Silvia Zangrandi
Storie naturali e il futuro futuribile di Primo Levi

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII
Storie naturali e il fantastico
La memoria
Storie fantascientifiche
Lo scienziato pazzo
L'ibrido
La creazione
La censura
La lingua


 

§ II. La memoria

I. Storie naturali e il fantastico

La lettura di Storie naturali1 di Primo Levi, a quarant'anni dalla pubblicazione, richiama l'attenzione su tematiche di forte attualità, preconizzate con geniale intuito da uno dei protagonisti della scena letteraria del dopoguerra. Si tratta, secondo le dichiarazioni dello stesso autore scritte per le note di copertina al volume, di

«quindici "divertimenti" che [...] ci invitano a trasferirci in un futuro sempre più sospinto dalla molla frenetica del progresso tecnologico, e quindi teatro di esperimenti inquietanti o utopistici, in cui agiscono macchine straordinarie e imprevedibili. Eppure non è sufficiente classificare queste pagine sotto l'etichetta della fantascienza. Vi si possono trovare satira e poesia, nostalgia del passato e anticipazione dell'avvenire, epica e realtà quotidiana, impostazione scientifica e attrazione dell'assurdo, amore dell'ordine naturale e gusto di sovvertirlo con giochi combinatori, umanesimo ed educata malvagità».

La raccolta, alla sua pubblicazione, destò non poca attenzione. Molti si domandarono quale nesso ci fosse tra le prime due opere autobiografiche, Se questo è un uomo e La tregua, «resoconti» dell'inferno dei campi di sterminio nazisti, e questa raccolta di racconti; più volte sollecitato a rispondere a tale domanda, Primo Levi così si espresse: «esiste un legame intimo tra l'opera precedente e questo mio ultimo libro. In entrambe vi è l'uomo ridotto a schiavitù da una cosa: la "cosa nazista", e la "cosa cosa", cioè la macchina. Sempre il sonno della ragione genera mostri».2 Levi informa che senza l'esperienza del lager forse non avrebbe avuto la vocazione di scrivere; nell'Appendice del 1976 a Se questo è un uomo ci fornisce una chiara indicazione: «se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere [...] è stata l'esperienza del lager a costringermi a scrivere; non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli». A Edoardo Fadini, che gli chiedeva se esistesse un legame tra l'uomo del lager e queste Storie naturali, risponde:

«io sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti sui centauri) e mi pare che l'ambiguità della fantascienza rispecchi il mio destino attuale. Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico. Un'altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti [...] Stando così le cose, mi pare, è naturale che uno scriva di fantascienza. Queste Storie naturali sono inoltre le proposte della scienza e della tecnica viste dall'altra metà di me stesso in cui mi capita di vivere».3

In un'altra occasione precisa:

«alcuni importanti avvenimenti della Storia mi hanno coinvolto, mi hanno reso testimone di fatti che non potevo tenere per me, mi hanno imposto di scrivere. Quando questa mia funzione si è esaurita mi sono accorto di non poter insistere sul registro autobiografico, e insieme di essere stato troppo "segnato" per poter scivolare nella fantascienza ortodossa: mi è sembrato allora che un certo tipo di fantascienza potesse soddisfare il desiderio di esprimermi che ancora provavo, e si prestasse a una forma di moderna allegoria».4

Perciò il fantastico di Levi «si propone come strumento non evasivo, pur se divertente, per interpretare la condizione umana. E interpretarla attraverso la specola scientifica, offerta dall'attività quotidiana di chimico e l'interpretazione dell'ironia, del riso, ma nella loro funzione dirompente, contestatrice, di denuncia seria».5 Levi stesso, nelle note di copertina alla prima edizione del volume, tenta di porre fine ai dubbi suscitati dalla raccolta:

«ho scritto una ventina di racconti [...] cercando di raccontare [...] una intuizione oggi non rara: la percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un "vizio di forma" che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale [...] Io sono entrato (inopinatamente) nel mondo dello scrivere con due libri sui campi di concentramento [...] Proporre a questo pubblico un volume di racconti-scherzi, di trappole morali, magari divertenti ma distaccate, fredde: non è questa una frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell'olio? Sono domande che mi sono posto all'atto dello scrivere e del pubblicare queste "Storie naturali". Ebbene, non le pubblicherei se non mi fossi accorto (non subito, per la verità) che fra il lager e queste invenzioni una continuità, un ponte esiste: il lager, per me, è stato il più grosso dei "vizi", degli stravolgimenti di cui dicevo prima, il più minaccioso dei mostri generati dalla ragione».

