Eleonora Conti
Intervista a Antimo Casertano

 

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Casertano

 

Vuoi presentarti brevemente? Raccontare la tua formazione, il tuo esordio, come sei arrivato al teatro…

Sono Antimo Casertano, ho trentasei anni, quasi trentasette e il peso dell'età inizia a sentirsi, anche se sono ovviamente "giovane": per il teatro sono neonato. Ricordo che un collega, Massimo De Matteo, vinse un premio, il premio ETI - che ora è "Le maschere" -, come miglior attore emergente: 45 anni. C'è ancora tempo per essere emergenti.
Per quanto riguarda la formazione, ho sempre fatto teatro amatoriale, mia madre ha sempre scritto poesie, poesiole, ha sempre fatto teatro amatoriale: io ho iniziato con lei facendo teatro in questa compagnia del Dopolavoro Ferroviario, perché mio padre prima ha lavorato nell'Italsider poi dopo, quando c'è stata la dismissione dell'Italsider, ed era ancora abbastanza giovane, è entrato nelle ferrovie. Avevo già fatto qualcosa, da piccolo partecipavo a tutti questi eventi nel villaggio dove andavo a villeggiare: facevo lo scugnizzo, ricordo che la prima cosa che ho fatto era una poesia di Viviani, La festa di Piedigrotta, io facevo lo scugnizzo e mi divertivo molto. Una sera andai a teatro, vidi questa commedia di mia madre e dissi: "Mamma lo voglio fare anch'io, voglio provare anche io". E così mia mamma rispose che ne avrebbe parlato con Ernesto Mignano.
Ernesto Mignano era il regista che all'epoca gestiva la compagnia, e quindi interpretai un piccolo ruolo. Questo piccolo ruolo mi portò a essere visto da un altro regista amatoriale che disse: "Ti vedo in gamba, ti vedo spigliato. Io devo fare i Menecmi di Plauto in versione napoletana. Avevo pensato che Spazzola potrebbe essere Pulcinella. Che cosa ne pensi di fare Pulcinella?".
Io ero giovanissimo, 18 anni, spensierato, senza nessun grillo per la testa, nessun problema, accettai subito e mi buttai in questa avventura. Questa commedia andò bene. Fu molto divertente e decisi di scrivere un testo, una commedia mia, a 19-20 anni, che si chiamava Il mio amico Angelo. Molto legata alla farsa napoletana, molto scarpettiana. Un ragazzo che cade da un'impalcatura, si risveglia e si ritrova al suo fianco un angelo, come fosse un angelo custode. Quest'angelo gli dice: "Ma che hai combinato? Che cosa hai fatto?". In realtà non è il suo angelo custode, è tutto un sogno che fa questo ragazzo: l'angelo non è altro che il medico Angelo D'Amico che lo ha salvato dal coma. Questa commedia andò molto bene e vinsi un premio. Un premio amatoriale nell'ambito della rassegna del Premio Miseno. Nel frattempo mi ero iscritto all'università - Archeologia e Storia dell'arte, avevo già dato 12 esami - però decisi di tentare il provino all'Accademia del teatro Bellini di Napoli. Venendo da una famiglia di operai, non ero a conoscenza di altre Accademie: non sapevo che esistesse la "Silvio D'Amico", o che ce ne fossero altre a Genova, a Torino... E quindi tentai nella prima che mi venne e fu il Bellini di Napoli che era allora diretta da Alvaro Piccardi e di cui Tato Russo era ancora direttore artistico. Mi presentai, feci il provino e mi andò bene: fui preso nel 2008, e mi sono diplomato nel 2010. Poi dal 2010 il Bellini ha subito il cambiamento, Tato è andato via e sono subentrati i figli Daniele e Gabriele Russo, e quindi ci fu una specie di scissione all'interno del teatro: un gruppo dell'Accademia iniziò a lavorare con uno spettacolo di Gabriele Russo; con un altro gruppo dell'Accademia iniziammo a fare le matinées, spettacoli per le scuole. Dal 2010 ho iniziato il mio vero percorso professionale.
Da lì, piano piano, ho iniziato a lavorare un po' con chi capitava. All'inizio abbiamo creato una piccola compagnia all'interno dell'Accademia in cui mettevamo in scena le cose nostre, e poi da lì qualcuno ti vede, poi fai il provino, vieni preso qua, vieni preso là, e quindi piano piano ho iniziato la mia esperienza. Ho lavorato con Luciano Melchionna in Dignità Autonome di Prostituzione, ho fatto due spettacoli con la regia di Alessandro Gassmann, Qualcuno volò sul nido del cuculo e Fronte del porto.

