Guido Michelone
Torino '80: rock, giovani e narrativa

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Introduzione
Alessio Bertallot
Luca Ragagnin
Silvio Bernelli
Fuori i libri
Fuori le Rock Band



§ II. Alessio Bertallot

I. Introduzione

I ragazzi del Mucchio, Il migliore dei mondi possibili, Se è giovedì siamo in Olanda, In viaggio con Manu Chao, La rivolta in musica, Dianablu, Motor City Blues: per fortuite coincidenze, dalla scorsa primavera abbiamo tra gli scaffali delle librerie italiane ben sette testi che riguardano Torino e il rock, dagli anni Ottanta ai nostri giorni. Scritti dai protagonisti medesimi di una stagione ormai lunghissima: quasi sempre membri di band ormai di culto, quasi sempre scioltesi dopo pochi anni. Il fatto che un argomento per così dire rimosso o trascurato, sia dalla critica musicale sia dall'analisi di costume, venga solo ora alla ribalta attraverso fiction, saggi, diari, ricordi, induce a qualche riflessione. La prima riguarda anzitutto la diversa qualità dei libri medesimi. Senza entrare nei giudizi di merito sul piano letterario, ma osservandoli in una prospettiva documentaria, sono testi che mediante la scelta narrativa (nelle varianti anche di metanarrativa e antinarrativa) vengono in primis a descrivere una situazione urbana poliedrica. Più o meno apertamente questi volumi ci dicono che il capoluogo piemontese ha avuto negli ultimissimi decenni una forte identità sociomusicale, che nessuno studioso, critico o giornalista ha rilevato, neppure di fronte alla realtà vivace e costruttiva degli ultimi cinque-sei anni: la Torino dei Subsonica, dei Mau Mau, degli Africa Unite, insomma.
Seconda riflessione: Torino in effetti, dopo la svolta epocale del punk nel 1977, non è divenuta per i giovani una città-simbolo come a vario titolo furono (o sono tuttora) Milano, Roma, Bologna da un lato, Napoli e Genova dall'altro (rispettivamente per gli anni Settanta e Sessanta). Ora, i libri di Bernelli, Giammarinaro, Corzani, Mathieu, Straniero & Barletta, Dileo, Carabetta ci spiegano, benché in maniera eterogenea, che Torino non è soltanto il luogo che ha dato i natali a Fred Buscaglione o a Enrico Rava, ma qualcosa in più sotto il profilo antropologico: la città della FIAT, delle lotte sindacali, delle manifestazioni operaie, dell'arte povera, del teatro d'animazione, dell'editrice Einaudi, di un'austera eredità politica tripartibile (comunista, liberale, cattolica) e, per contro, delle schegge impazzite dell'autonomia, dunque la città grigia, timorosa, monotona degli anni Settanta cede via via il posto ad una nuova generazione di musicisti che colmano un vuoto almeno ventennale: era dai tempi del Cantacronache di Straniero e Liberovici che non succedeva niente di nuovo, ad eccezione di qualche chansonnier dialettale (Farassino, Paulìn, Balocco) o di qualche gruppo progressive (Allusa Fallax, Living Life, Arti&Mestieri, Dedalus) rimasto orfano della Fonit Cetra, gloriosa label nazionale passata da sotto la Mole alla ERI di Milano (e ora assorbita dalla Warner).
Non a caso a partire dal 1980 si formano gli Statuto, prendendo il nome da una piazza vicina al centro e ritrovo dei nuovi mods: resteranno per circa dieci anni i migliori esponenti italiani di ska revival: nel loro saggio autobiografico indugiano forse un po' troppo verso se stessi, anche se si tratta di una celebrazione sincera ed innocente, che coinvolge una folta schiera di aficionados di cultura anglogiamaicana. Dalle lambrette superaccessoriate ai vestitini optical si transita, sempre attorno all'Ottanta, verso il casual proletario dei primi centri sociali, da cui si sviluppa la scena post-punk, come spiega Silvio Bernelli ne I ragazzi del Mucchio: protagonisti di pagine quasi epiche gruppi come Negazione, Declino, Indigesti che arrivano a tenere molti più concerti in Germania, Olanda, Danimarca e Stati uniti che in Italia o nella stessa Torino, dove sono guardati con sospetto tanto dalle forze dell'ordine quanto dalle giunte comunali anche di sinistra. Un riferimento all'allora sindaco Diego Novelli sembra palese quando i ragazzi del Mucchio anarchicamente occupano uno spazio pubblico dismesso per poter suonare e aggregare altri giovani.
Terza e ultima riflessione: degli Indigesti oggi nessuno suona più: Silvio (basso) fa il pubblicitario e ora anche il romanziere, Enrico (chitarra) è architetto; Massimino (batteria) opera nel sociale; solo Rudy (voce) ha una piccola etichetta indipendente che produce hard core italiano e straniero, alla cifra simbolica di cinque euro a CD, secondo la filosofia di questa musica che si imponeva prezzi politici su tutto e si imponeva di venir suonata sotto i trent'anni, inconscio retaggio hippie di Jerry Rubin che nel 1968 ai tempi di Do It!, il libro-simbolo della contestazione americana gridava forte: «Non fidatevi di chi ha più di vent'anni!». E anche ora i quattro Indigesti ritrovatisi, dopo alcuni lustri, alle presentazioni del libro di Silvio, ribadiscono il concetto: «Non suoniamo più, non perché non ne abbiamo voglia, anzi amiamo ancora moltissimo l'hard core punk. ma questa è una musica che si suona quando si ha vent'anni. Poi bisogna avere il coraggio di smettere, per non commercializzarsi o vendersi all'industria discografica, come è successo a tanti nostri amici. Bisogna avere il coraggio di fare altre cose!».