Le storie del suo mestiere di chimico in Il sistema periodico, i racconti di esperimenti di scienziati pazzi, di belle addormentate nel frigo, di macchine sostitutrici di poeti o che raddoppiano ogni cosa in Storie naturali sono, per dirla con Levi, un ponte col suo l'universo memoriale; questi racconti - paradossali, parodistici, futuribili - presentano quasi sempre un "mondo alla rovescia",6 un versante negativo e distorto del mondo già protagonista nei suoi primi due libri. Per dirla con Belpoliti, «l'istanza fantastica è presente in tutte le opere dello scrittore torinese, anche in quelle più testimoniali, tanto da far pensare al fantastico come a una delle vene narrative più forti della sua intera opera».7

 

§ III. Storie fantascientifiche Torna al sommario dell'articolo

II. La memoria

Storie naturali è un insieme di quindici racconti depositari di tematiche diverse: l'uomo visto nella sua complessità e ambiguità; la passività umana allettata e surrogata dalle macchine; la scienza, madre potenziale di frutti avvelenati; il tema della creazione, atto sacrale e misterioso, paradossalmente burocratizzato e parodizzato o mirabilmente interpretato; il tema dell'ibrido entro il quale l'inanimato si anima.
Il primo racconto, I mnemagoghi,8 tratta uno dei temi più cari a Levi: quello della memoria. Altrove troviamo riferimenti alla memoria: in I sommersi e i salvati afferma che «la memoria umana è uno strumento meraviglioso»; nell'appendice del 1976 a Se questo è un uomo sostiene che «ricordare è un dovere»; nel racconto Un "giallo" del Lager (ora in Racconti e saggi) scrive: «a volte, ma solo per quanto riguarda Auschwitz, mi sento fratello di Ireneo Funes, "El memorioso" descritto da Borges, quello che ricordava ogni foglia di ogni albero che avesse visto»9 e di quel periodo Levi dice, nel Sistema periodico, di conservare una «memoria di precisione patologica».10 Secondo Stefano Bartezzaghi, «Levi alterna le due antiche concezioni della memoria: la tavoletta di cera su cui scolpire, incidere, registrare tracce, [...] e il magazzino o serbatoio o bagaglio o miniera o armadio in cui rinvenire reperti [...] l'evocazione della memoria può essere uno sforzo intellettuale, volontario e doveroso [...] oppure può dipendere da una sollecitazione sensoriale». 11 In I mnemagoghi è implicata sia la memoria volontaria sia quella involontaria; le numerose boccette in cui sono contenuti gli odori costituiscono «il serbatoio» dal quale volontariamente vengono rievocati momenti particolari della vita passata del dottor Montesanto. Il misterioso, l'«inconsueto» si insinua nella norma quando il dottor Montesanto, che non vuole perdere alcun momento della sua vita passata, mostra al giovane dottor Morandi i «mnemagoghi: suscitatori di memorie», cioè cinquanta boccette numerate nelle quali il vecchio ha «ricostruito, con esattezza e in forma conservabile, un certo numero di sensazioni [odorose] che per me significano qualcosa» (p. 16). La perplessità e l'esitazione del giovane nell'accogliere l'invito a odorare sono le stesse che prova il lettore che, come lui, pensa: «strano vecchio» (p. 14). Nel racconto Levi si rispecchia nel dottor Montesanto non solo perché come lui ama raccontare il suo passato, ma anche perché il motivo degli odori (acri, forti, impalpabili, acuti) compare nelle sue opere prime, ne tratta anche nel saggio Il linguaggio degli odori nella raccolta L'altrui mestiere, dove afferma:

«sono diventato chimico [...] per trovare o costruirmi un'occasione di esercitare il mio naso [...] tutti gli odori, gradevoli o no, sono straordinari suscitatori di memorie [...] quando ho rivisitato Auschwitz dopo quasi quarant'anni, lo scenario visivo mi ha dato una commozione reverente ma lontana, per contro, l'"odore di Polonia", innocuo, sprigionato dal carbon fossile usato per il riscaldamento delle case mi ha percosso come una mazzata: ha risvegliato a un tratto un intero universo di ricordi, brutali e concreti, che giacevano assopiti, e mi ha mozzato il respiro».12

Dopo che il giovane Morandi si è sottoposto al rito di odorare le bottigliette, cercando di indovinarne gli odori, torna a vivere nel presente e nella realtà con la corsa nel bosco, e nel futuro, affermando che «lui non sarebbe diventato così, non si sarebbe lasciato diventare così» (p. 20).

 

§ IV. Lo scienziato pazzo Torna al sommario dell'articolo

III. Storie fantascientifiche

Alcuni racconti si possono considerare fantascientifici, ma, per dirla con Cases,

«Levi si è ritagliato una zona "italiana" di fantascienza, in cui al posto della crudeltà della migliore fantascienza americana c'è la malinconia umanistica, al posto dello stile immediato e sbrigativo una maggior consapevolezza linguistica e un ineliminabile bagaglio culturale; al posto dei grattacieli e delle astronavi un'atmosfera casalinga di gabinetti scientifici, vecchi professori e commessi viaggiatori [...] egli è riuscito a mantenere il nesso con l'esperienza dei Lager pur modificando il suo angolo visuale, ad accorgersi che il Lager non era soltanto ad Auschwitz, ma dappertutto [...] nelle migliori invenzioni delle Storie naturali Levi ha espresso l'inquietudine che prova di fronte all'emergere del "mondo rovesciato" che aveva vissuto ad Auschwitz nelle strutture stesse della vita quotidiana, del mondo apparentemente dritto, "nella famiglia, nella natura in fiore, nella casa", nel giardino del suo commesso viaggiatore in pensione».13

