Eleonora Conti e Monica Berardi
Intervista al Collettivo lunAzione: Martina Di Leva, Eduardo Di Pietro

 

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Casertano

Volete presentarvi brevemente? Raccontare la vostra formazione, il vostro esordio, come siete arrivati al teatro…

Martina Di Leva: Siamo Martina Di Leva e Eduardo Di Pietro del Collettivo lunAzione, una giovane compagnia under 35 di Napoli. Dal 2021 siamo stati riconosciuti, per l'annualità, come compagnia under 35 dal ministero. Siamo finanziati dal FUS e questo è un punto importante perché ci ha permesso di allungare lo sguardo, di immaginare un'attività a lungo termine senza la precarietà imminente. Ci muoviamo in diversi ambiti. I nostri lavori sono produzioni teatrali di drammaturgia contemporanea e lavori site specific. Da diverso tempo portiamo avanti dei progetti con residenze a stretto contatto con le comunità e i suoi abitanti. Possiamo probabilmente parlare di "teatro partecipativo". Nel 2013 abbiamo cominciato a collaborare con le scuole ed è un filone che continuiamo a portare avanti perché ci piace rivolgerci ai giovani in quanto futuri spettatori. Dobbiamo, in realtà, imparare da loro. Ci sono anche Cecilia Lupoli e Giulia Esposito che fanno parte del nucleo del direttivo, ma sono tantissimi gli attori e i collaboratori del Collettivo lunAzione. A seconda della tipologia di progetti coinvolgiamo diversi tipi di professionisti.

Eduardo Di Pietro: È importante, innanzitutto, che dal punto di vista umano ci troviamo bene a lavorare, e poi chiaramente anche dal punto di vista artistico. Personalmente io non sono più under 35, ma ci iscriviamo ancora in quel tipo di categoria per esigenze burocratiche.

Martina Di Leva: Intendiamo il teatro come strumento di avvicinamento tra le persone. A cosa serve il teatro? Perché abbiamo iniziato a fare teatro? Perché ci siamo ritrovati a farlo insieme? Ognuno di noi aveva bisogno di rispondere a delle domande, che da questioni personali si sono trasformate in domande di comunità, in domande di un gruppo, in esigenze a cui il teatro non sempre riesce a rispondere, però ti porta ad approfondirle.

Eduardo Di Pietro: Il teatro è come uno strumento di conoscenza. Effettivamente, guardando quello che abbiamo fatto e che costituisce la nostra direzione, che determina il nostro presente e domani - in maniera più o meno ravvicinata -, il teatro ci ha aiutato a comprendere meglio quella minima porzione di realtà con cui riusciamo a rapportarci. Ha migliorato la nostra presenza nel mondo, in una maniera più intensa, ha "condensato" alla Peter Brook. Anche per chi fa teatro la vita si condensa, oltre che in scena.

Martina Di Leva: L'idea è quella del teatro come indagine, come abbiamo tradotto anche nelle nostre produzioni. Se pensiamo a Il Colloquio, lo spettacolo è stato realizzato attraverso interviste di donne che realmente hanno degli uomini in carcere. Anche Hosting, performance site specific, è il risultato di interviste, di ore e ore passate a parlare con le persone.

Eduardo Di Pietro: Hosting è un progetto site specific. Parliamo di comunità perché nasce per degli ecosistemi circoscritti. In seguito a un periodo di residenza teniamo una serie di interviste audio con persone residenti nella comunità. Queste interviste audio sono poi rielaborate e compongono una drammaturgia collettiva condivisa nella performance in cuffie wireless. Il pubblico ascolta, quindi, un montaggio audio delle voci registrate...

Martina Di Leva: E questo ritornando alla questione dell'indagine, al lavoro di intervista. Conoscere la realtà ci permette di trasformarla artisticamente e scenicamente. Il teatro fa questo, traduce la realtà.

Eleonora Conti: A me colpisce molto questo partire dalle interviste. Mi sembra questo il modo in cui voi conducete le vostre indagini, la vostra ricerca, cioè il confronto con le voci della comunità o del luogo specifico, o nel caso delle donne che devono andare al colloquio con i mariti o i figli carcerati. Questo punto mi sembra molto interessante, la drammaturgia collettiva in questo senso.

