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Eleonora Poli
Intervista a Kepler-452
Quali sono gli orientamenti principali della vostra ricerca teatrale? quali maestri/modelli vi hanno ispirato?
Enrico: Kepler-452 nasce come strumento di indagine teatrale, nel campo della relazione tra teatro e realtà. Crediamo che l’oggetto di indagine debba essere spostato al di fuori dell’edificio teatrale. Quando, nel 2015, abbiamo cominciato a lavorare insieme, ci siamo accorti che non volevamo chiuderci in una sala teatrale per analizzare testi. Pensiamo che il teatro abbia vissuto un enorme scostamento dalla realtà e che sia distante da un certo tipo di vita che continua a scorrere fuori da quelle pareti dipinte di nero. Spostando fuori dal teatro l'oggetto di indagine, abbiamo scoperto che la realtà ha una forza drammaturgica evocativa e estremamente potente. I nostri primi spettacoli partivano da un’osservazione esterna che tornava sulla scena attraverso la narrazione di attori oppure coinvolgevano direttamente dei frammenti di realtà, che si incastonavano all'interno di un quadro ampio che è quello della scena teatrale.
Prima di noi questi esperimenti sono stati portati avanti, in Italia, da ITC di San Lazzaro o il Teatro delle Albe, che attraverso pratiche come laboratori e teatro partecipato, hanno cominciato a tracciare delle direttrici in questo senso. All'estero, esperienze come i Rimini Protokoll hanno fatto di questa idea dell’affrontare il teatro attraverso la voce di persone, che del teatro non fanno parte, una vera e propria poetica che vada al di là del teatro sociale e che diventa espressione artistica di ricerca.
Nicola: Sui maestri c'è da aggiungere che c'è tutta una temperie di raccontatori del reale. Nel nostro caso, però, il raccontare il reale si pone come mediazione con la tradizione teatrale. Lo si vede nel caso de Il giardino dei ciliegi che non fugge dal teatro per farne un'altra cosa, ma fugge dal teatro per poi tornarvi. Da parte nostra, quindi, c'è un interesse, un amore, per il luogo del teatro dal quale ci piace scappare per poterci successivamente stare dentro in nuova compagnia, per portare la realtà dentro il teatro e non per superare con la realtà in teatro. I nostri riferimenti hanno a che vedere con il teatro documentario, ma anche con Čechov, o con alcune intuizioni del teatro di regia, del teatro d’attore. C’è un incontro-scontro tra questi due mondi che forse è il dato più originale rispetto a tanti altri che, soprattutto all'estero, si occupano di teatro.
Un altro elemento di differenza che forse ci avvicina più al teatro così come è più classicamente inteso, ed è pervenuta alla nostra attenzione - rispetto ad altre esperienze di teatro con persone che non si occupano di teatro, non professionisti – è che il nostro teatro non ha alcuna intenzione di migliorare la vita delle persone con cui si relaziona. È qualcosa che può magari accadere ugualmente, però non è la nostra forza motore.
Come avete vissuto il ritorno al palcoscenico dopo il periodo di chiusura dei teatri? Avete presentato lavori già approntati in precedenza o avete sentito il bisogno di elaborare o rielaborare testi o lavori che tenessero conto di quanto accaduto?
Nicola: C'è stata una prima fase, quando eravamo chiusi in casa, d’interrogazione la cui risposta è stata Il primo giorno possibile. Non avevamo le ambizioni di fare uno spettacolo su internet, non ci sembrava interessante e abbiamo immaginato uno spettacolo che potesse andare in scena il primo giorno possibile. Abbiamo immaginato come sarebbe stato questo primo giorno, le restrizioni, le limitazioni che ci sarebbero state e abbiamo deciso di farne drammaturgia e di lavorare su questo rincontrarsi dopo quel periodo.
Dopo c'è stato un periodo in cui la faccenda sembrava essere finita e, nell’illusione del suo tramontare, ci siamo messi a lavorare su uno spettacolo frontale, Gli altri. Con la nuova chiusura ci siamo rifermati e abbiamo cominciato a immaginare prima Consegne e poi Coprifuoco, due spettacoli che prendevano atto della nuova condizione sanitaria con una circolazione molto ridotta e in cui la possibilità di andare a teatro, così come quella di incontrarsi in un certo numero di persone dal vivo, era ancora esclusa. Di qui l'idea di vestire i panni di un rider e fare una cosa formalmente concessa, sfidando i limiti di ciò che fosse consentito. Un’operazione di più ampio respiro di coinvolgimento di pubblico è stata realizzata in Coprifuoco.
Infine, ci è capitato, per puro caso, di curare dall’Italia una regia in Argentina in apertura del Festival Fiba di Buenos Aires. È stata una fase in cui tornare a sperimentare delle modalità teatrali classiche. Credo sia uno dei pochi esperimenti nel mondo in questo senso - non ho notizie di questo metodo, se non di qualche coreografo - e che coinvolga dei non professionisti.