In effetti, il fantastico di Levi è in alcuni casi molto vicino alla fantascienza: avveniristiche scoperte scientifiche e prodigiose innovazioni tecnologiche sono al centro dei racconti Il Versificatore; L'ordine a buon mercato; Alcune applicazioni del Mimete; La misura della bellezza; Pieno impiego; Trattamento di quiescenza. Con questi racconti Levi colloca nella quotidianità le intuizioni premonitrici di un futuro possibile, li considera «un debito alla dimensione tecnologica, alle sue distorsioni e alle sue meraviglie. I racconti sono tutti, più o meno, figli di qualche lampo d'intuizione avuto in laboratorio».14 Nei racconti fantascientifici di Levi lo straordinario, l'abnorme si insinua nella vita di ogni giorno, nel lavoro d'ufficio, nei desideri di ogni uomo; le macchine entrano nella vita dell'uomo senza traumi, anzi ben accolte, ma producono un disequilibrio, un capovolgimento tale che tutte le attività delegate a queste apparecchiature tecnologiche renderanno l'uomo completamente dipendente. La degenerazione che ne deriva è mitigata dal tono ironico e dagli effetti surreali e grotteschi presenti in molte pagine. Qui troviamo sottesa una morale che mette in luce un'attualità piena di pieghe misteriose o, per dirla con Faussone, indimenticabile protagonista di La chiave a stella, «un mondo fuori quadro», dove l'agire dell'uomo produce il nascere dell'abnorme e dove nessuno pare voglia rendersi conto del pericolo insito in ogni nuova scoperta scientifica. Questi racconti trattano di problemi dibattuti negli anni Sessanta, come l'accelerazione delle scoperte tecnologiche e l'uso delle intelligenze artificiali. Tutti hanno come protagonista il signor Simpson, rappresentante di un'azienda americana NATCA con sede a Fort Kiddiwanee in Oklahoma, un «venditore di meraviglie». A differenza dei mnemagoghi, dove era il protagonista a fabbricare la sua «meraviglia», qui tutto avviene con l'ausilio di macchine sbalorditive.
Il primo è un Versificatore, cioè una macchina che compone poesie dopo che l'utente ha impostato il tema, il periodo storico, il metro, l'argomento.15 Questa macchina, acquistata da un Poeta a corto di idee e poco propenso ad accollarsi «un lavoro di lunghe varianti e continue correzioni», stanco di usare rimari e di dettare alla segretaria frasi che poi venivano cancellate, decide di «affidare alla macchina i compiti più ingrati, più faticosi» (p. 37). Il racconto, scritto per una pièce teatrale, gioca su una continua contrapposizione di idee tra il Poeta, convinto ed entusiasta della macchina, e la sua segretaria, che rifiuta questo aiuto meccanico chiedendosi: «come potrà avere il suo gusto, la sua sensibilità» (p. 38), e, in un continuo battibecco fatto di esaltazione da una parte e di denigrazione dall'altra, si arriva alla composizione di poesie in rima. La macchina trova sì rime, ma con parole fasulle: rospo-nascospo-dospo; alle parole della segretaria: «è francamente detestabile, fa venire la nausea. È un vilipendio» (p. 47), si contrappone il pensiero del poeta: «è un vilipendio, ma ingegnoso» (p. 47). Il massimo dell'ingegno della macchina e della fantasia del narratore viene espresso durante la composizione di un sonetto dove la macchina si blocca su una rima e chiede aiuto a Simpson, chiamandolo «Sinsone» perché «"Simpson" si ricollega etimologicamente a Sansone, nella sua forma ebraica di "Shimshòn" [... e la macchina] ha stabilito un legame fra il soccorritore antico e il moderno» (p. 54). I botta e risposta tra la segretaria e il poeta, le precisazioni di Simpson, sempre pronto a giustificare gli errori della macchina colpevolizzando i salti di tensione e a metterne in luce prontezza e velocità («pensi: ventotto secondi per un sonetto» p. 52), rendono la narrazione brillante e la sottile ironia evidenzia le esitazioni del poeta dettate da motivi deontologici: «sono un poeta, io, un poeta laureato, non un mestierante [...] da parte mia è una scelta dolorosa, piena di dubbi. Esiste una gioia nel nostro lavoro [...] la felicità del creare, del trarre dal nulla» (pp. 36, 38). Queste esitazioni però crollano di fronte alla macchina che, in «ventotto secondi», compone un sonetto.
Nel racconto L'ordine a buon mercato, la seconda prodigiosa apparecchiatura fornita da Simpson è una macchina duplicatrice, il Mimete, che «riproduce il modello, lo ricrea identico, per così dire, dal nulla [...] crea ordine dal disordine» (p. 81). Il Mimete necessita solo di una miscela di alimentazione, chiamata non a caso «pabulum», e in esso «si ripete un procedimento genetico recentemente scoperto e il modello "è legato alla copia dallo stesso rapporto che lega il seme all'albero"» (p. 81). Il racconto pare preconizzi il procedimento della clonazione e le applicazioni che verranno descritte dall'io narrante alludono chiaramente all'uso errato e mistificatorio che di ogni buona scoperta scientifica l'uomo può fare. Infatti, l'utente non si accontenta di duplicare documenti e di ammirarne