Eduardo Di Pietro: È quello che intendevo quando parlavo del teatro come strumento di conoscenza. Per me il teatro ha una potenzialità di rilievo antropologico. Poi, chiaramente, si mette da parte l'aspetto antropologico della questione perché c'è sempre una rielaborazione artistica dei materiali. C'è sempre una licenza creativa che si misura con quello che è il linguaggio teatrale nella sua specificità. In maniera squisitamente artigianale, c'è qualcosa che funziona e qualcosa che non funziona in scena. Quello che non funziona non vuol dire che non funzioni in assoluto, ma bisogna tener conto di quelli che sono degli obiettivi di resa scenica. Il Colloquio, che avete visto, è abbastanza significativo di quella che è la nostra cifra. Abbiamo un gusto e una propensione per il comico, per il paradosso, per l'assurdo, ma non solo (in Hosting, per esempio, questo non riesce a venire fuori). La realtà come punto di partenza è qualcosa che ci pare particolarmente stimolante, fermo restando che quella realtà diventa poi materiale, come se fosse dell'argilla, con cui plasmare un atto performativo e tale mira ad essere. Non c'è una volontà documentaristica in quello che facciamo. È un modo di essere presenti nel qui e ora della realtà che viviamo e in un certo qual modo anche nella storia, nonostante poi l'obiettivo sia quello di aggirare la storia. L'idea è quella di partire dalla storia per arrivare a un'ideale di atemporalità, che è quello che permette al classico di diventare tale. Un altro aspetto che Il Colloquio restituisce è il fatto che siamo partiti lavorando in maniera più classica, partendo quindi dalla drammaturgia scritta che mettiamo in scena. Ben presto ci siamo accorti che era qualcosa che non ci soddisfaceva, per cui siamo passati a un lavoro di scrittura scenica che coinvolge direttamente, oltre che i materiali di indagine come le interviste, il lavoro degli attori, con la loro specifica creatività. Si è trattato di un lavoro di condivisione creativa in senso più ampio, in cui il processo di lavorazione è stato molto dibattuto, aperto alla collaborazione, alla partecipazione degli attori.

Martina Di Leva: È un metodo che è arrivato. La magia del teatro è anche in divenire. Adesso è questo.

Eduardo Di Pietro: Ti accorgi che devi calibrare il metodo a seconda del tipo di operazione. È qualcosa che si collega alla specificità del linguaggio teatrale. Il teatro come potenziale espressivo è qualcosa che deve, crediamo, discostarsi da altri tipi di linguaggio, perché ha delle potenzialità proprie. La parola non è un monolite che fa capo all'italiano standard e ai mezzi di videocomunicazione, il teatro deve provare a penetrare e a rendere le innumerevoli opportunità della lingua attraverso la propria specificità. Ne Il Colloquio il dialetto non ha alternative in termini linguistici. Prendiamo un altro caso. Abbiamo sviluppato un nuovo studio su un nuovo lavoro che si chiama La misura, dove la parola per il momento è molto molto limitata. È relegata ad aspetti occasionali, quindi problematizziamo continuamente, passo per passo, il rapporto con la parola, nel senso più ampio. Altri aspetti che sono stati fruttuosi in quel tipo di lavoro, e che credo restituiscano il nostro modo di rapportarci al lavoro teatrale, è l'indagine intesa anche come attraversamento della liminalità, cioè del margine, nel senso più ampio. La liminalità mi pare particolarmente fruttuosa dal punto di vista creativo. Liminalità intesa come personaggi, come estrazione sociale, come prossemica, è sempre qualcosa che riguarda l'essere in bilico, protesi verso qualcosa di sconosciuto, verso l'abisso. È sempre un modo di restituire la condizione umana, di trascendere il contingente. I personaggi de Il Colloquio sono tre donne che si trovano in quella situazione liminale di cui parlavamo prima, che però abbiamo cercato di rendere più universali possibili, in modo da poter comunicare in maniera più ampia. Qui ritorniamo a quanto dicevamo pocanzi e cioè partire dalla storia per discostarsi dalla storia, per ambire a una forma di universalità. Partire dal reale per trascendere il reale. Il teatro offre questa libertà immaginativa.

Eleonora Conti: Il vostro nome, lunAzione, come lo collocate in questo scenario?