È recente questo con Gassmann, giusto?

Sì, ultimamente abbiamo recuperato, post-pandemia. A novembre e dicembre 2021 abbiamo recuperato una trentina di date che erano saltate a marzo 2019.
Piccola divagazione: quando è uscito il primo Dpcm, che chiudeva i teatri e tutti i luoghi di cultura, noi eravamo al Teatro la Pergola di Firenze con Fronte del porto, eravamo alla seconda replica, poi siamo rientrati a casa.
Poi ho fatto piccole cose al cinema, una piccola parte in Gomorra, nella quinta stagione, una piccola cosa ma è stata una bellissima esperienza. Ultima cosa: ho lavorato con Mercatante, con lo Stabile di Napoli, ho fatto Hospes-itis diretto da Davide Iodice.
Oltre a queste grandi produzioni ufficiali, che - detto in maniera forse un po' volgare - sono quelle che ti fanno campare, permettono all'attore di vivere, ho sempre seguito il mio percorso parallelo e personale, un lavoro di scrittura e di regia. Io lo definisco più un percorso di ricerca della mia voce personale. Sono ancora in fase di definizione. Uno cerca di scoprirsi e di scoprire pian piano parti di sé e parti di tutto. È come un grande contenitore, dove metti dentro tutto quello che ti serve. Poi vai a vedere quello che c'è: qualcosa lo tiri via, qualcosa lo indossi, qualcosa ti va stretto, qualcosa ti calza a pennello. E poi, alla fine, avrai un abito che sarà quello che è il tuo.
E quindi ho sempre fatto il mio percorso abbinato alla scrittura.

Questo ti caratterizza fin da giovanissimo. Dicevi che già a diciannove anni scrivevi.

All'inizio non avevo una vera coscienza, ho sempre avuto un po' di paura a scrivere; avevo sempre un blocco dettato dalla paura del giudizio. Secondo me scrivere è una cosa molto molto difficile, non è mai semplice. Non è mai stata una cosa costante. Più che scrivere testi inediti, mi sono dedicato a un certo punto alle riscritture. Il primo lavoro ufficiale, proprio mio - oltre a quello della commedia che mi permise di vincere il premio - è una riscrittura de L'udienza di Václav Havel. Drammaturgo cecoslovacco, che poi è diventato presidente della Repubblica Ceca e che ha fatto entrare la Repubblica Ceca nell'Unione Europea. Lessi questo testo, molto interessante, che parla del compromesso: è la storia di un drammaturgo - lui stesso - che, siccome è dissidente politico, è costretto a lavorare in un birrificio come scaricatore di barili. Viene convocato dal capo che gli chiede - con un dialogo che è molto paradossale e ripetitivo - di scrivere qualcosa su se stesso. Gli dice: "Visto che qui vengono e mi chiedono di te e ho il partito addosso che mi chiede chi sei, ho bisogno che tu mi scrivi qualcosa su di te. So che sei un drammaturgo, so che scrivi e quindi io lo chiedo a te". Il drammaturgo prima accetta dei compromessi: il capo gli offre di spostarlo dal posto di lavoro, di non fargli più trasportare barili, di metterlo nel magazzino, poi accetta l'invito a cena, e tante piccole cose. Ma poi, quando il capo lo mette di fronte a questa realtà: "guarda devi scrivere questa cosa su di te", lui risponde "No, io non faccio il delatore di me stesso".
L'ho portato in Italia, ho cercato di renderlo italiano, ma il testo è puramente cecoslovacco, si sente che ha poco a che fare con l'Italia. Anche perché in Italia non c'è proprio lo stesso regime che c'era lì. Però sentivo che c'era qualcosa di molto attuale: il dover accettare il compromesso per poter fare delle cose.

Mi sembra anche un filo conduttore delle cose che fai: ti interessa molto la riflessione o la riscrittura a partire dalla realtà.

