Andrea Bajani

L'amicizia di un desco

 

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Andrebbe prima o poi azzardata una catalogazione dei luoghi della casa in cui le opere della letteratura sono state scritte dai lori autori. E ci si renderebbe probabilmente conto che molti dei libri che ci hanno segnato la vita sono stati scritti in cucina. Che le parole e le frasi che ci hanno fatto pensare, sconvolto, rovesciato gli occhi sul mondo, sono venute fuori accanto a tazzine di caffè dai fondi misteriosi, a tovaglie scostate quel tanto che basta per farci stare un quaderno. E che quelle cucine, quei resti di vita rimasti sul tavolo - in forma di briciole o macchie sopra il tessuto -, sono diventate stile.
Conversando con il suo traduttore spagnolo Carlos Gumpert, che lo invita a raccontare la sua officina, Antonio Tabucchi dice: «In genere scrivo in piedi, appoggiandomi a una madia, perché soffro di mal di schiena e preferisco non stare sempre seduto». La madia è la regina della cucina. L'etimologia d'altra parte non mente, e connette il mobile al suo uso: è nata per permettere che sopra vi si impastasse la pasta. La madia è dove ci si sporca le mani con la farina, dove si combinano degli elementi - farina, acqua, olio, lievito, sale - che prima di finire sopra la madia sono elementi distinti e poi succede la magia inspiegabile del pane, il semplice che nasce dalla complessità.
Nella sua casa di Vecchiano, Antonio Tabucchi aveva uno studio. Una porta apriva l'accesso a un mondo, che almeno nel ricordo che ne ho, era silenzioso: a sinistra una scrivania lunga e per così dire importante, con accanto una finestra che guardava in cortile. Di fronte scaffalature di libri, forse un tappeto per terra, forse una poltroncina. Sugli scaffali i poeti, Caproni, Montale, molti volumi di un troppo spesso dimenticato Tiziano Rossi.
Lo studio era la stanza della poesia. Mi viene da dire che da lì, da quei libri di versi, poi la biblioteca si era allargata come edera per la casa. Aveva preso stanza per stanza, salendo su per i muri, perimetrando le porte, e poi infilando le scale con una parete di libri Sellerio. Poi quell'edera di pagine e storie prendeva e andava su al primo piano, fino alle camere da letto.
Eppure Tabucchi scriveva in cucina. Si alzava in piedi, poggiava il quaderno sopra la madia, impastava parola con parola. Poi la lasciava lì, e le frasi lievitavano e diventavano mondi. Quei mondi sono la cifra inconfondibile che fa dei suoi libri dei luoghi dove è bello attardarsi a chiacchierare dopo cena, dove la voce è sempre sul punto di smettere di parlare e poi ricomincia perché è bello stare insieme. Notturno indiano, Il filo dell'orizzonte, Requiem, Sostiene Pereira: c'è sempre qualcuno che dice, sostiene, riporta, racconta. Non si impone, ma magnetizza, offre una voce.
A dieci anni dalla sua morte, la voce di Antonio Tabucchi si sente limpida in un libro - Zig Zag, a cura di Clelia Bettini e Maurizio De Rosa e con una introduzione di Anna Dolfi - tutto fondato sul conversare, con due dei suoi traduttori, Carlos Gumpert e Anteos Chrysostomidis. Sono parole da dopo cena, da dopo pasto, molte pronunciate in via Magagna a Vecchiano. Difficile non intuire il gesticolare delle mani, lo spazio ampio dei silenzi. «Mi pare chiaro che ci sono delle persone che sono visitate da voci, voci interne, e forse io sono una di quelle persone», dice Tabucchi. Racconta di sé, dei suoi quaderni, della sua educazione alla lettura («Ero in primo luogo uno scrittore passivo, cioè un lettore»), di quello specifico ricordare connesso all'atto di scrivere («Ho la convinzione, forse in parte illusoria, che la letteratura sia una forma di memoria»).
È curioso pensare, a dieci anni da quel 25 marzo 2012 che ci ha portato via molte opere future che non saranno mai scritte, che una delle opere più rappresentative di Antonio Tabucchi sia questa doppia chiacchiera, questa scorribanda con interlocutore. Perché? Perché il dialogo è fondato sull'ascolto, e non credo ci sia stato, negli ultimi decenni, scrittore che ha costruito così tanto il proprio stile sull'ascolto delle voci. Le proprie e quella altrui. «Sono una persona molto indiscreta, mi piace tenere le orecchie bene aperte quando viaggio in autobus, in taxi, in treno, quando sono al bar».
Tabucchi ascolta. Non gli interessa essere uno scrittore di professione, gli interessa che le parole - le voci - lo visitino quando hanno voglia di farlo. «So benissimo che si può scrivere anche per mestiere [...] però a me piace scrivere per ispirazione. [...] Per questo preferisco tacere quando la musa tace».
A dieci anni dalla sua scomparsa, la voce di Antonio Tabucchi arriva con una specie di gentilezza inusitata. Per una ragione specifica, che non potrà non saltare agli occhi dei lettori. Vedendo Tabucchi conversare con due amici, ci si rende conto, a posteriori, che tutta la sua idea della letteratura è in fondo figlia di questa postura, è profondamente legata all'amicizia. «Quando scrivo penso principalmente ai miei amici», dice a latere di una sorta di piccolo discorso sul metodo. E questo sentimento innerva ogni pagina scritta.
Tabucchi considera amici i suoi lettori. Invita i fotografi nello studio, e però i lettori in cucina. Non c'è posa, non c'è performance, quando si scrive, dice l'autore di Il tempo invecchia in fretta. Non c'è se non l'amicizia di un desco. Ci sono briciole sulla tovaglia, forchette sui piatti, tovaglioli spiegazzati. C'è la vita messa male, che è l'unica che si può condividere con gli altri. «Non mi considero un maniaco dello stile, sono disordinato in generale, sono una persona che si macchia la camicia mentre mangia, e la cui scrittura, allo stesso modo, non è proprio un portento di limpidezza». Chino sulla tovaglia c'è un uomo che non ha paura di dirlo, che invita a condividere le macchie, a condividere l'imperfezione, a provarne una qualche tenerezza.

 

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gennaio-maggio 2023, n. 1-2