la perfezione, ma duplica diamanti, banconote e altro e di tutti ottiene «una replica impeccabile». Il narratore, mettendo quasi sullo stesso piano la macchina e Dio creatore, si rifà alla Genesi biblica e descrive le diverse cose duplicate, elencando quelle del primo giorno, quelle del secondo e così via fino ad arrivare al sesto; si inizia dalle creazioni più semplici e innocue, come un piccolo dado di legno, e si arriva a riprodurre, nel sesto giorno, un essere vivente: una lucertola. Dopo il riposo del settimo giorno, l'acquirente, diversamente dal Dio biblico, non è soddisfatto e perciò interpella Simpson, proponendogli di procurargli un pabulum con «tutti gli elementi necessari per la vita» (p. 87). Avvedutamente Simpson replica: «credo nell'anima immortale, credo di possederne una, e non la voglio perdere. E neppure voglio collaborare a crearne una con... coi sistemi che lei ha in animo» (p. 87); ne consegue che nella circolare che la NATCA invierà a tutti i compratori del Mimete si diffida chiunque dall'usare la macchina per scopi diversi da quelli di «riprodurre documenti d'ufficio» (p. 89). Più volte durante le numerose interviste rilasciate, Levi ha sostenuto che non può esistere innovazione senza etica: «fisici, chimici biologi prendano piena coscienza del loro sinistro potere [...] Bisogna che, soprattutto nelle facoltà scientifiche delle università, si diffonda una precisa consapevolezza morale [...] occorre che il giovane scienziato pretenda di conoscere lo scopo per cui sta lavorando, e abbia il coraggio di dire il suo no quando lo scopo gli ripugni [...] si vincoli con un giuramento non diverso da quello di Ippocrate»16. L'acquirente afferma tuttavia di non condividere questi «sciocchi scrupoli moralistici» perché la macchina sarebbe potuta diventare uno strumento adatto per lo studio delle «conoscenze sui meccanismi vitali» (p. 87) e sottolinea come la scienza sia ambigua e possa lavorare sia per il bene sia per il male. Nel saggio Covare il cobra, in contrasto col messaggio di uno scienziato che diceva «Stop science now», auspicava: «quanto alla ricerca di base, essa può e deve proseguire: se l'abbandonassimo tradiremmo la nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più motivo di esistere».17 In Alcune applicazioni del Mimete Levi riprende il ragionamento: il racconto si apre con l'affermazione «l'ultima persona al mondo a cui un duplicatore tridimensionale avrebbe dovuto finire in mano è Gilberto» (p. 101); costui, secondo il narratore, incarna «il figlio del secolo» e come tale possiede la sfrenata passione di «tormentare la materia inanimata» (p. 101). È un uomo curioso e indagatore, ma anche scellerato perché con leggerezza usa certe scoperte senza sapere o volere valutarne i rischi: tale comportamento è definito da Levi «vizio di forma». Il protagonista del racconto, senza preoccuparsi di «violare un buon numero di leggi divine e umane» (p. 103), arriva a duplicare la moglie senza un motivo preciso, ma per il «gusto insano di vedere che effetto fa» (p. 103). Il narratore mostra il perfetto funzionamento della macchina che è riuscita a ricreare una nuova donna, non solo con «l'identica spoglia mortale del prototipo, ma anche l'intero suo patrimonio mentale» (p. 104). Tale «arbitrario atto creativo» è un esperimento abominevole, infatti si vengono a creare problemi sui rapporti interpersonali tra i tre e implicanze legali di vario genere. La narrazione mostra l'enorme potere caduto in mano a questo apprendista stregone e l'uso irresponsabile che egli ne fa: senza porsi alcun problema, Gilberto duplicherà anche se stesso per risolvere la situazione e tutto ciò senza essere minimamente pentito del suo operato, anzi esclamerà: «Gilberto è un asso [...] ha sistemato tutto in un batter d'occhio» (p. 108). In questi due racconti Levi, facendo suo un tema caro al fantastico - il doppio - narra di «un futuro sempre più sospinto dalla molla frenetica del progresso tecnologico»18 rappresentato da macchine capaci di duplicare ogni cosa venga immessa al loro interno, una sorta di antenati della clonazione.
Altra strumentazione ingegnosa, protagonista del racconto La misura della bellezza, posseduta dal signor Simpson, è apparentemente un oggetto innocuo e inutile: si tratta di un Calometro, un misuratore di bellezza. Gli inventori di questo aggeggio, uno per i maschi e uno per le femmine, senza porsi troppi problemi di natura filosofica o estetica su cosa sia la bellezza, affermano: «la bellezza è ciò che il Calometro misura [...] la bellezza è relativa a un modello variabile a piacere, ad arbitrio della moda [...] il modello femminile detto Paride verrà tarato sulle fattezze di Elizabeth Taylor e il modello maschile sulle fattezze di Raf Vallone» (p. 160). La moglie del narratore ne dà un giudizio negativo perché lo considera «uno strumento squisitamente conformista» e il narratore, nel risponderle, mette in luce come l'uomo medio oggi sia eterodiretto: «gli si può far