Ultimamente ho capito, in effetti, la mia vocazione, forse anche grazie al premio che mi hanno dato per lo spettacolo che ho scritto: Mare di ruggine. In realtà è una storia famigliare: parte dal mio bisnonno e arriva a mio padre, arriva a me; e nello spettacolo diventa tutta una favola. È come se io stessi raccontando a mio figlio la favola dell'Italsider, la favola di questo mostro che non sapeva di essere mostro e la favola di eroi che non sapevano di essere eroi: "Questi eroi erano i tuoi familiari. Questo mostro è il mostro dell'Italsider: partiamo".
E quindi è come se il protagonista recitasse al figlio tutti i personaggi. Parte dal mio bisnonno che ha lavorato nell'Italsider, poi arriva a mio nonno, a mia nonna, a mio padre e infine a me. Il protagonista parla al figlio e dice: "Guarda, io ti ho raccontato questa storia. Sono passati trent'anni da quando l'Italsider ha chiuso. Quel mostro è ancora lì fuori dalla finestra. E fuori dalla finestra restano tonnellate di idrocarburi, amianto a cielo aperto, un mare contaminato e resta un mare di ruggine".
Quindi ho capito, scrivendo questo testo, che il mio daemon, la mia vocazione, è quello del teatro civile. Magari sono pure pesante, lo so, ma sono molto legato alla giustizia morale. Se non c'è giustizia in quello che c'è intorno a me mi blocco, non riesco ad andare avanti. È come se la mia mente si bloccasse. E quindi ho capito che quello è il mio indirizzo, quella è la mia vera volontà: il voler raccontare e accendere una piccola luce, magari su qualcosa di dimenticato. Per me il teatro ha questa volontà qui: deve parlare di oggi, ma anche attraverso il passato. Una cosa bellissima che dice Valerio Binasco: l'attore drammaturgo è come un arciere che tende il suo arco e quindi la sua freccia va verso il passato, ma è pronta per essere lanciata verso il futuro. Quindi se non si parte dal passato non potrai mai andare verso il futuro. Questa metafora, che utilizzò in una conferenza a cui partecipai a Torino - perché secondo me Binasco è uno dei pochi maestri rimasti in Italia -, quest'immagine mi colpì subito. Quindi è questa la mia volontà, sono temi civili, voler raccontare le ingiustizie, cercare di fare luce dove la luce non c'è, dove tutto viene sepolto.

A proposito di storie sepolte, parliamo de Il Bambino con la bicicletta rossa (Voci da un rapimento), scritto da Giovanni Meola e interpretato da te come unico attore in scena. Infatti, io ti ho conosciuto interpretando quello spettacolo che era già potente in video, quando lo abbiamo selezionato col mio gruppo nell'ambito del progetto L'Italia dei Visionari. Poi, quando ha vinto la selezione generale e abbiamo potuto vederlo dal vivo, nel maggio 2021, nell'ambito di POLIS Teatro Festival di Ravenna, ha mostrato con forza - anche a coloro che non lo avevano votato - la potenza, oltre che del testo, della tua interpretazione, la tua capacità di dare vita a quella storia. Partendo da una storia dimenticata - io non la conoscevo -, lo spettacolo mi ha fatto capire tante cose, mi ha veramente illuminato.

