non esiti a ospitare prese di posizione impegnate e indignate, che l'autore non si preoccupa più di trasfigurare letterariamente. Del resto, come leggiamo nelle bellissime pagine che Tabucchi dedica a Sciascia, Pasolini e Gadda, la saudade in quanto «nostalgia di ciò che non potremo mai più tornare ad essere, di ciò che avremmo potuto essere e che non siamo stati [...] genera livore, rabbia, furore, avversione verso noi stessi, astio, esecrazione».25 Queste riflessioni avvalorano l'impressione di un innalzamento del «quoziente di Inquietudine»26 della prosa tabucchiana degli anni Duemila, accompagnato anche da un mutamento di funzione di quel sentimento di fondo che non si traduce più in slancio propositivo, come avveniva nella parabola esistenziale di Sostiene Pereira, ma sfocia nell'amaro scetticismo della voce narrante di Tristano muore, nell'ironia sarcastica dei delusi amanti di Si sta facendo sempre più tardi, oppure nel morbido nichilismo dei personaggi de Il tempo invecchia in fretta.
Tuttavia, a prescindere dalle questioni relative all'evoluzione della scrittura tabucchiana, è significativo che nel racconto in questione la Storia si manifesti attraverso l'evento più traumatico del Novecento europeo: intento a inseguire le tracce dell'anima, in un percorso che assume la forma di un itinerario stradale, il narratore effettua una fermata proprio ad Auschwitz (il luogo della negazione dell'anima), aprendo una digressione che collega la metafora del filo spinato alla sua realtà storica, quella dei campi di morte. Della difficoltà di liberarsi del filo spinato è un testo indicativo anche per esaminare le modalità con le quali la Shoah si manifesta nella narrativa tabucchiana, dove non è mai l'evento specifico della narrazione, ma ne è il presupposto; è il fatto suggerito ma taciuto, a conferma dell'indicibilità di Auschwitz, come ci ricorda Tabucchi citando Jankélévitch.27 Anche nel caso appena esaminato, tramite l'uso della preterizione l'autore mette in evidenza ciò di cui nelle intenzioni dichiarate non vorrebbe parlare, con l'effetto conseguente che è proprio il trauma inespresso ma accennato ad amplificare la circolazione del senso nel racconto.

 

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III. Sulle tracce della Shoah: il caso «Pereira»

Per seguire le tracce della Shoah nella narrativa di Tabucchi, Sostiene Pereira fornisce un buon punto di avvio.28 All'interno di un romanzo che affronta la questione del fascismo eterno, è inevitabile che si aprano alcune pagine sulle politiche razziali dei regimi autoritari europei. Il primo segno che il lettore incontra in questa direzione è un episodio di antisemitismo che si consuma per le vie di Lisbona e al quale Pereira assiste nel suo percorso quotidiano dalla redazione del giornale per il quale cura la pagina culturale, il «Lisboa», al Café Orquídea, dove consuma abitudinariamente omelette e limonate:

«Quando passò davanti alla macelleria ebraica vide un capannello di gente e si fermò. Notò che la vetrina era in frantumi e che la facciata era imbrattata di scritte che il macellaio stava cancellando con vernice bianca. Forò il capannello di gente e si avvicinò al macellaio, lo conosceva bene, il giovane Mayer [...], un giovanotto corpulento con una pancia prominente nonostante la giovane età, e l'aria gioviale. David, chiese Pereira avvicinandosi, cosa è successo? [...] Ha chiamato la polizia? [...]. Figuriamoci, fece David, figuriamoci. E ricominciò a cancellare le scritte con la tinta bianca».29