Martina Di Leva: Lunazione è il periodo che intercorre tra le fasi lunari. Ci interessa come la Terra subisca questa energia, cambi in base alle fasi lunari. La luna, cambiando faccia, trasformandosi è in grado di alzare mari, muovere energie, le famose maree. Così ci piace pensare che il teatro possa esercitare influenze e mutamenti sul mondo. Si pensi anche al collegamento che c'è tra la luna e l'essere donna. Ecco, quindi, questo agire in trasformazione definisce il Collettivo lunAzione.

Eleonora Conti: Avete dei maestri? Certo che quel nome, Eduardo...

Eduardo Di Pietro: Napoli, al di là di quello che riesce ad arrivare sulla scena nazionale, è un ambiente teatrale di grande vitalità. Il centro storico è strapieno di teatro. Posso dire per quali compagnie ho avuto delle folgorazioni. Per darvi un'idea, mi sono laureato alla triennale di Lettere Moderne con una tesi sulla finalità sociale nella scrittura teatrale di Massimo Troisi. In antropologia, con lo studio espressivo di Familie Flöz che chiaramente è tutt'altro.

Martina Di Leva: Potremmo dire tutti quelli che abbiamo studiato, da Shakespeare a Grotowski a Stanislavskij, perché ti formi da ognuno di questi, dalla teoria. Tu provi a prendere qualcosa e a tradurlo. Non a caso la nostra prima produzione è stato uno spettacolo di Shakespeare, riscritto da uno dei drammaturghi della compagnia dell'epoca, nel 2013. Scopri però poi il teatro che c'è, quello che sta in scena, e ti interessa il teatro di figura, il teatro dove le persone non parlano, il teatro di comunità… e quindi ci interessa tutto. Sembra una risposta generica, ma credo che l'attore, l'artista, chi fa teatro, abbia fame di tutto per poterlo tradurre nel proprio linguaggio.

Eduardo Di Pietro: Quello che può essere assolutamente fruttuoso è il subire le influenze di ciò che non è teatro. C'è una celeberrima citazione di Neiwiller rispetto a questo «ciò che non è teatro, teatro non è, ma lo alimenta». Per esempio, Il Colloquio nasce da un documentario, è partito da là. In quel documentario abbiamo visto poi una situazione teatrale che abbiamo deciso di indagare. Ci sono delle fonti apparentemente eterogenee e che possono in qualche modo reagire con la scena, provocando quasi una reazione chimica, che è sempre molto sorprendente. Un altro esempio: ci stiamo misurando per la prima volta con una marionetta a grandezza umana e stiamo scoprendo quelle che sono delle competenze artistiche proprie del teatro di figura. Si tratta di una grammatica che è altra e che richiede di essere rispettata. Si ritorna sempre al discorso di ciò che funziona e ciò che non funziona, quanto comunica e quanto non comunica un dato elemento. Siamo partiti per questo da un fatto di cronaca. Il fatto di cronaca poi è diventato sempre più marginale, ma è stato un modo per trasporre quella situazione in scena. Quindi può essere interessante questo aspetto: quanto ciò che non è teatro possa, per degli occhi deviati come i nostri, cercare di essere tradotto.

Martina Di Leva: Anche per Hosting siamo partiti, tra le altre cose, dalla «paesologia» di Franco Arminio. Abbiamo indagato i mezzi tecnologici, l'uso delle cuffie wireless, come ciò poteva entrare nel teatro, assumendo che il teatro può essere fatto non su un palcoscenico. Allora sperimentiamo, andiamo a studiare chi lo ha fatto prima di noi. Guardando gli altri scopri cosa interessa fare a te, trasformandolo nel tuo codice.

Eduardo Di Pietro: Ogni volta poi che ci ritroviamo a fare qualcosa di nuovo abbiamo un metodo con cui proviamo a orientarci nel mare magnum della creatività: andiamo a rivedere quelle che sono state delle opportunità, delle possibilità e quindi azzardare dei tentativi in maniera più oculata, fondata.

Monica Berardi: Questo progetto a cui state lavorando dovrebbe essere realizzato per la prossima stagione, per il 2022, o prevedete tempi più lunghi?

Eduardo Di Pietro: Proprio perché è qualcosa di completamente nuovo, aspettiamo di capire come viene fuori man mano il lavoro. Abbiamo fatto una restituzione al Festival Strabismi.