Ovviamente anche io non ne ero a conoscenza: io sono dell'85, nel '79 non ero neanche in progetto. Questa storia mi è venuta un giorno per caso. Ero a casa a Bagnoli, non qui dove adesso vivo con la mia compagna e con mio figlio. Stavo vedendo una serie, Delitti, su History Channel, perché poi sono uno innamorato della storia. (Da piccolo per esempio ero innamorato di Napoleone Bonaparte poi ovviamente crescendo ti rendi conto di chi era veramente Napoleone, però da piccolo ne ero affascinato). Ero lì seduto sul divano, parte questa serie e parla di questo bimbo, Ermanno Lavorini e piano piano vien fuori tutto il caso. Rimasi subito folgorato dalla storia e ne parlai con Giovanni Meola, perché anche lui è sempre stato un autore, un regista, che si è sempre dedicato a questa tematica, al teatro d'impegno civile. E quindi chiesi a lui, dato che avevo paura a scriverne io, non avevo proprio idea di come iniziare. In realtà iniziai una grande ricerca in emeroteca, presi tutti i giornali, iniziai a leggere… trovai due libri, tra cui L'infanzia delle stragi di Roberto Bernabò, e quindi lessi tantissimo di questo, ma non avevo il coraggio di scrivere.
Ne parlai con Giovanni, che mi rispose: "Ma chi è 'sto Ermanno Lavorini, io non lo conosco".
E quindi gli dissi: "Giova' leggi, ti do questa roba che ho letto io: leggine anche tu".
Lui la lesse. Giovanni è uno che legge in maniera vorace, fagocita qualsiasi cosa. Lesse e dopo un po' mi disse: "Antimo, ma è una roba interessantissima. Dammi un po' di tempo, perché sono molto impegnato, voglio capire che cosa ne può uscire".
Passano sei mesi, sette mesi. Giovanni scomparso. "Giova' che si fa? Si fa più niente?".
E lui: "Antimo ho bisogno di tempo, perché la storia qua va studiata bene".
"Va bene, va bene. Prenditi tutto il tempo che vuoi".
Arriviamo al 2018 e Giovanni dice: "Io sto iniziando a scrivere e mi è venuta in mente questa cosa: visto che tu sei un attore molto versatile, sei uno che riesce a passare tranquillamente dal comico al drammatico in maniera brillante (questo perché io gli avevo chiesto un monologo, volevo raccontare io questa storia), ho pensato che forse puoi fare tu tutti i personaggi, e quindi ho cominciato ad abbozzare dei personaggi. Sono nove. Tu te la senti?".
"Sì sì, Giovanni, io me la sento, non ti preoccupare".
Quindi ci prendemmo un altro po' di tempo, perché eravamo a metà del 2018, e, dato che nel 2019 cadevano i cinquant'anni dalla morte di Ermanno Lavorini, gli proposi di aspettare e debuttare nel 2019. Quando finì di scrivere, Giovanni mi presentò un testo che all'inizio era di 35 pagine e tutto in rima. Io all'inizio l'ho accorciato, pensando: "Noi qua la gente l'ammazziamo!".
Mi disse: "non ti preoccupare, fidati di me: andrà benissimo".
"Giova', ma 'o test si deve tagliare perché di 33 pagine dura 14 ore".
"Non ti preoccupare, questo è un lavoro che faremo, è un'altra scrittura: faremo scrittura scenica".
Iniziamo a provare e quindi fissiamo un debutto. Giovanni prende accordo con un teatrino nostro che c'è a Napoli. Perché Napoli è una città vivissima culturalmente, è una città che vive di teatro, ma non perché i napoletani sono attori, però è una città molto teatrale ed è piena di teatrini che permettono di sperimentare. Quindi fissiamo queste date dal 25 al 29 aprile 2019. Iniziamo a provare e Giovanni mi dice: "Io vorrei cominciare a lavorare non partendo dal testo. Tu il testo lo hai letto, vorrei però che partissimo dal tuo corpo, che fosse il corpo a parlare e non la voce, e non le parole. Io metto della musica. Partiamo da un personaggio, partiamo dal bambino. Tu lasciati guidare dalla musica, tu sai cosa dice il testo, sai cosa vuole dire questo bambino, fatti portare dalla musica e inizia a trasportarlo nel corpo, come se fosse una partitura. E poi, piano piano, quello che ti chiedo è, se tu trovi un gesto e credi che quel gesto sia significativo per questo personaggio, di portarlo all'esasperazione".
Fra tante improvvisazioni per esempio uscì il gesto di toccarsi la gamba, e poi diventò sempre di più una rapsodia. E quindi fissammo dei gesti per ogni personaggio. E una volta fissati, su questi gesti lui mi diceva: "Adesso proviamo a mettere la voce, però non partire dal testo: parlami in maniera naturale". E quindi ogni personaggio ha trovato dei gesti significativi, delle partiture significative, poi una vocalità. A quel punto abbiamo iniziato a metterci il testo.
Il percorso così si è chiuso nello spettacolo che è quello che avete visto e che ha avuto un discreto successo. Purtroppo io credevo che andasse meglio, ci credevo tanto in questo lavoro. Credevo che avesse un riscontro più ampio. Anche perché, lo dico veramente senza alcuna presunzione, secondo me è valido il lavoro che abbiamo fatto io e Giovanni: passami il termine, già basta il culo che mi faccio io in scena e il culo che si è fatto Giovanni per scriverlo!

Si vede! Intanto è un testo che mostra una sintonia pazzesca tra te, il testo e Giovanni. Si vede che è venuto fuori da una sinergia molto forte e poi la complessità e la ricchezza del testo, dei gesti delle voci, della presenza scenica. Sono contenta che tu mi abbia spiegato la genesi del testo e di questa messa in scena.