credere che sono belli i mobili svedesi e i fiori di plastica, e solo quelli; gli individui biondi, alti e con gli occhi azzurri, e solo quelli; che è solo buono un certo dentifricio, solo abile un certo chirurgo, solo depositario della verità un certo partito» (p. 163). L'io narrante evidenzia «che l'instaurarsi di una moda, di uno stile, l'"abituarsi" collettivo a un nuovo modo di esprimersi, è l'analogo esatto della taratura di un Calometro» (p. 163). Anche di questa apparecchiatura verrà fatto un uso poco morale: verrà infatti utilizzata dalle «centrali squillo» per creare uno schedario moderno sulla bellezza delle loro addette ai lavori. Non contento, Gilberto - «figlio del secolo, ingegnoso e irresponsabile, piccolo prometeo nocivo» - manomette il Calometro in modo che, adattandolo a una persona, dia un risultato di massima bellezza, con la conseguenza di aumentare molto le vendite perché, dice Simpson al narratore, «ricordi la strega di Biancaneve. A tutti piace sentirsi lodare anche se soltanto da uno specchio o da un circuito stampato» (p. 164).
Nel racconto Pieno impiego, Levi dimostra come l'uso distorto di certe invenzioni conduca al male e come una «"cosa" nuova e grossa, ricca di sviluppi scientifici e anche poetici» possa invece sfociare in usi malefici. Simpson, insoddisfatto delle nuove scoperte della NATCA e convinto che «le macchine sono importanti, non ne possiamo più fare a meno, condizionano il nostro mondo, ma non sono sempre la soluzione migliore dei nostri problemi» (p. 187), mostra al narratore diverse specie di insetti coi quali è riuscito a stabilire rapporti così stretti da capirne il linguaggio e da ottenere il loro aiuto in mansioni disparate. Simpson, come il pifferaio di Hamelin, fischia tre note con un flauto e subito compare uno sciame di libellule e ognuna di loro porta un mirtillo che viene depositato in una coppa. Incredibilmente Simpson riesce anche ad accordarsi con api, formiche, mosche e zanzare, evitando di usare il nocivo DDT che «avrebbe turbato l'equilibrio biologico della zona» (p. 194). A questo punto, dopo uno stacco tipografico, il racconto cambia tono, scompare l'uomo giusto che cerca di non alterare l'equilibrio ambientale e compare l'uomo d'affari, il cui obiettivo è il guadagno, il quale spregiudicatamente studia e sperimenta per asservire a sé colonie di formiche, istruendole a eseguire lavori che per l'uomo sarebbero quasi impossibili e costosissimi. Il narratore continua su questo tono raccontando come un collaboratore di Simpson fosse riuscito a istruire anguille facendo trasportare loro, durante la migrazione verso il mar dei Sargassi, palline piene di eroina.
Continuando la presentazione del versante distorto del comportamento umano, in Trattamento di quiescenza19 Levi descrive la passività come una sorta di «vizio morale». Simpson, ormai in pensione, ha avuto dalla NATCA in regalo il TOREC, un'apparecchiatura che offre sensazioni ed esperienze vissute da altri e registrate su nastro: basta che l'utente indossi uno speciale casco per rivivere integralmente quanto suggerisce il nastro: «egli sente di parteciparvi e di esserne l'attore» (p. 231). Il narratore comprende i lati negativi ma, nonostante creda che «scoraggerà ogni iniziativa, anzi ogni attività umana [...] mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga» (p. 232), sperimenta alcuni nastri, trasformandosi prima in un abile calciatore, poi in un picchiatore violento di una banda di delinquenti, dopo di che rifiuta di sottoporsi a ogni altra esperienza. Simpson invece ha sacrificato tutto a questo congegno, è stato così irretito dal suo meccanismo da perdere la sua autonomia e quando il nastro finisce «è oppresso da una noia vasta come il mare, pesante come il mondo» (p. 251). Pur cosciente, si avvia verso la sua autodistruzione sperimentando diversi tipi di morte attraverso diversi tipi di nastri registrati.
Infine, il miraggio dell'eterna giovinezza, motivo che spesso troviamo nei racconti fantastici, viene rivisitato da Levi in La bella addormentata nel frigo: qui la vicenda, in maniera grottesca e umoristica, tratta la tecnica dell'ibernazione che fin dalla metà del XX secolo era stata sperimentata a scopo clinico e chirurgico. Nella Berlino dell'anno 2115 nella casa di Lotte Thörl si aspettano ospiti per assistere a uno spettacolo straordinario: lo scongelamento di Patricia, ibernata nel 1975 all'età di 23 anni. Questa sorta di risurrezione non è però definitiva; ogni anno, il 19 dicembre, data del suo compleanno, per qualche ora torna a vivere in tutta la bellezza e la freschezza dei suoi 23 anni, con «il fascino dell'eternità e quello della giovinezza» (p. 145), dopo di che viene nuovamente ibernata. Tuttavia, dopo cento quarant'anni passati tra congelamenti e scongelamenti, Patricia desidera raggiungere un suo amico, anch'egli congelato da tempo, mette perciò in atto uno stratagemma per sfuggire a un ennesimo congelamento e riesce a partire per l'America.