L'attacco alla macelleria Mayer non costituisce un semplice momento didascalico della trama, utile a illustrare l'effetto della propaganda nazista sui fascismi iberici, ma rappresenta la traccia prefigurante del discorso nascosto sulla Shoah che il romanzo contiene. La vetrina infranta, gli slogan antisemiti che Mayer si affretta a coprire con la vernice bianca, l'impossibilità di rivolgersi a una istituzione, la polizia, che anziché garantire lo stato di diritto è complice o esecutrice del sopruso, come lascia intuire il «figuriamoci» del macellaio, sono tutti segnali allarmanti del progressivo stringersi della morsa autoritaria del regime salazariano sulla società portoghese,30 ma contengono anche richiami emblematici e inequivocabili all'antisemitismo nazista e alla sua violenta esplosione nel gigantesco pogrom del 9-10 novembre del 1938, noto eufemisticamente come Kristallnacht, dal quale ebbero inizio le prime deportazioni nei campi di sterminio. Ambientato nell'estate del 1938, il romanzo allude, attraverso il caso Mayer, ai legami fra i vari fascismi d'Europa e all'ombra lunga proiettata dalle politiche antisemite naziste ben oltre i confini della Germania hitleriana. Torna in mente il titolo di un racconto de L'angelo nero, raccolta che si interroga sul male della storia e dell'esistenza umane:31 Il battito d'ali di una farfalla a New York può scatenare un tifone a Pechino?. Tabucchi sembra confermare in Sostiene Pereira che le vie del male non hanno confini nazionali e che una vetrina infranta a Lisbona, poco più del battito d'ali di una farfalla, possa prefigurare le migliaia di vetrine distrutte nel pogrom nazista e il tifone di morte che di lì a breve si scatenerà nel cuore dell'Europa totalitaria. A essere messo sotto osservazione nell'episodio della macelleria è anche quell'atteggiamento che Philippe Burrin ha chiamato l'«apprendistato al disinteresse»,32 cioè l'esercizio volontario e consapevole dell'indifferenza nei confronti dei soprusi e delle violenze antisemite. Nel romanzo il disinteresse trapela dalle parole di Manuel, il cameriere del Café Orquídea, il quale liquida l'aggressione al negozio ebraico come un fatto di poco conto rispetto a quanto sta avvenendo in Europa; si annida anche nella prudente reazione di Pereira, che si potrebbe ritenere dettata da un rassegnato senso di impotenza piuttosto che da una deliberata indifferenza di fronte all'accaduto, se non fosse che invece di mettersi alla macchina da scrivere per denunciare il fatto, come si conviene a un giornalista, Pereira preferisce rimanere nella sua comfort zone fatta di penose ma rassicuranti abitudini: «Ma Pereira non aveva voglia di domandare niente a nessuno, voleva andarsene semplicemente alle terme, godersi qualche giorno di tranquillità, parlare con il professor Silva amico suo e non pensare al male del mondo».33 Al ritorno dalle terme, sarà però l'incontro in treno con Ingeborg Delgado, ebrea tedesca di origine portoghese, a riportare Pereira di fronte al "male del mondo", accelerando quel processo di erosione del suo vecchio io che ne favorirà la presa di coscienza finale e la conseguente scelta di agire scrivendo contro il regime. Per molti versi il dialogo con la signora Delgado richiama l'episodio finale di Notturno indiano, perché anche in quel caso la conversazione a tavola con una sconosciuta disvela nuove consapevolezze e apre percorsi intertestuali di interpretazione dei contenuti. Nel romanzo del 1984 è la foto mostrata da Christine al narratore, con la sua enigmatica didascalia «Méfiez-vous des morceaux choisis»,34 a proiettare significati metatestuali sull'intera vicenda, disvelandone il sottinteso côté storico-politico; in Sostiene Pereira è il riferimento a Thomas Mann a fungere da chiave interpretativa dell'episodio:

«Ho notato che stava leggendo un libro di Thomas Mann, disse Pereira, è uno scrittore che amo molto. Anche lui non è felice per quello che sta succedendo in Germania, disse la signora Delgado, non direi che sia felice. Anch'io forse non sono felice per quello che succede in Portogallo, ammise Pereira. La signora Delgado bevve un sorso d'acqua e disse: e allora faccia qualcosa. Qualcosa come?, rispose Pereira. Beh, disse la signora Delgado, lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa».35