Questa esperienza con Giovani, secondo me, è stata fondamentale per il mio percorso, sempre riferendomi a quel contenitore dove uno mette dentro e poi… Questa esperienza mi ha portato a capire che il corpo è fondamentale. E quindi poi nel mio spettacolo successivo, Gemito, io sono partito dal corpo. Ho ripetuto quell'esperienza. Se lo vedrete, se ci sarà l'opportunità e vi auguro di vederlo, avendo visto Il bambino con la bicicletta rossa capirete da dove vengono quelle partiture fisiche, che ovviamente poi sono tutt'altra roba, vedrete che quel lavoro fisico è andato avanti; e questa è una cosa che ho chiesto anche agli altri attori che erano in compagnia con me. Gli attori sono: Daniela Ioia, che è la mia compagna di scena e di vita ed è la mamma del mio piccolo, Jacopo; Luigi Credendino, che interpreta un amico di Vincenzo Gemito; Ciro Zangaro, che interpreta un fantasma che in realtà è il demone che ossessiona Vincenzo Gemito. Il demone che un po' abbiamo tutti dentro. Questo è quello che penso, tutti noi abbiamo dei demoni che all'improvviso saltano fuori e ci ossessionano. Una delle mie insegnanti in Accademia, Rosa Mascopinto, diceva che è come se avessimo un gremlin sulla spalla che ogni tanto ci dice: "Che cazzo stai facendo?", "Cazzo stai attento!", "Sei una merda! Sei una merda!", "Stai sbagliando tutto". Però in realtà lo spettacolo parte dalla volontà, sì, di narrare - perché è anche un po' di narrazione: narra la vita di Vincenzo Gemito come artista -, però la vera volontà è quella di prendere Vincenzo Gemito come esempio di tutti gli artisti e parlare del blocco dell'artista, della paura del fallimento. Lo spettacolo gira attorno a questo.
Anche questo testo nasce da una ricerca di anni, anni e anni. Io mi innamoro di Vincenzo Gemito da giovanissimo. Inizio a fare una ricerca e riesco a recuperare un suo diario privato, che lui ha scritto perché è stato rinchiuso in un manicomio (quelli che all'epoca erano i nosocomi). Viene recluso perché era uno scultore ma lavorava la creta, lavorava con le mani, non ha mai amato il marmo. Gli viene commissionata un'opera, il Carlo V, ossia uno sei-sette re esposti sulla facciata esterna del Palazzo Reale di Napoli. Lui impazzisce perché non ha mai lavorato il marmo e perché in realtà era un autodidatta e di storia non conosceva nulla. Era un verista, prendeva i ragazzi, gli scugnizzi dalla strada e li usava come modelli e poi li tramutava in creta, in opere d'arte. Quando gli viene commissionata quest'opera, di Carlo V non sa nulla, è ignorante; va allora in Francia da Charles Meissonier, artista francese che era innamorato di Vincenzo Gemito. Si fa aiutare da lui nella ricerca, per capire chi era questo Carlo V, ma ne resta traumatizzato. Torna a Napoli con un bozzetto e affida la sua traduzione in marmo - che poi nella parola 'traduzione' c'è anche già il tradimento: tradurre è tradire - ad Antonio Pennino, che è lo sbozzatore in termine artistico e fratello del governatore. Quindi lui traduce quest'opera in marmo, la espongono, Gemito la va a vedere e ne esce pazzo: le proporzioni sono tutte sbagliate. Il dito che voleva più alto di tre o quattro centimetri per indicare l'infinito, invece punta a terra, ad esempio… e insomma ne esce pazzo. Passa davanti a Palazzo Reale, prende delle pietre e inizia a lanciarle verso la statua, vorrebbe che fosse rimossa dalla facciata, due carabinieri gli si fanno incontro e cercano di fermarlo, lui aggredisce i carabinieri e quindi questo gesto nel 1888 viene considerato come pura follia e viene internato nel manicomio. Poi c'è un'altra cosa fantastica: lui esce dal manicomio e si chiude in casa, si fa un lockdown di vent'anni. Cioè per vent'anni non esce più di casa.

Quanto è stato nel manicomio?

Sei-sette mesi

Poco, in fondo, rispetto alla sua autoreclusione.

Poi c'è questa cosa romanzata, non si sa se è realtà o leggenda, che si dice sia scappato dal manicomio. Però, in realtà, leggendo sul suo diario (scritto durante il periodo di reclusione tra casa e manicomio) in una frase annota: "Uscita dal manicomio 1987". Quindi è uscito dal manicomio, non è scappato. È rimasto vent'anni chiuso in casa e in questi vent'anni c'è il buio, l'oblio. Prendendo spunto da questa sua vicenda io ho messo in scena i miei demoni. È poi la dicotomia tra arte e mercato dell'arte. Vincenzo Gemito era un artista che se non sentiva di fare una cosa, non la faceva; e il commercio dell'arte per lui è sempre stato un limite. Un limite sotto tanti punti di vista: un limite personale, ma anche un limite per la propria possibilità di espansione, di farsi conoscere ancora di più.
Lui chiuso in casa, poi, vede il tradimento ovunque: vede il tradimento della moglie, che era una modella e quindi ha posato per altri artisti; crede che l'amico lo viene a trovare a casa perché vuole inciuciare su di lui, vuole portar fuori tutta la sua vicenda; e poi appare Carlo V costantemente, che è il suo demone e il suo fallimento. C'è uno scontro verbale con la moglie in cui lei dice: "Accetta che anche tu sei un essere umano. E come tutti gli artisti puoi sbagliare e puoi essere mediocre. Perché l'essere umano è fallace e mediocre. Anche se tu sei un genio, puoi sbagliare".
E poi c'è un'immagine molto significativa: lui in scena ha solo un blocco di marmo e questo blocco di marmo diventa tutto, diventa letto, diventa tavolo, diventa balcone da cui vuole lanciarsi per suicidarsi. Carlo V poi entra sul finale e gli butta addosso questo blocco e lui percorre questa Via Crucis con il blocco di marmo. Cade tre volte come Cristo. Si fa questa passione.