 

§ V. L'ibrido Torna al sommario dell'articolo

IV. Lo scienziato pazzo

Versamina e Angelica farfalla ci ricordano gli archetipi di un filone caro alla tradizione fantastica, che va da Frankenstein a Doctor Jekyll agli esperimenti del Dottor Moreau. In Versamina il dottor Kleber, con una sostanza chimica da lui preparata, 41° benzoilderivato, B/41 da lui chiamata Versamina, riesce a convertire il dolore in piacere e chi subiva tale trattamento, uomini o animali, risultava «capovolto, e non guariva più, come se per loro il piacere e il dolore avessero cambiato posto definitivamente» (p. 118). Kleber stesso, dopo aver sperimentato su di sé la Versamina, «si grattava in modo feroce, come un cane, appunto, come se volesse scavarsi. Insisteva sui posti dove era già irritato e presto ebbe cicatrici sulle mani e sul viso» (p. 121). Chi è sottoposto a questo trattamento è costretto a infierire su se stesso e a procurarsi una sorta di dolore-piacere perché l'illusione è irresistibile ed è facile lasciarsi tradire dal «bombardamento di messaggi falsi che pervenivano da tutti i sensi» (p. 123). In Angelica farfalla il professor Leeb, dopo aver studiato il comportamento della Neotenia, «responsabile di una specie di scandalo biologico» (p. 63) perché in grado di riprodursi allo stato larvale, attraverso «teorie stravaganti e fumose» si pone l'obiettivo di trasformare l'uomo in angelo. Attraverso strani studi e sperimentazioni, Leeb trasforma esseri umani in mostri simili ad avvoltoi: «sembravano avvoltoi [...] e facevano dei versi terrificanti [...] assomigliavano alle teste delle mummie che si vedono nei musei» (p. 66). Finita la guerra, questi esseri mostruosi vengono uccisi dai berlinesi affamati, guidati dall'infermiere che aveva assistito agli esperimenti. In entrambi i racconti si respira un'aria vagamente horror, a cominciare dall'ambiente esterno dove si svolgono, che è quello della Germania appena uscita dalla guerra:20 in Angelica farfalla «il selciato è sconnesso [...] un cratere di bomba sbarrava la strada [...] da una conduttura sommersa il gas gorgogliava in grosse bolle vischiose» (p. 59); in Versamina «la sua città [...] l'aveva ritrovata quasi intatta negli edifici ma sconvolta intimamente, lavorata dal di sotto come un'isola di ghiaccio galleggiante, piena di falsa gioia di vivere, sensuale senza passione, chiassosa senza gaiezza, scettica, inerte, perduta. La capitale della nevrosi: solo in questo nuova, per il resto decrepita, anzi senza tempo, pietrificata come Gomorra. Il teatro più adatto per la storia contorta che il vecchio andava dipanando» (p. 117-118). Anche gli ambienti interni dove si svolgono gli avvenimenti rimandano a certi racconti noir: in Angelica farfalla «dentro c'era polvere, ragnatele e un odore penetrante di muffa [...] per terra era uno strato di stracci immondi, cartaccia, ossa, penne, bucce di frutta; grosse macchie rosso-brune [...] in un angolo, un monticello di una materia indefinibile, bianca e grigia, secca: odorava di ammoniaca e di uova guaste e pullulava di vermi [...] un osso [...] si direbbe di un uccello preistorico» (p. 60) e il biologo che ha il compito di esaminare tali «reperti schifosi» esclama inferocito: «c'è di tutto, là dentro: sangue, cemento, pipì di gatto e di topo, crauti, birra, la quintessenza della Germania, insomma.» (p. 61). La costruzione metadiegetica dei due racconti rimanda a una struttura amata dal fantastico: un personaggio racconta a un altro la storia del terzo personaggio che è lo scienziato pazzo. In Versamina il vecchio Dybowski narra a Jakob Dessauer la storia del dottor Kleber; in Angelica farfalla Gertrud Enk racconta ai responsabili del Comando quadripartito ciò che vedeva dalla finestra di casa sua che si trovava di fronte al luogo dove il professor Leeb faceva i suoi agghiaccianti esperimenti. Anche la fine dei due racconti, non definitivamente conclusi, lascia presagire che l'inquietante minaccia possa ancora tornare. In Versamina il narratore, per una associazione di idee, «pensava a una brughiera in Scozia, mai vista ma meglio che vista; a una brughiera piena di pioggia, lampi e vento, e al canto gaio-maligno di tre streghe barbute, esperte in dolori e in piaceri e nel corrompere la volontà umana» (p. 125). In Angelica farfalla si pensa che il professor Leeb sia morto; «io però sono persuaso che non è vero: perché gli uomini come lui cedono solo davanti all'insuccesso, e lui invece, comunque si giudichi questa sporca faccenda, il successo lo ha avuto. Credo che, cercando bene, lo si troverebbe, e forse non tanto lontano; credo che del professor Leeb si risentirà parlare» (p. 68).

 