Martina Di Leva: Uno studio già esiste, ma c'è ancora bisogno di lavorare. Il teatrante vorrebbe stare tutto il tempo chiuso a studiare, a capire, a trasformare, ma le esigenze della società ti impongono di definire il prodotto. Però è vero anche che quando un lavoro può vedere la luce, metti in conto anche la possibilità di continuare a trasformarlo.

Eduardo Di Pietro: Un fondamentale problema è quello dell'arco vitale degli spettacoli. La possibilità di sviluppo in scena degli spettacoli, nella relazione con il pubblico, ad oggi è diventata rarissima. Quando parlavo con i Familie Flöz loro dicevano di considerare uno spettacolo chiuso intorno alla cinquantesima replica. "Fino a cinquanta repliche stiamo a rimaneggiarlo, stiamo a vedere cosa funziona, cosa no".

Martina Di Leva: Ma cinquanta repliche non sono facili da avere per una compagnia giovane. Ormai il teatro e gli spettacoli girano per una data in un posto. Gli stabili possono chiedere una programmazione di una settimana, ma in generale i teatri chiedono una data secca. È un problema generalizzato oggi in tutto il teatro.

Eleonora Conti: Quanto la gestazione del teatro risente di questo clima, non di paralisi, ma di rallentamento del teatro, che sembra respirare talvolta?

Martina Di Leva: Riporto l'esperienza del collettivo all'inizio del 2020. Il Colloquio aveva vinto il premio Scenario Periferie nel luglio 2019. Ha visto la prima messa in scena completa dello spettacolo a dicembre 2019. Chiudere due mesi dopo tutto è stato un colpo. Come diceva prima Eduardo, una posizione che ti impone dei limiti è il momento di maggiore creazione perché sei costretto a creare per rispondere a quello spazio ristretto che hai. È quello che abbiamo fatto perché durante il famoso lockdown ci siamo chiesti cosa potesse fare il teatro, in che maniera potesse rispondere. Ci ha interessato tantissimo il lavoro di un'altra compagnia, i Kepler-452. Hanno inventato un format, uno spettacolo che si chiama Consegne, in cui l'attore, nelle vesti di un personaggio-rider, rimaneva connesso sulla piattaforma zoom durante il tragitto verso la casa dello spettatore, cliente che aveva acquistato il prodotto. C'era, quindi, un reale dialogo tra lo spettatore e l'attore. Questo ci ha spinto a contattare i ragazzi e abbiamo chiesto di portare Consegne a Napoli. Quindi, con un adeguamento site specific, in motorino e non in bicicletta, con Cecilia Lupoli in scena, abbiamo portato Consegne a Napoli.

Eduardo Di Pietro: È anche un modo che si ricollega a quella esigenza di cui dicevo prima, di stare nella realtà. Rispetto a quello che succede intorno a noi, che possibilità abbiamo, in termini teatrali di rapportarci a quella realtà? Di agire su quella realtà, di influenzarla, di indagarla? I ragazzi di Kepler lo avevano fatto e rispecchiava quello che era un nostro sentire. Questa è stata quel tipo di esperienza esemplare, nei termini di cui chiedevate cioè di come l'artista può relazionarsi a una situazione di crisi. In termini più ampi, noi come stiamo rispondendo oggi?

Martina Di Leva: Da quando c'è stata la riapertura a giugno 2020, noi non ci siamo mai fermati.

Eduardo Di Pietro: Il nostro caso è un po' più particolare perché è poi arrivato In-Box e ci si sono addossate, quindi, le date di Scenario che erano poi rimaste congelate, a cui si sono aggiunte quelle di In-Box. Nel nostro caso ci è andata abbastanza bene.

Martina Di Leva: Questa è anche una spinta per continuare a lavorare, altra cosa che abbiamo fatto tantissimo durante l'anno. Durante il periodo di lockdown ci siamo occupati dei bandi, abbiamo tantissimo e questo ci ha portato anche a vincere la crisi. C'è un progetto che è in itinere ma a breve potremmo finalmente pubblicizzare che riguarda la città di Napoli, in particolare il quartiere di Ponticelli, fa parte della rete I Quartieri dell'Innovazione. C'è la rivalorizzazione di una vecchia scuola che era stata abbandonata. All'interno di questa scuola, il Centro polifunzionale Ciro Colonna, tantissime associazioni si stanno rimboccando le maniche per creare un polo che risponda alle esigenze di Napoli Est. Fra queste c'è il progetto CuciNa-poli Est, si tratta dell'apertura di una cucina che permetta alle donne del luogo di lavorare, di essere assunte, e di creare uno spazio in cui vi siano degli spettacoli la sera. Il Collettivo lunAzione fa parte della cordata che ha vinto questo bando e stiamo, quindi, lavorando sul territorio per progetti differenti. Quello che facciamo è mettere dei semi, per le piante, gli alberi che cresceranno. Abbiamo studiato il lavoro sull'internazionalizzazione, su come è possibile portare all'estero i nostri lavori.