Un focus di queste nostre interviste era proprio capire attraverso di voi, che siete i giovani sulla scena, come è stato vissuto il ritorno al palcoscenico dopo il periodo di chiusura dei teatri? Avete presentato lavori già approntati in precedenza o avete sentito il bisogno di rivedere o rielaborare testi/lavori che tenessero conto di quanto accaduto con la pandemia?

Io ho questa idea: la pandemia, a livello personale, ci ha peggiorato, non ci ha migliorato. C'è chi ci sperava all'inizio e diceva: "Ci migliorerà, poi ci abbracceremo". No, per niente. In realtà io vedo molta più cattiveria nell'ambito teatrale, molta più frustrazione e insoddisfazione da parte di tutti. Questo da una parte ovviamente lo capisco perché il lavoro è sempre di meno: c'è sempre meno possibilità di lavoro, lavoro non solo in senso economico, lavoro di ricerca. Perché - divago di nuovo - il mio sogno più grande non è di diventare famoso, non mi interessa nulla la notorietà, l'affermazione, il mio sogno più grande è avere uno spazio, una bottega come un artigiano vero, una possibilità di mettermi lì e creare quotidianamente, sperimentare e fallire quotidianamente, ma con la possibilità di fallire serenamente. Fin quando non ci sarà uno Stato, un'istituzione o qualcuno che dia significato all'arte e al processo creativo, non andremo mai da nessuna parte. Negli altri paesi come la Germania, la Francia o l'Olanda, un ragazzo, un giovane, un neo-padre come me che ha un'esperienza alle spalle, se va a parlare con un'istituzione, viene accolto, viene ascoltato. Se dice: "Io ho bisogno di uno spazio creativo, posso avere in gestione questo spazio?". Molto probabilmente o gli dicono di no, e allora tenta altrove, o gli dicono: "Certo. Mettiti qua, prendilo in gestione e usalo". Questo in Italia manca. Manca anche quella che i francesi chiamano 'intermittence': la possibilità di un'entrata se un lavoratore, un mestierante, ha bisogno di fermarsi un mese, due mesi. Perché il lavoro che io faccio non è per mia scelta intermittente, è così: non è che tutti i mesi c'è la produzione. Per chi è scritturato per sei-sette mesi il lavoro è quasi da impiegato: ogni sera marca il cartellino, va in scena e deve trovare le energie per ripetere quella roba. Io, se ho bisogno di fermarmi due mesi perché ho bisogno di studiare, ricercare (fare una ricerca su Vincenzo Gemito mi è costato sei mesi, io in quei sei mesi ho bisogno di vivere), tu mi devi dare la possibilità di vivere. Questo dopo la pandemia manca ancora di più. Quando per esempio durante la pandemia si sono fatte le battaglie e i gruppi su Facebook, nessuno si è poi posto il problema delle piccole realtà, di quelle che soffrono di più. Manca la possibilità di essere riconosciuti come "intermittenti" perché non lo scegliamo noi, la possibilità di un dialogo vero con le istituzioni. Poi, certo: chi definisce chi ne ha diritto e chi no? Ci sono dei contributi: se tu hai lavorato 74 giorni all'anno, ti viene riconosciuto un minimo d'intermittenza con cui tu puoi vivere dignitosamente del tuo mestiere, quindi fare la tua ricerca.
Per quanto riguarda poi gli spettacoli pre-pandemia e post-pandemia, io penso che non sia cambiato nulla. Perché il mercato non è gestito dal pubblico. Non è che il pubblico ha una grande facoltà di scelta, perché il mercato lo fanno i grandi teatri. Lo fanno quelli che hanno soldi, che vengono sovvenzionati, e sono loro a scegliere il nome in vista perché vende di più e non hanno il coraggio di osare. Il mercato è saturo; e sarà e continuerà ad essere saturo finché non cambierà il sistema teatrale. Perché il sistema teatrale italiano è vecchio: siamo gli unici in Europa a continuare a fare roba da cassetta a teatro. Che poi il pubblico molto spesso si scoccia: non ci va. Io devo andare a vedere un polpettone di tre ore solo perché c'è il nome, e poi quel nome in scena bofonchia. Ma non lo dico perché voglio tirare acqua al mio mulino, però sai, poi vai nei piccoli spazi, dove la gente che li gestisce investe soldi propri, che non vengono finanziati, e lì vedi il teatro.
C'è una grande distinzione fra teatro, spettacolo e intrattenimento. Il teatro è quello che si fa quasi 'uno a uno', dove c'è la possibilità di scambio, dove c'è la catarsi, ti porti a casa della roba. Oggi non esiste più la catarsi a teatro, parliamoci chiaro: io vado a vedere lo spettacolo a teatro grande, vedo l'attore grande e bravo ecc., ma la catarsi vera io poi ce l'ho in un luogo piccolo, dove ho la possibilità di rivedermi in quello che mi si sta proponendo. Se potessi scegliere, darei più possibilità alle piccole realtà, più sovvenzioni, mentre in realtà adesso si pensa addirittura di chiuderle. Sotto i cento posti, oggi, i sovvenzionamenti non arriveranno più. Questo è mortale, è il capitalismo: chi è più ricco diventerà sempre più ricco, chi è sempre più povero morirà povero.
Poi, appunto, ammazzi la sperimentazione, ammazzi la libertà. Perché se diventa una cosa già confezionata, "da cassetta"…
Io penso che i grandi attori - come Glauco Mauri ad esempio - prima di diventare grandi attori, erano piccoli. Se tu non passi dal piccolo, come fai diventare grande subito? Se tu mi ammazzi il piccolo, non diventerà mai grande. E quindi per questo dico che secondo me c'è bisogno di dare più possibilità ai piccoli. C'è bisogno di dare possibilità alle piccole realtà, di non fare due giorni di repliche e basta, perché spesso alle realtà come la mia - come la mia compagnia (Teatro Insania), che mi sono messo su da solo, che non prende sovvenzioni e Gemito l'ho prodotto con i miei soldi - se dai la possibilità di fare solo due giorni, il sabato e la domenica, come prima cosa non rientro con le spese che ho sostenuto e come seconda cosa lo spettacolo non cresce, perché, e chi fa questo mestiere lo sa benissimo, lo spettacolo ha bisogno di un tempo per maturare, ha bisogno delle repliche che tu fai ogni sera con l'interazione - fondamentale - con il pubblico, che ti dice cosa funziona e cosa no. Se io faccio due repliche e poi ancora una recita, magari dopo quattro mesi, lo spettacolo non crescerà mai, non avrà mai la possibilità di maturare.