 

§ III. Luca Ragagnin Torna al sommario dell'articolo

II. Alessio Bertallot

Oggi DJ, negli anni Ottanta il simbolo di una fitta schiera di giovani musicisti che dalla provincia piemontese (Vercelli in questo caso) lanciavano nuove sfide alla cultura imperante. Mentre Bertallot iniziava a cantare al liceo, sempre a Vercelli, erano emersi, in contemporanea con Bologna e Pordenone, i primi gruppi punk, vicini al rock demenziale, come Sorella Maldestra, autori di una musicassetta per l'etichetta Harpo, la stessa dei felsinei Skiantos. Poi, l'incontro tra Alessio e il torinese Roberto Vernetti (tastierista nei Sorella, oggi sound engineer di fama internazionale) conduce al progetto Aeroplani Italiani, sessanta secondi di silenzio nel mezzo di una canzone al Festival di San Remo: omaggio assoluto all'arte di John Cage.


Quale era per te il rapporto con la Torino negli anni Ottanta?

Torino, per la mentalità che avevo e per noi che vivevamo in provincia a quell'epoca era come Milano, aveva questa funzione di "terra nuova" dove succedevano le cose. Si sapeva che a Torino c'era una scena rock alternativa: molti amici partivano, andavano a trovare altri giovani e cercavano di combinare qualcosa in campo artistico, con nuovi ragazzi di Torino o di Milano. Alla fine si aveva sempre più la sensazione di stare in una provincia morta, ma che a pochi chilometri stava succedendo qualcosa di pazzesco, in un territorio per noi ancora sconosciuto. In realtà col senno di poi è tutto molto più facilmente focalizzabile e delimitabile, però soprattutto per l'età che avevamo Torino era un po' come New York.


Però la provincia piemontese, a livello di rock, in quegli anni ha dato qualcosa. Tu con gli Aeroplani Italiani, tra Vercelli e Novara gli Armandoblu e la Banda Osiris, oppure un ingegnere del suono a livello internazionale come Roberto Vernetti...

In effetti ad esempio a Vercelli, che è una provincia un po' isolata, per riuscire a sopravvivere mentalmente, spiritualmente, culturalmente finisci per cercare di inventarti le cose, di costruirtele. Cosa che non succede così immediatamente se abiti a Monza e nemmeno a Novara, dove è più facile andare a Milano e basta. Prendi e vai via. Vercelli, come Cuneo per le Langhe, è immersa dentro la pianura di risaia e alla fine tenta di utilizzare la forza esistente, per combinare qualcosa di positivo in ambito musicale o letterario o teatrale. Poi magari la gente se ne va lo stesso, come in fondo ho fatto io. Però, almeno si prova ad essere autonomi.