Eduardo Di Pietro: Ancora non siamo andati fuori. Il fatto è che bisogna sempre dividersi tra il lavoro creativo e quello amministrativo e burocratico. Questo è anche quello che contraddistingue il nostro lavoro, delle compagnie in generale. Magari poi se riusciamo ad arrivare alla possibilità di contrattualizzare qualcuno, ben venga, però all'inizio ti devi un po' barcamenare tra quella che è l'organizzazione, la distribuzione, gli aspetti che vanno oltre il prodotto artistico.

Eleonora Conti: Per noi da spettatrici il lockdown è stato un momento di crisi totale. Con i teatri chiusi abbiamo cercato in rete tutto il possibile e immaginabile, nell'attesa di poter tornare a teatro. Sapere che voi lavoravate dall'altra parte è rassicurante.

Eduardo Di Pietro: È molto bello sentire questa cosa, cosa che non capita spesso. Il lockdown, con la proliferazione di contenuti in rete, è stato un periodo molto fervido da questo punto di vista.

Eleonora Conti: Anche se manca quell'interazione che poi modifica lo spettacolo e lo spettatore.

Martina Di Leva: Il teatro va agito.

Eleonora Conti: Il lavoro è stato quindi denso. Il lockdown l'avete vissuto come occasione per mettere tanti progetti in cantiere e sperimentare cose nuove.

Eduardo Di Pietro: Il lockdown è stato una cartina tornasole per fermarsi un attimo e guardare le nostre politiche culturali. Poi, quello che ha portato come conseguenze, essendoci ancora dentro, non saprei davvero definirlo. Mi piace però pensare che il lockdown abbia aperto un po' gli occhi a tutti, rispetto a quello che siamo, quello che facciamo, al ruolo della cultura in questo paese.

Eleonora Conti: Una ridiscussione proprio dei fondamenti. Noi insegniamo tutte e due a scuola e anche la scuola è stata messa proprio alla prova.

Eduardo Di Pietro: Non saprei immaginare neanche un posto più eloquente, poi ci sono state criticità sociali molto più significative. Però resta sempre lo specchio di una società.

Monica Berardi: Come avete trovato il pubblico nel vostro ritorno in scena. Avete notato dei cambiamenti nel modo di recepire lo spettacolo teatrale? Com'è stata questa ripresa del rapporto con il pubblico?

Martina Di Leva: Io mi permetto di dire che chi aveva voglia di andare teatro prima, c'è tornato volentieri.

Eduardo Di Pietro: Credo che le nostre risposte in questo senso siano molto disincantate, molto pessimiste. Chi voleva andarci ci è tornato, ma c'è anche stata una percentuale che, impaurita, non ci va più.

Martina Di Leva: Chi prima non ci veniva non ci viene neanche adesso, anzi.

Eduardo Di Pietro: In termini di relazione del pubblico con la scena, no, non rilevo nessuna particolare novità.

Martina Di Leva: Riporto una delle ultimissime produzioni che è il Talismano della felicità, in cui siamo in scena io e Cecilia, che abbiamo fatto per la decima edizione di Play with food, a ottobre a Torino. È uno spettacolo che in questo periodo mette molto alla prova il pubblico.

Eduardo Di Pietro: È una specie di follia. Un piccolo pregresso, rispondono a una call di questo festival per mettere in scena due monologhi vincitori di un loro contest...

Martina Di Leva: E quindi siccome entrambi parlavano di cibo e saremmo dovuti andare in scena in Play with food dove il cibo è protagonista, se non durante, sicuramente prima o dopo lo spettacolo, noi abbiamo deciso di osare, il cibo lo abbiamo messo durante lo spettacolo. Non solo ce lo abbiamo messo, ma abbiamo deciso di prepararlo noi, di cucinarlo in scena davanti al pubblico e di servirlo con le nostre mani e di farlo mangiare alle persone. E lo hanno fatto. Avevamo paura perché il tempo in cui viviamo è incerto.