Lo spettacolo lo va a cercare soltanto chi sa cosa andare a cercare. Si corre a vedere quell'unica data, magari spostandosi. Però non arriva a un pubblico più grande, rimane visto da chi già apprezza quella realtà o quel tipo di spettacolo, non amplia il pubblico.

Questo non fa altro che alimentare un grande processo di ignoranza. Non come stupidità, ma come ignoranza conoscitiva: la gente non saprà mai che ci sei, la gente pensa che ci siano Favino, Alessio Boni… perché va a cercare persone che già ha visto: le ha viste alla tv, le ha viste al cinema. Infatti quello che spesso ci ripetiamo tra noi ragazzi giovani è: "Vabbè, dobbiamo fa' 'na serie". Se ci va di culo diventiamo protagonisti di una serie, poi magari un giorno… Dopo il teatro lo rilanci tra i ragazzi che sono abituati a un'altra forma.

Per esempio portare gli studenti a teatro è un'impresa, perché c'è chi non c'è mai andato: hanno diciassette-diciotto anni e non hanno mai messo piede in un teatro. È sconvolgente.

Un'altra cosa, che secondo me è fondamentale, e che in questo Paese manca, è come sia possibile che a scuola non ci sia la materia drama. Perché c'è educazione fisica e non c'è dramma? Che può essere qualsiasi cosa, può essere teatro, può essere cinema, può essere danza. La cosa che ti fa scoprire te stesso è avere a che fare con gli altri.

Lì ti devi fidare del professore, che se ha quella passione o quella conoscenza la trasmette e lotta per avere magari qualcuno che venga a fare i laboratori di cinema o di teatro, lo inserisce nella sua programmazione, fa vedere ai ragazzi teatro, magari soltanto in video.