Che differenze hai riscontrato negli ultimi vent'anni tra Milano e Torino?

Milano sembra una città sempre inossidabile, pur tra alti e bassi: una città comunque vivace, che io personalmente vivo in maniera utilitaristica. Non la amo, anche se ci vivo. Torino invece è una metropoli che negli ultimi anni è cambiata e migliorata, ma è rimasta sempre una grande città del Piemonte, un po' immersa per i fatti suoi, un po' staccata dal resto del mondo, quasi un po' snob, ma di una nobiltà decaduta.


Hai letto I ragazzi del Mucchio, che parla proprio di questo argomento?

Sì, ed è un romanzo che mi ha emozionato, perché in realtà parla di cose che sono "emozioni" e che hanno "emozionato" moltissime persone. Mi ha pure culturalmente interessato perché è un libro che in qualche modo offre una visione storica di certo rock degli anni Ottanta, di quello che prima era soltanto presente nei racconti degli amici, delle persone che sono state ai concerti e che hanno vissuto la musica hard core. Silvio fa entrare tutto questo perlomeno nell'anticamera della storia. Poi probabilmente I ragazzi del Mucchio è anche un libro importante perché reca un messaggio latente che io ho trovato in molte pagine: il messaggio positivo implicito è che si possano realizzare i sogni. I nostri sogni erano quelli di essere musicisti. Sentirselo raccontare da uno che è riuscito a farlo è una cosa che può fare del bene anche agli altri.


 

§ IV. Silvio Bernelli Torna al sommario dell'articolo

III. Luca Ragagnin

Poeta e prosatore, prolifico e personalissimo: Le balbuzie degli oracoli (liriche) e Marmo rosso (racconti) i libri usciti solo nel 2003. Ma anche autore o supervisore dei testi di brani rock per Maoelarivoluzione, Garbo, Monovox, Subsonica. Col rock ci vive, non solo per l'imponente collezione di cd nella mansarda oltre il Po, ma per il fatto che il rock lo insegna pure (cattedra di Scritture creative per la musica ad un Master per l'Università di Milano) e lo assapora quotidianamente, a Torino, dove è nato ed è sempre vissuto.


Cosa ti ha spinto a scrivere testi per gruppi rock? Come e con chi hai iniziato?

L'amicizia, principalmente. Avevo - ancora oggi - molti amici musicisti: io scrivevo poesie, e la musica era la mia altra grande passione, così è stato piuttosto naturale. Ho incominciato a lavorare con Mao, nel 1995.


È così diverso comporre poesie e testi per canzoni rock?

Certo. Li accomuna, tra le poche cose, la costrizione metrica (quando la poesia la richiede), il contenitore (quando la poesia decide di indossarlo). Nient'altro, direi.


Di recente sono stati pubblicati alcuni romanzi di esponenti rock, ossia un'operazione opposta alla tua; come vedi i musicisti che si dedicano alla scrittura?

Non mi interessano gli statuti: se una buona opera letteraria arriva dalla penna di un musicista cosa importa? Questo, per me, vale in qualunque e da qualunque direzione. Forse si può dire che l'industria culturale fa pressioni, e allora può capitare che escano "opere" il cui unico valore è dato dal nome dell'autore, vale a dire dallo statuto. Ma bisogna essere lucidi: l'industria culturale italiana è a pezzi. E ha fretta, come tutti quelli che sono a pezzi. Ma io ho ancora fiducia. Ci sono forze e persone che lavorano fregandosene del tempo, dei tempi.


Alcuni recenti libri parlano della Torino rock anni Ottanta. Tu hai in parte, da ragazzo, vissuto la situazione; ma com'era realmente la situazione rock ? idilliaca? tosta? schifosa? o altro ancora?

La situazione era viva, come oggi, e più difficile di oggi. C'era un'energia negativa, nichilista quasi, che però non era vissuta in questi termini: nichilismo e negatività erano nel dna dei tempi, erano comunque energie, fattività. Si suonava. C'erano molti gruppi, esattamente come oggi. Anche molte cose buone, a mio giudizio, che poi si sono perdute, non sono passate. Ma è rimasto da quella Torino una sorta di deposito filtrato, che ha fatto humus, terra coltivabile per tutto ciò che si è piantato dopo e che ha fruttificato fino a oggi. È importante ricordarlo. Anche perché quell'humus era ai tempi meno visibile, meno pronosticabile di quelli che si erano sparsi a Firenze, o Bologna e Pordenone, una manciata di mesi prima. Una fioritura lunga e invisibile ma, io credo, duratura, come molte delle "faccende torinesi".