Eduardo Di Pietro (ride): Ci sono stati tre contagiati.

Martina Di Leva: No, non è vero. Il pubblico si è fidato ed è stato contento di quell'esperienza. Perché abbiamo poi lavorato sul fatto che sia la cucina che il teatro sono esperienziali e, quindi, lo spettatore in quello spettacolo si immerge completamente. Diciamo che il pubblico che va a teatro è un pubblico coraggioso.

Eleonora Conti: Dicevate di essere in contatto con i Kepler-452, ci sono altre realtà che magari guardate intorno a voi? Prima ci dicevate di osservare tutto e di assorbire tutto, tutto ciò che è teatro e anche tutto ciò che non è teatro. Quindi, pensando al domani, al futuro, ci sono delle linee che voi immaginate come possibili, dense di promesse, linee possibili, delle tendenze verso cui va il teatro? Oppure tutto è frastagliato e ognuno in qualche modo si trova la sua strada?

Martina Di Leva: Sicuramente il teatro si sta traducendo, o meglio, tantissimi linguaggi vengono utilizzati nel teatro quindi sicuramente c'è un'eterogeneità.

Eduardo Di Pietro: C'è una costante contaminazione, ma questo già da tempo.

Martina Di Leva: Penso al lavoro che stiamo facendo con i ragazzi di InVisible Cities e Contaminazioni Digitali e grazie a loro abbiamo conosciuto altre realtà come i Kepler-452, che hanno deciso di indagare, per esempio, le opportunità performative della tecnologia. Gli Acquasum Arte, altro esempio, oltre alle cuffie usano i video e quindi il loro lavoro, sempre d'indagine, sempre sul territorio, porta lo spettatore a essere immerso nella loro performance attraverso non solo le cuffie, ma anche attraverso un IPad. C'è stato pochi mesi fa un incontro fra tutte le realtà che collaborano con InVisible Cities e usano dei dispositivi multimediali per la performance.

Eduardo Di Pietro: In questo senso, rimetto un attimo al centro il nostro lavoro che è l'esperienza di cui ho percezione diretta e posso dunque parlarne a ragion veduta, il lavoro multimediale è soltanto una porzione. Avete visto Il Colloquio, è tutt'altro, è probabilmente la linea principale del nostro lavoro. Nella relazione con, appunto, il materiale che si ha intorno, come svilupparlo e come trasporlo in scena, si è posto questo tipo di opportunità. Chiaro, oggi la tecnologia offre tantissime possibilità di indagine, di trasposizione artistica. Quindi, forse una tendenza in questo senso certamente la rilevo anche nelle compagnie più giovani. Anche in maniera unica di espressione, ma come possibilità di trasporre il reale all'interno dell'arte performativa in tante diverse maniere. Quello che un pochino mi preoccupa è quando questo è fine a sé stesso. Mi ricollego a quello che dicevo prima, quello che è fondamentale per noi è che il teatro sia popolare, cioè che il teatro possa parlare laddove abbiamo il problema del pubblico e del dirci, Quanta partecipazione c'è? Quanto interessiamo al pubblico? Quanto riusciamo a dialogare con lui? quanto riusciamo a coinvolgerlo? Quanto il teatro riesce a essere una forma d'arte che in qualche modo possa ancora rapportarsi allo spettatore? È fondamentale per noi che il teatro sia fruibile a vari livelli. Questa è una banalità grande, eppure, quando il teatro s'interroga costantemente in scena sul proprio medesimo linguaggio, questo, ecco, nel nostro piccolo può costituire un problema refrattario allo spettatore. Come tendenza in termini di preoccupazione rilevo anche questo, talvolta ci si focalizza sul proprio medesimo linguaggio e ci si parla addosso.

Martina Di Leva: Diciamo che bisogna sempre sapersi mettere in gioco.

Eduardo Di Pietro: Questa estate sono stato al Festival d'Avignone per la European Theatre Academy, iniziativa dell'European Theatre Convention, ente sovranazionale che raccoglie a livello europeo diversi soggetti, teatri e compagnie. Un tema che veniva fuori in modo più intenso nell'area centro europea, con una sensibilità maggiore a quella che rilevavo in Italia, è il problema della sostenibilità. Quanto il teatro debba rapportarsi, indagare, porsi il problema della sostenibilità in termini tematici, concettuali e in termini anche materiali e logistici. Quanto le compagnie debbano porsi il problema del fatto che viaggiare vada contro l'esigenza della sostenibilità. Quindi, il teatro di domani si rapporterà a questa tipologia di questioni. In realtà, però, in Italia non sembra ancora una tematica sentita.