Oggi è diventato tutto commercio. Oggi è tutto Amazon, devi vendere e tutto arriva subito. Questa cosa dell'immediato (ti siedi sul divano e subito vedi una serie) ci sta portando a non andare più a teatro, a non avere voglia di metterci là seduti tre ore per uno che suda. Ti scocci. "Ah, ma a me arriva Amazon a casa: io lo vedo a casa", "No, ma io non ci voglio andare".
Quindi secondo me la pandemia ha peggiorato tutto. Io lo vedo, sto andando a teatro, e anche se in difficoltà la gente ha voglia di andare a teatro.

Ti rivolgo un'ultima domanda: ora che si è rimessa in moto la macchina teatrale, quali nuove tendenze degne di nota / scenari riconoscibili o particolari, secondo te possono funzionare? Ti sembra che ci siano delle tendenze buone per il teatro del futuro?

Oggi il teatro sta andando un po' nella direzione dell'ipercontemporaneo. Per ipercontemporaneo intendo che quasi non si dà più retta all'attore. Invece, io credo che il teatro sia il luogo dell'attore, mentre il cinema il luogo del regista. Cioè, che cosa intendo: ultimamente i testi di drammaturgia contemporanea che sto leggendo mi danno l'idea che chi scrive non sia mai stato un attore, non sia dalla parte degli attori. A volte - ma è un parere personale - è come se chi scrive lo facesse per esercizio di stile, per mostrare che scrive bene. "Guarda che bella parola che ho usato. Ho usato 'anemone': è una bella parola".
Va bene, ma questa roba poi gli attori se la devono mettere in bocca, la devono dire, la devono trasmettere. Testi che vincono premi per la drammaturgia, ma poi li leggi e ti chiedi: "Ma come la metto in scena?". L'attore dove va a finire?
Oppure sta diventando ancora di più teatro di regia, un po' è sempre stato così; pur non essendo "tradizionalista" a me piace molto il teatro di regia, il teatro di parola, il teatro contemporaneo non stantio, non vecchio. Oggi sarebbe assurdo fare Amleto ancora con la parrucca bionda oppure per me sarebbe assurdo mettere di nuovo in scena Scarpetta. Però sto nel mezzo, per me la tradizione ha un ruolo. Tu non puoi andare avanti se ti dimentichi del passato. E poi io sono per l'attore: un testo, una regia, non può precludere dall'attore interprete e drammaturgo. Per me l'attore deve scrivere in scena e il regista si deve affidare, gli deve dire di andare da A a B, ma come andare da A a B è l'attore che deve decidere, se no un attore vale l'altro. Il lavoro principale dell'attore mi sembra che stia venendo meno. Una volta - ne parlavo con un collega, Orlando Cinque - si andava a teatro per vedere gli attori bravi, oggi vai a teatro per vedere il testo, per vedere la regia, per vedere l'attore-che-ha-fatto-il-film-con, e molto spesso è circondato da attori "cani". Non so se per furberia del primo attore che sceglie così, per risaltare. Prima il regista era bravo se riusciva a non farsi vedere, oggi pure i registi vogliono farsi vedere, per edonismo - vedi ho usato una bella parola anche io. Ovviamente questo non è tutto un male, c'è una via di mezzo dove il regista interviene in maniera sapiente e anche se si fa vedere sa quello che sta facendo.

Ti chiedevo all'inizio quali maestri/modelli ti hanno ispirato.

Io amo Marco Paolini. È un attore che scrive e dopo tanti anni è arrivato addirittura a fare un programma in tv. Io sono per quella forma di teatro lì. Questo non vuol dire che teatro deve essere per forza solo un monologo, ma devi riuscire a trasmettere qualcosa, non è solo raccontare una vicenda personale, altrimenti è letteratura, non è teatro.

Grazie, Antimo, di questa conversazione. Ci hai dato la tua indicazione su come fare risorgere il teatro, su quali sono i suoi punti di forza: stare attenti al lavoro dell'attore, stare attenti alla tipicità del lavoro dell'attore che non è stare sempre in scena, ma anche studiare, avere l''intermittenza', come si diceva prima.

Sì, dal danzatore al macchinista, a chi mette i microfoni ogni sera o a chi mette la musica nel momento giusto, al direttore di scena che controlla l'attrezzeria ogni sera. Sono saperi che vanno studiati e non si possono tramandare da un giorno all'altro.

 

[Intervista rilasciata il 13 febbraio 2022]

 

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