Come giudicavi i vari generi (lo ska, il revival, l'heavy metal, il rap) in circolazione? e come li giudichi ora?

Con il beneficio inattaccabile del gusto. Nessuno di quelli che hai nominato (ma c'erano e ci saranno sempre molti tipi di revival) li ho sentiti vicini al mio percorso.


Nella tua personale ricerca quali sono stati i musicisti (solisti o gruppi) che ti hanno maggiormente influenzato? E gli scrittori?

Sono fatto, come tutti, a strati temporali, perciò mi riesce male risponderti. Per fortuna non so ancora a cosa vado incontro, e rimango curioso. Posso però dirti, ad esempio, che i Beatles sono quotidianamente dentro la mia vita ma non per questo entrano nella mia scrittura, mentre, per contro, artisti che magari ho ascoltato intensamente in un solo periodo della mia vita e chissà mai se un giorno torneranno a riempire di suoni la casa in cui vivo, come Bill Evans o Brian Eno o Frank Zappa, saranno in qualche modo sempre aleggianti intorno a ciò che scrivo.


Almeno tre dischi rock e tre romanzi moderni da consigliare ai nipotini dell'hard core punk.

Sempre più difficile. Ma se punk è conoscenza violenta, inappellabile, necessaria (cosa che, per inciso, manca al libro cui ti riferivi sopra), allora mi butto: Sgt.Pepper, Pink Moon (Nick Drake) e Never mind the bollocks per la musica; Ulisse di Joyce, La malora di Fenoglio e la trilogia di Beckett.


 

§ V. Fuori i libri Torna al sommario dell'articolo

IV. Silvio Bernelli

Il romanzo narra autobiograficamente le vicende di Silvio e dei suoi amici, il "Mucchio Selvaggio", tutti (o quasi) musicisti hard core punk nella Torino alternativa tra il 1981 e il 1991. Un romanzo corale in cui le esperienze personali s'intrecciano col desiderio spassionato di fare musica e di "fare gruppo" all'insegna di una trasgressione giovanile che, col passare degli anni, si muterà per tutti (o quasi) in normale quotidianità esistenziale. I ragazzi del Mucchio è un puntiglioso affresco, con decine di personaggi, su una esperienza musicale ignorata dai mass media e dal grosso pubblico, ma in realtà seguita e vissuta, nel suo radicalismo, da un manipolo di fedelissimi in tutta Europa: non a caso le band piemontesi (Declino, Indigesti, Negazione) attorno a cui ruotano le vicende del protagonista, furono effettivamente assai più famose e più apprezzate, rispetto all'Italia, nel resto del vecchio Continente e in molti degli States americani. Il romanzo è anche uno struggente diario a posteriori sulle speranze post-adolescenziali, sui riti dei giovani, sui riti di passaggio che i ragazzi sognatori devono concretamente affrontare per rispondere alle domande di una vita "altra" spesso difficile, contraddittoria, inaspettata. È dunque un "romanzo di formazione", ma anche una "memoria storica" di un movimento (l'hard core punk) da rivalutare criticamente.


Cosa ti ha spinto a scrivere una sorta di autobiografia dell'hard core punk?

La sensibilità, lo sguardo dello scrittore mi hanno portato a raccontare una storia vera, la mia, perché aveva tutti i connotati di una storia "da romanzo". Il fatto che si parli di hard core, da questo punto di vista, è incidentale.


Nelle intenzioni e poi nella prassi c'è più romanzo o più storia del rock ne I ragazzi del Mucchio?

Certamente più romanzo, anche se tutte le cose e i fatti raccontati nel libro sono veri: ciò che conta di più per me è lo sguardo, la voce, con cui le cose e i fatti sono raccontati.


C'è qualcosa che non hai voluto o potuto dire nel libro?

I ragazzi del Mucchio racconta storie vere di persone vere, di gruppi e musicisti chiamati con il loro nome; la realizzazione del libro non poteva non tenere conto di questa realtà; in definitiva comunque, tutte le scelte le ho fatte in totale autonomia e per ragioni assolutamente personali.