Ad oggi stiamo lavorando a uno spettacolo frontale in cui il covid e le restrizioni non sono protagoniste, ma risponde a una promessa che ci siamo fatti alla fine del primo lockdown: non continuare come se non fosse successo nulla. Ciò significava da una parte inventare degli spettacoli apposta per quel momento, dall'altra, quando saremmo tornati a fare spettacoli frontali in teatro, di farli tenendo conto di quello che era successo anche, e soprattutto, sul piano economico. Ci sarà una contrazione economica? Dei licenziamenti? Dei temi sociali nuovi? Cerchiamo di non perderli d'occhio ed è questo che adesso, e negli ultimi mesi, ci ha portato a vivere dentro un presidio della fabbrica occupata in provincia di Firenze nei campi Bisenzio. Sarà sempre in relazione con la pandemia, non bisogna dimenticare quello che è successo.
Ora che si è rimessa in moto la macchina teatrale, con nuovi bandi, residenze e progetti che hanno ripreso il loro corso, vi sembra che, nel teatro italiano e/o internazionale, si stiano delineando tendenze degne di nota / scenari riconoscibili/particolari o stiano emergendo nomi promettenti (per interpretazione, drammaturgia, allestimento, ...)
Enrico: Sto andando pochissimo a teatro da un lato a causa del periodo ancora incerto sulla sicurezza di alcuni luoghi, dall’altro per la quantità di produzioni "scongelate dal frigo" ovvero scritte pre-pandemia e ora messe in scena. Purtroppo, o per fortuna, non si sta parlando molto di covid a teatro. Ho un po' di paura dei danni che potrebbe fare se la comunità teatrale cominciasse a parlare troppo di pandemia. D’altra parte, mi sembra che sia successa una cosa talmente grossa che è così difficile da ignorare.
A livello nazionale una compagnia che mi sembra molto interessante è la compagnia di Fettarappa Sandri-Guerrieri. Nicolò ha qualcosa di interessante, forse proprio perché non proviene esattamente da un percorso teatrale ma ha un approccio molto filosofico di osservazione rispetto la realtà.
Mi interesserebbe parlare di più di questioni legate al rapporto con la realtà, anche laddove si fanno dei tentativi che risultano problematici – magari per alcuni sì e per altri no – e vedere meno spettacoli che continuano a mettere in scena dei testi e basta.
Nicola: Condivido, non mi sembra che questa pandemia sia al centro dei pensieri di tutti. L'impressione un po’ scoraggiante che ho è che questo enorme mutamento che ci sta accadendo, la comunità teatrale lo stia un po’ negando o comunque toccando di lato senza guardarlo direttamente. Magari hanno ragione. In ogni caso, a teatro, non mi sembra che rispetto a prima sia cambiato granché. L’impermeabilità della comunità teatrale rispetto al mondo non è una novità.
Quale pubblico per il teatro di domani? Quali parole per il teatro di domani? Qual è la gente che va a teatro?
Nicola: Probabilmente lo stesso pubblico di prima ma con composizioni un po' diversa. Intanto non verrà più chi non è vaccinato e, de facto, è un dato importante che è passato del tutto inosservato, al di là di quello che uno possa pensare dal punto di vista politico del green pass. Così, abbiamo assunto che il 10% degli abitanti non sia più nostro potenziale pubblico e nessuno se n'è interessato. Cambia qualcosa? A chi non parliamo più? I non vaccinati sono una categoria di persone che frequentavano il teatro. Riporto un’esperienza empirica, quando ancora era appena nato il green pass e ancora vi erano rappresentazioni all'aperto. A diverse repliche si poneva il problema dei non vaccinati che guardavano gli spettacoli da fuori. È un tema vero per quanto riguarda il pubblico, poi magari numericamente non regge, però è un tema.
Enrico: Sento molta gente dire "quelli che non si vaccinano non ci venivano a teatro!" Questo è un grave errore di analisi perché non è vero. Il pubblico del teatro conta molte persone un po’eccentriche e con idee particolari. Parte delle poche persone non vaccinate che conosco erano fruitori culturali. Non sono persone ignoranti e marginalizzate, lontane da qualsiasi forma di arte e di cultura.
Per il resto anche il teatro è rimasto con quella composizione di prima. Magari vi è qualcuno in più che ci viene solo perché adesso si può, come vi è qualcuno in meno perché non si sente sicuro. Ma questa cosa non ha comportato cambiamenti epocali. Gli operai che prima non andavano a teatro adesso non hanno cominciato a andarci. Non è cambiato il desiderio da parte della comunità teatrale di aprirsi a un pubblico nuovo e diverso, non è cambiato lo sforzo di linguaggio per farlo.
Aggiungo che per fortuna il teatro è talmente permeabile nella sua natura che la pandemia, alla fine, ci entra anche se si decide di non farla entrare. È proprio questo il bello. Non puoi rimuoverla perché nel momento in cui la gente è distanziata, o ha la mascherina, o ha paura di essere lì, o fa uno sforzo per esservi lo stesso, si è comunque in quel folle campionato della rimozione sfrontata e collettiva.
[Intervista realizzata il 15 dicembre 2021]
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2022
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Giugno-dicembre 2022, n. 1-2
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