§ VI. La creazione Torna al sommario dell'articolo

V. L'ibrido

In più occasioni Levi ha voluto esaltare la fusione tra materia vivente e non vivente: il mescolarsi tra animato e inanimato amalgama i diversi mondi, giungendo a un'integrazione che fonde le rispettive proprietà, allentando le diversità tra regno animale vegetale minerale. L'ibrido come innesto e confusione di nature pare alludere al desiderio e alla speranza che un giorno la caduta della distinzione e della diffidenza tra mondi diversi crei la convergenza e l'integrazione tra le culture. Fusione di generi e innesto di elementi eterogenei sono i protagonisti del racconto L'amico dell'uomo, dove la tenia abbarbicata al suo ospite si trasforma nel cantore del corpo ospitante. Qui il parassita assorbe, insieme al cibo, anche la cultura di chi lo ospita e ne è a tal punto impregnato da costruire con le proprie cellule mosaici che sembrano incomprensibili crittogrammi, ma che, una volta decodificati, si rivelano essere versi o prose ritmiche, come se vi si ripercuotesse «in forma compendiaria e confusa l'antichissima dimestichezza del parassita con la cultura del suo ospite nelle sue varie forme; quasi che il verme abbia attinto, insieme coi succhi dell'organismo dell'uomo, anche una parcella della sua scienza» (p. 95). La produzione della tenia è l'apologia del suo ospite e ricorda le invocazioni di certi santi in adorante estasi verso Dio: «siimi benigno, o potente [...] tutto procede da te: i soavi umori che mi danno vita, e il tepore in cui giaccio [...] parla, e ti ascolto. Vai, e ti seguo. Medita, e ti intendo [...] la tua forza mi penetra, la tua gioia discende in me [...] T'amo, uomo sacro» (p. 96). In "Cladonia rapida" invece l'incontro avviene tra il mondo inanimato delle automobili e quello vegetale e vivo del lichene. Questo parassita non si limita a intaccare la carrozzeria delle auto, ma raggiunge gli organi interni, causando danni alla «funzionalità generale dell'autoveicolo» (p. 72). L'ibridazione coinvolge anche i guidatori perché, passando da un proprietario a un altro, l'auto conserva una sua memoria che interagisce sulla volontà della persona che guida l'auto. Levi si abbandona a narrare situazioni grottesche e paradossali che investono il sesso delle auto, distinte in «she-cars e he-cars»: le prime consumano meno carburante ma tengono male la strada, le seconde hanno miglior ripresa ma sono dure di molleggio.

 

§ VII. La censura Torna al sommario dell'articolo

VI. La creazione

Nel racconto Il sesto giorno si intreccia l'atto creativo con il lavoro di una équipe di esperti scienziati riuniti al tavolo di una pseudo-azienda. Arimane, capo di questo consiglio di amministrazione, sollecita ai diversi consiglieri la conclusione del progetto per il «modello Uomo», cioè «il dominatore, il conoscitore del bene e del male [...] l'essere costruito ad immagine e somiglianza del suo creatore» (p. 207). La creazione dell'uomo è il risultato di una progettazione di fabbrica fatta da una équipe di specialisti divini esperti in anatomia, psicologia, acque, termodinamica, chimica e meccanica, che lavorano di comune accordo, a esclusione dell'economo, che si oppone perché «col bilancio ve la vedrete voi» e il suo parere è «inappellabile» (p. 209), e Ormuz, che fa notare «i pericoli connessi con l'inserimento del cosiddetto Uomo nell'equilibrio planetario attuale» (p. 206). Mentre gli esperti discutono su quale forma e quali particolarità debba avere l'uomo, un messaggero annuncia che il sommo capo ha fatto tutto da solo, usando «sette misure di argilla impastata con acqua di fiume e di mare [...] pare si tratti di una bestia verticale, quasi senza pelo, inerme [...] in questa creatura hanno infuso non so che altro, ed essa si è mossa. Così è nato l'Uomo» (p. 223).
Una creazione, anche se pagana e del tutto fantastica, è quella descritta in Quaestio de Centauris: «quando le acque si ritirarono la terra rimase coperta di uno strato profondo di fango caldo. Ora questo fango [...] era straordinariamente fertile [...] ospitò nel suo seno cedevole ed umido le nozze di tutte le specie salvate nell'arca. Fu un tempo mai più ripetuto, di fecondità delirante, furibonda, in cui l'universo intero sentì amore» (p. 168). Da questo brodo primigenio scaturiscono, oltre ai centauri, creature di ogni genere: la terra «era un solo talamo sterminato, che ribolliva di desiderio in ogni suo recesso, e pullulava di germi giubilanti» (p. 168). Da questa specola si intuisce che il narratore propende per le teorie evoluzioniste e afferma: «fu questa seconda creazione la vera creazione [...] non si spiegherebbero diversamente certe analogie, certe convergenze da tutti osservate» (p. 169). A questo inizio fanno seguito scansioni fantastiche che si allargano verso altri orizzonti, tutte raccontate dal centauro Trachi al narratore: si va dalle origini dei centauri21 alla rappresentazione della loro vita alla presentazione delle centauresse fino alla descrizione della loro acuta sensibilità: «sentono per le vene, come un'onda di allegrezza, ogni germinazione, animale, umana o vegetale. Percepiscono [...] ogni amplesso che avvenga nelle loro vicinanze; perciò [...] entrano in uno stato di viva inquietudine al tempo degli amori» (p. 174). Il narratore, quasi temendo di essersi spinto troppo oltre con la sua fantasia, parafrasando le parole di Shakespeare (Hamlet, I, vv. 166-167) invita il lettore a non dubitare su quanto egli ha narrato e stimola «gli increduli a considerare che ci sono più cose in terra di quanto la nostra filosofia ne abbia sognate» (p. 171).