Sembra che tu oggi provi quasi le sensazioni che provavi allora, e questo è molto bello come scrittura e narrativa. Ma com'era realmente la situazione torinese?

Bella domanda. Non so più com'era la situazione all'epoca. Nel libro l'ho reinventata attraverso la letteratura e la memoria, quindi direi che per me conta la narrazione; è quello che ho cercato di spiegare scegliendo l'esergo che apre il libro, «nel west, quando la leggenda incontra la realtà, vince la leggenda», da L'uomo che uccise Liberty Valance, un magnifico film di John Ford degli anni Sessanta.


Come giudicavi allora gli "avversari", cioè quelli che a Torino facevano altri generi (lo ska degli Statuto per esempio)? e come li giudichi ora?

Ho sempre ascoltato di tutto, e se un gruppo era davvero buono mi piaceva. Ciò che comunque faceva la differenza tra i gruppi hard core e tutti gli altri era l'attitudine, l'energia, la voglia di affermare una visione del mondo di cui la musica era solo una parte. Ciò che mi sembrava più interessante all'epoca, e che mi sembra interessante ancora oggi, è che i gruppi hard core italiani avevano inventato una "scuola", famosa in tutto il mondo, mentre in genere i gruppi che suonavano altro erano spesso degli epigoni, di solito un po' finti, di gruppi tipicamente "esteri". Oggi li giudico con gli stessi metri di giudizio che usavo allora: talento, sincerità, tecnica.


Nella tua personale ricerca quali sono stati i musicisti (solisti o gruppi) che ti hanno maggiormente influenzato? E gli scrittori?

Lasciando perdere i gruppi, che sarebbero troppi, mi limiterei ai musicisti che mi sono sempre piaciuti. Citerei Jaco Pastorius, soprattutto quello più accessibile, quello di Coyote di Joni Mitchell, ad esempio. Per rimanere sul fronte del basso, metterei anche Tony Levin: la sua pulizia, il suo stile (anche con lo stick) mi sono sempre piaciuti. In chiusura metterei Robert Fripp: nel mio piccolo ho sempre cercato di seguire il suo approccio allo strumento, la sua disciplina. Per quanto riguarda gli scrittori, amo l'eleganza di Henry James, l'epica di un certo Conrad, quello di Tifone o I duellanti ad esempio, ma anche un genere come l'autobiografia o la biografia, e in generale tutte le storie vere che vengono raccontate in modo avvincente, come Aria sottile di Jon Krakauer, o Broadway di Nick Cohn.


Almeno tre dischi rock e tre romanzi moderni da consigliare ai nipotini punk (ai giovani d'oggi).

Dischi: Rock for light dei Bad Brains, Black light dei Calexico, Solitary man di Johnny Cash; romanzi: Il carteggio Aspern di Henry James, Strade blu di William Least Heat Moon, Cavalli selvaggi di Cormac Mc Carthy.


 

§ VI. Fuori le Rock Band Torna al sommario dell'articolo

V. Fuori i libri

- Silvio Bernelli, I ragazzi del Mucchio, Sironi Editore.
«Il tempo sa essere un gran bastardo. Lascia scolorire i ricordi fino a farli sembrare fatti mai accaduti. Così, di un gruppo di persone che anni fa aveva quasi sfondato nel mondo della musica oggi rimane ben poco. Forse anche per colpa di quel "quasi"» (dall'Introduzione).

- Giovanni Straniero, Mauro Barletta, La rivolta in musica. Michele L. Straniero e il cantacronache nella storia della musica italiana, Edizioni Lindau.
Musicologo e folksinger, storico e giornalista, nella difficile Torino di fine anni Cinquanta, è stato l'antesignano della canzone di protesta italiana: lo riconoscono tutti - la Marini, Pietrangeli, Jannacci, Guccini, Bertoli, Lolli, Finardi, la De Sio, Morino e Zulu Persico - non a caso intervistati nella parte finale di un libro che ha il merito di ricostruire una vicenda personale e collettiva di grande rigore morale.