Martina Di Leva: Anche le nuove direttive ministeriali ormai sono diventate un riferimento. Il ministero si è posto come uno dei punti a favore di premiare dei progetti a sostegno della sostenibilità ambientale. E sicuramente il nostro paese si deve interrogare su questo.

Eduardo Di Pietro: C'è anche da dire che è molto complicato.

Eleonora Conti: O devono ancora arrivare questi spettacoli, se è un tema che si sta elaborando adesso, a noi pubblico arriverà, ma al momento...

Martina Di Leva: Bisogna interrogarsi, provare a tradurre la ecosostenibilità nel tipo di vita che ognuno di noi conduce. È già difficile. Quindi, creare un lavoro ecosostenibile, che sia ecosostenibile e che non ne parli solo in scena, ma che vi ci sia arrivato in modo ecosostenibile. Perché altrimenti è contraddittorio. Non è facile, già solo rispettare questo proposito nella vita di ogni giorno.

Monica Berardi: Mi viene da pensare come questa tematica possa interessare molto i ragazzi della fascia di età che corrisponde a quelli degli ultimi anni delle superiori. In fondo, saranno loro il pubblico del prossimo domani.

Eleonora Conti: Per quanto riguarda i laboratori con i ragazzi?

Martina Di Leva: Ci sono sia spettacoli che - per determinate tematiche - sono destinati a loro, sia laboratoriali e progetti a lungo termite, sempre in base alle ore che ti concede l'istituto, la scuola.

Eduardo Di Pietro: Rispetto agli spettacoli può essere significativo il fatto che è sorta la necessità di proposte di spettacolo che siano flessibili. Penso che spostandosi verso il centro nord la situazione sensibilmente migliori, ma qui in Campania le scuole talvolta ti propongono di fare spettacoli in posti anche improbabili. E quindi per esempio le proposte riflettevano quelle che erano le condizioni generalmente o potenzialmente poste dalle scuole. Se dobbiamo relazionarci, fare uno spettacolo, ad esempio, in palestra, diventa mortificante e controproducente per il discorso del pubblico di domani, per gli spettatori. Questo è un problema che ci poniamo tanto, ma credo che sia un problema che chiunque faccia teatro si ritrovi a porre. Poi, Martina nello specifico è anche una formatrice, quindi ha una preparazione in questo senso.

Martina Di Leva: Sì, lavoro con i più piccoli. Per esempio, abbiamo concluso da poco un progetto sovvenzionato dalla campagna ministeriale EduCare. Abbiamo lavorato con i bambini di una scuola elementare e il tipo di lavoro che facciamo porta le emozioni come motore, la loro gestione, il loro riconoscimento, perché è un macrotema che ci ha sempre riguardato. Oggi, in un momento in cui c'è un concetto nuovo della socialità, attraverso i famosi social, tradurre le emozioni attraverso lo strumento - non solo per gli adolescenti, ma anche per i più piccoli - e il non avere più quel rapporto, quella relazione interpersonale, l'essere in grado di guardare negli occhi una persona e riuscire a fare capire che tipo di emozioni si stanno vivendo in quel momento, è un tema a me molto caro. Il tipo di lavoro che faccio e facciamo è di questo tipo. Poi trenta ore sono poche, i famosi "laboratori nelle scuole" ti permettono solo di aprire delle porticine...

Eduardo Di Pietro: Ma anche sempre e comunque di sollecitare la creatività dei partecipanti attraverso l'improvvisazione.

Martina Di Leva: Siccome ho una formazione in merito, sono un'improvvisatrice teatrale e quindi sono una formatrice nell'improvvisazione. L'improvvisazione significa tradurre il proprio io, ma anche saper stare con l'altro in scena, saperlo ascoltare, perché quando improvvisiamo non sappiamo la storia dove sta andando e accettare la proposta dell'altro è fondamentale. Questo dovrebbero farlo tutti, anche gli adulti.

 

[Intervista realizzata il 21 dicembre 2021]

 

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