Come le centinaia di migliaia di ebrei che negli anni Trenta lasciarono la Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste, la signora Delgado è in procinto di emigrare negli Stati Uniti e nell'attesa del visto porta con sé un libro di Thomas Mann, lo scrittore che proprio dall'esilio, prima in Svizzera poi negli Stati Uniti, usò la sua voce contro il regime di Hitler. Il richiamo a Mann consente a Tabucchi di riprendere il filo della spinosa questione del rapporto fra intellettuali e potere che percorre tutto il romanzo, a partire dai necrologi di Monteiro Rossi (vere e proprie stroncature di scrittori come d'Annunzio e Marinetti, compromessi con il fascismo), passando per le scelte traduttive di Pereira (esclusivamente concentrate, in un primo momento, sui racconti neutri e consolatori dei protagonisti del realismo francese dell'Ottocento, e via via sempre più impegnate in direzione di una denuncia della violenza e della sopraffazione del potere), fino ad arrivare alla figura stessa di Pereira e alla sua evoluzione di uomo e intellettuale a contatto con l'esperienza della dittatura salazariana. Al pari delle conversazioni con il dottor Cardoso e padre António, il dialogo con la Delgado gioca un ruolo critico nella trasformazione di Pereira dall'«evanescenza» alla «leggerezza»,36 secondo il binomio proposto da Eleonora Conti, ovvero dall'annullamento «in una nostalgia senza nome»37 al raggiungimento di una maturazione personale che coincide con la conquista di una sincronia con la Storia. Se il dottor Cardoso e padre António favoriscono la rinascita esistenziale di Pereira, l'uno per mezzo della teoria della confederazione delle anime dei médecins-philosophes, l'altro per il tramite delle teorie sulla resurrezione della carne, la Delgado scuote la sua coscienza intellettuale, tramite il richiamo alle responsabilità etiche e politiche di un giornalista: scrivere, far conoscere, denunciare ciò che accade. Le parole dirette dell'interlocutrice non lasciano scampo ai fiacchi alibi di Pereira: l'impegno non è un atto di eroismo, ma si traduce sic et simpliciter nel fare qualcosa con le risorse a disposizione. Non è necessario essere Thomas Mann per prendere posizione contro la dittatura: «forse tutto si può fare, basta averne la volontà»,38 incalza la Delgado. Che queste parole siano pronunciate da una donna ebrea sulla via dell'esilio non è un particolare secondario, ma al contrario conferisce al discorso il valore di un j'accuse nei confronti del «male del reticolato» che affligge gli intellettuali come Pereira, chiusi nella turris eburnea dell'arte per evitare il rapporto con il "male del mondo". Nel momento in cui si risolverà a "fare qualcosa", forzando la prigione esistenziale che lo condanna all'inazione, Pereira si confronterà con la brutalità del presente, iniziando di conseguenza ad abitare il futuro, benché nel futuro che gli si apre davanti sia inevitabilmente tracciata la strada dell'esilio. Le battute finali del libro ci mostrano infatti l'anziano giornalista intento a fare i bagagli per abbandonare sotto falso nome il Portogallo. Nell'incontro con la signora Delgado è anticipato dunque il destino di Pereira come intellettuale in esilio, condizione, in cui si manifesta secondo Edward Said la vera natura dell'intellettuale che è sempre marginale e dislocata rispetto all'autorità del potere.39 Scrive Sereni a proposito del «male del reticolato» che «i poeti sono i primi a sentire il disagio» della distanza che si crea fra il linguaggio (e gli ideali) della poesia e l'esperienza della guerra, ma «nella guerra generale, contro questo disagio s'appunta la loro guerra. Che si combatte in due modi: assecondando il disagio fino a soffocarlo nel ripudio delle certezze di ieri; superandolo (ma è un modo assai più raro) col difendere le certezze».40
Le parole di Sereni sembrano prefigurare la "sfida al labirinto" proposta da Italo Calvino nel saggio omonimo del 1962, dove la figura dell'intellettuale, e con essa quella della scrittore, viene esaminata alla luce del diverso atteggiamento di fronte alla complessità del reale: di resa o di sfida al labirinto.41 L'atteggiamento di sfida non contiene in sé la chiave per uscire dal «reticolato» ma permette di salvaguardare quelle «certezze» di cui parla Sereni, imprimendo una direzione etica al disagio dell'intellettuale. Di fronte alle labirintiche forme che il «male del reticolato» assume nel secondo Novecento, la letteratura non può offrire verità definitive e assolute, ma può proporre e rappresentare le zone di "non-inferno" invocate da Calvino nella celebre chiusa de Le città invisibili, ovvero delle certezze etiche che vanno di volta in volta riconosciute e difese:

«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».42

Tabucchi, scrittore e intellettuale, ha scelto la seconda strada e ha combattuto l'inquietudine del suo e del nostro tempo, elaborando il lutto dei valori dell'Occidente bruciati nella Shoah43 e difendendo la certezza della verità della finzione, dalla quale deriva la risonanza della storia di Pereira:

«In quel privilegiato spazio che precede il momento di prendere sonno e che per me è lo spazio più idoneo per ricevere le visite dei miei personaggi, gli dissi che tornasse ancora, che si confidasse con me, che mi raccontasse la sua storia. Lui tornò e gli trovai subito un nome: Pereira. In portoghese, Pereira significa albero del pero e, come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città. Con questo volli rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della Storia».44

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gennaio-maggio 2023, n. 1-2