 

§ VIII. La lingua Torna al sommario dell'articolo

VII. La censura

Diverso dagli altri racconti, ironico e sempre attuale è Censura in Bitinia. L'ambientazione in questa terra quasi mitica della Tracia ci porta lontano dal nostro mondo, ma in realtà l'argomento della censura è universale. Dalla censura della stampa possiamo arrivare fino alla censura delle idee e delle opinioni. Il narratore, dopo aver capito l'inattendibilità dei moderni impianti elettronici, dopo aver capito l'inadeguatezza di cani, scimmie e cavalli che, «troppo intelligenti e sensibili: si comportano [...] in modo troppo passionale [...] rivelano in queste circostanze un esprit de finesse che ai fini censoriali è senza dubbio dannoso» (p. 26), individua nel «pollo domestico» il miglior censore poiché «le galline [...] sono capaci di scelte rapide e sicure, si attengono scrupolosamente agli schemi mentali che vengono loro imposti, e, dato il loro carattere freddo e tranquillo e la loro memoria evanescente, non vanno soggette a perturbazioni» (p. 27). È evidente l'allusione alla cieca obbedienza di certi burocrati che si assoggettano ai diktat del governo, nel caso di Bitinia impostato «sull'interessamento di persone facoltose, od anche solo di professionisti ed artisti, specialisti e tecnici che sono pagati piuttosto bene» (p. 23).

 

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VIII. La lingua

Nelle note di copertina alla prima edizione di Storie naturali, Levi dice di aver scritto «per lo più di getto, cercando di dare forma narrativa ad una intuizione puntiforme». Questa intuizione è spesso una parola che diventa il punto da cui partire per costruire un racconto; la parola è a volte un neologismo, costruito spesso secondo norme linguistiche vigenti (prefissi e suffissi, in genere, che poggiano sul latino e sul greco) ma che dà vita a termini di assoluta fantasia, basti pensare ai mnemagoghi, al versificatore, al mimete, a cladonia o a versamina che ricalcano termini scientifici. Il vocabolo diventa punto di partenza dal quale discendono le molte realtà narrate all'interno del racconto, dove tutto diventa logico e reale. Essenzialità ed economia si percepiscono ovunque nella lingua di Levi, ma è soprattutto nel periodare, essenzialmente paratattico, che cogliamo la snellezza, la rapidità, l'economia del suo scrivere. Il tessuto dei racconti è piuttosto multiforme, a volte si dispone in forma teatrale, a volte segue le norme delle relazioni scientifiche, a volte procede secondo la forma classica e paludata; di conseguenza svariati sono i registri e i codici arricchiti dalla presenza di linguaggi settoriali: Censura in Bitinia è una parodia del burocratese; alla fine di L'ordine a buon mercato troviamo lo stile delle circolari emesse da aziende; in "Cladonia rapida" e in L'amico dell'uomo viene preso di mira il linguaggio delle relazioni scientifiche; in quest'ultimo assistiamo anche alla mimesi del linguaggio poetico solenne oggi desueto. Levi arriva persino a parafrasare parodicamente i versi di alcune note poesie: «deh, lasciatemi così, dimenticato in un angolo, in questo calore buono» (p. 75) (il ricordo di Natale di Ungaretti è evidente); «t'amo, uomo sacro» (e qui pensiamo a Carducci, Il bove); «da te, uomo ipocrita, mio simile e mio fratello» (e ripensiamo alla lirica Au lecteur in Les fleurs du mal di Baudelaire). In Trattamento di quiescenza dà vita a una sorta di pastiche: dopo un inizio che si snoda su un parlato quotidiano e usuale (l'incontro di due conoscenti in un ambiente fieristico, con espressioni del tipo: «è roba da chiodi [...] perché farmi cattivo sangue» p. 183), si passa al linguaggio usato nelle telecronache delle partite di calcio («un altro giocatore rossonero entrò nel mio campo visivo: gli passai il pallone rasoterra, sorprendendo un avversario, poi mi precipitai in avanti [...] udii il boato crescente del pubblico» p. 188), al linguaggio che simula quello delle cronache giornalistiche dove si descrive una scena di violenza tra bande di strada, narrata però in prima persona («io ero seduto, gli altri intorno a me stavano in piedi. Erano tre, avevano delle maglie a righe e mi guardavano sogghignando [...] mi chiamava bright boy e goddam rat [...] ero veramente un Wop, un figlio di immigrati italiani» p. 191) seguita dalla descrizione di un pestaggio che inizia con una provocazione nel dialetto dell'Italia meridionale: «uocchie 'e mammeta! Madonna Mmaculata!» (p. 191). Infine troviamo una serie di annunci pubblicitari («"Tramonto a Venezia", "Il ciclone Magdalen", "Un giorno fra i pescatori di merluzzi"» p. 189) e passaggi in stile lirico («il sole si rifletteva abbagliante sui ghiacciai: non c'era una nuvola [...] vedevo, udivo il fruscio del vento e lo scroscio lontano del torrente, sentivo la mutevole pressione dell'aria» p. 198). Nell'estrema e ricca variabilità del lessico troviamo espressioni colloquiali, parole ricercate, parole specifiche del linguaggio tecnico-scientifico, formule in lingua straniera o in latino e, anche se rari, inserti in dialetto.
La scrittura risulta essere dunque uno strumento che fa da tramite tra ordine e disordine, tra osservazione e ricerca, tra gioco fantastico e vita quotidiana. L'esperienza del lager «gli ha armato la penna [...] tuttavia [...] grande merito di Levi, e segno della sua statura di scrittore, aver saputo cercare altre vie [...] la via è stata soprattutto quella del racconto breve, di cui egli si è rivelato un autentico maestro».22 I racconti contengono rielaborazioni di esperienze accadutegli, avvenimenti sostenuti da una fantasia sbrigliata, ma come dice lui stesso «la Scienza, con la S maiuscola, e la Tecnologia, con la T maiuscola, sono delle formidabili fonti d'ispirazione».23

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2007

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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