- Davide Boosta Dileo, Dianablu, Mescal Libri.
DJ e produttore, ma soprattutto tastierista dei Subsonica, debutta come narratore con un libro di otto racconti scritti durante il penultimo tour del gruppo ed in contemporanea alla stesura di una sceneggiatura cinematografica: ed in effetti anche il ritmo di questi racconti pende sul versante filmico, pur tra qualche ingenuità tipica dell'esordio, tra simbolismo e pulp fiction.

- Marco Mathieu, In viaggio con Manu Chao. Giramundo Sound System, Feltrinelli.
L'ex bassista dei Negazione, altra decisiva hard core band torinese, oggi affermato giornalista, ha redatto una sorta di diario al seguito del nuovo gruppo di Manu Chao, chiamato Radio Bemba; dalla primavera 2001 all'autunno 2002 Mathieu dietro le quinte ha annotato la vita e l'arte di un personaggio unico nel panorama world music: e un po' dello spirito internazionalista dei Negazione è forse rimasto in questo trovarsi d'accordo con Manu Chao sull'essere cittadini del mondo.

- Massimo Carabetta, Motor City Blues, Viva srl.
Esce postumo il libro di Massimo Carabetta (1949-2002), personaggio singolare della Torino alternativa degli anni Ottanta e Novanta: critico musicale, regista di spettacoli musicali e drammaturgici, animatore di emittenti libere, speaker radiofonico a sostegno del blues e del jazz, su cui possedeva una conoscenza straordinaria: era intento a scrivere un volume sull'afrobop a Cuba, dove lavorava spesso come volontario nel sociale. Motor City Blues è un romanzo, un po' beat generation un po' "viej Turìn", in cui Carabetta sintetizza metaforicamente la grande passione per il sound afroamericano.

- Oskar Giammarinaro con Francesca Alessio, Il migliore dei mondi possibili. Storie di mods e degli Statuto, Edizioni S.C.
Una vicenda diversa, ma in fondo complementare a quella dei punk torinesi di inizio anni Ottanta: il sestetto degli Statuto, tramite il proprio vocalist, si autoracconta all'interno di un ventennio di alti e bassi: due date simboliche: 2 agosto 1982 Oskar diventa un mod e 21 maggio 1999 gli Statuto suonano a Londra al Mods May Day. Con una singolare appendice: il trionfo a Cuba tra concerti e Tv di Stato nell'anno 1998.

 

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VI. Fuori le Rock Band

A Torino, negli anni Ottanta, non c'erano solo Declino, Negazione, Indigesti, Statuto, di cui parlano i nuovi libri: la scena delle giovani rock band, perlomeno quella documentata da produzione discografica, era composita e multiforme sotto il profilo artistico, con propaggini assai creative in tutta l'arte piemontese.
Vicini al discorso del garage punk operavano i Sonix, gli Stolen Cars e i No Fuzz, mentre più inclini all'hard core inglese vanno ritenuti i Peggio Punk e i Contrazione, i quali condivisero il primo album con i Franti, gruppo di sintesi (Lalli alla voce) originalissimo per gli inserti via via rock, punk, blues, jazz, folk, avantgarde.
In ambito postpunk suonavano invece i Deafear e i Luna Incostante, mentre sul genere heavy metal pestavano duro Brokenglass, Elektradrive, Gore, Fil Di Ferro.
Ma la Torino degli anni Ottanta, vista dall'esterno, è più famosa musicalmente per il rock demenziale con i Figli di Guttuso, gli Ufo Piemontesi, Tony e i Volumi, Persiana Jones e Le Tapparelle Maledette, nonché per una scuola giamaicana che passa attraverso i Fratelli di Soledad e gli Africa Unite ancor oggi attivissimi.
Fondamentale altresì il contributo della neopsichedelia con i No Strange, i Sick Rose, Gli Avvoltoi, i Groovers, i Knot Toulouse, gli Effervescent Elephant. Non mancano nemmeno i contributi rap con Aeroplani Italiani, hip-hop con la To.sse, rockabilly con i Khan Chy's Yawn, neoprogressive con il Castello di Atlante, tex-mex con Carl Lee & the Rhythm Rebels, rock-blues con le Funky Lips (quintetto al femminile), pop d'autore con i Venavil e gli Armando Blu, etno-rock con i Loschi Dezi futuri Mau Mau.

 

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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2004-2005

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Giugno-dicembre 2004, n. 1-2