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«Ágalma». Rivista di studi culturali e di estetica n. 23 (aprile 2012) Scrittori o scriventi?, Milano, Mimesis, pp. 130, € 14,00
di Caterina Di Rienzo

Il nucleo tematico che dà il titolo al numero 23 di Ágalma nasce dalla riattualizzazione di un testo che Roland Barthes compose nel 1960, Scrittori e scriventi, una sorta di micrologia critica sull'«istituzione letteraria» (francese) che, attraverso l'analisi dei due termini, tenta di avviare una «sociologia della parola», di riflettere sulla funzione della scrittura nel sistema collettivo, sulle forme di libertà e di potere proprie ai «detentori» della lingua o, per dirla con Bourdieu, del «capitale» del discorso.
Muovendo dal dato che scrittore e scrivente siano due categorie storicamente collocate - la prima, imperante dal XVI al XIX secolo, e la seconda, apparsa dalla fine del XVIII secolo - Barthes ne traccia un'anatomia teorica, fino a declinare la questione in una nuova tipologia comparata: lo «scrittore-scrivente». L'analitica su cui fonda questa sintesi è la seguente. Scrittore è un sostantivo in cui scrivere non è azione transitiva, ma gesto, lavoro immanente alla struttura della parola, rigidamente segnato da regole compositive, senza altro fine che la parola stessa. Lo scrittore è un uomo che vive in un'ontologia del linguaggio, il suo essere si confonde con quello della lettera, non perché egli sia mera idealità - anzi detiene il monopolio di un'istituzione riconosciuta, la letteratura - quanto perché la sua è una funzione che non parla di qualcosa, che non scrive su qualcosa, ma esprime la pura forma letteraria, digerita dalla società come materia sacra, distanziabile se necessario. Per effetto di un paradosso semiologico, tuttavia, sulla soglia della tautologia, lo scrittore arriva, pur se indirettamente, a una mediazione col reale, a un'epistemologia della domanda sulle cose, che però non si fa dottrina o chiarificazione del mondo ma inaugurazione della sua ambiguità. Al contrario, lo scrivente, assimilato all'intellettuale, appartiene alla famiglia dei verbi transitivi, esempio di una parola chiarificatrice e engagée. Egli vive di un vitalismo del pensiero che mira a trasmettere materia concettuale mediante il veicolo della lingua. Lo statuto sociale del suo prodotto culturale non è facilmente acquisito/acquistato dalla collettività, forse perché privo della genealogia illustre del logos. Ma, alla resa dei conti, il rischio di uno «scandalo» della parola, nell'uno come nell'altro caso, finisce per essere ugualmente normalizzato e riassorbito dalla società nel suo insieme.
Il ragionamento sbocca infine sul nuovo detentore della lingua, lo «scrittore-scrivente», cifra della fragilità storica osservata da Barthes in cui la separazione delle identità non tiene più, producendo un «tipo bastardo». Nuova frontiera antropologica, dove la parola, ormai radicata nel milieu dell'intellighentia, rivela ancora un paradosso tra istituzione e libertà: presa in cura dallo scrittore, alimenta l'illusione dello scrivente di una pura significazione concettuale, senza commistione col linguaggio. Un meccanismo discorsivo che ha un suo «rito» sociale complementare nell'atteggiamento ambiguo con cui la società esclude e reintegra, riconosce e distanzia questa nuova figura.
L'editoriale di Mario Perniola, direttore di Ágalma, riformula questo quadro epocale in un interrogativo che assume l'evolversi/involversi della scrittura nella parola digitale: Tutti scriventi, nessuno scrittore? Prevalente sembra lo scrivente, non più intellettuale che scrive per scuotere l'apatia della società, ma prassi scritturale mediata dalla rete, dove scrivente, potremmo dire, è spesso riduzione al solo participio presente del verbo scrivere. Da Barthes a Perniola, si entra dunque in una nuova sociologia della parola? Sicuramente, si dà una interessante ricollocazione dell'asse problematico, dove la domanda dello scrittore, Scrivere, scrivere perché?, si duplica, potremmo dire, in una domanda sul destinatario, Scrivere, scrivere per chi? Una questione amplificata dal web nella opposizione per tutti/per nessuno e che se da un punto di vista teorico rimanda all'alternativa tra ricezione e autonomia dell'opera, da un punto di vista comunicativo, chiama in causa la figura mediana, tra autore e lettore, dell'editore cui, secondo Perniola, occorre relazionarsi per far fronte agli snodi critici concernenti la diffusione della produzione culturale.
Le interpretazioni offerte dai contributi tematici propongono modelli di scrittura che attraversano il discorso barthesiano, lì dove l'ordine schematico delle categorie - scrittore e scrivente - si rompe nell'ipotesi storica di funzioni incrociate del linguaggio, questa volta non in direzione di una nuova fisionomia del soggetto scrittore (interessante al riguardo sarebbe considerare la prospettiva di Barthes ne La morte dell'autore), ma potremmo dire di un nuova semiologia dell'oggetto scrittura, aperto dall'interno a istanze extralinguistiche.
Ecco in breve un quadro dei nuclei affrontati.
La chose lacaniana è il centro teorico da cui Paolo Bartoloni ripensa la scrittura di Italo Svevo ne La coscienza di Zeno, come un paradigma di forze conflittuali e irrisolte tra la lingua che comunica e la lingua che eccede la capacità rappresentativa del segno scritto. Fisico e meta-fisico, corpo e meta-corpo, il linguaggio-choseFormíggini è il percorso incompiuto della coscienza e della conoscenza nell'inconscio dell'opera e nell'opera dell'inconscio.
Lo «sradicamento» dell'uomo moderno e la solitudine dello «straniero» metaforizzano la condizione umana, in quanto desertificazione della possibile esperienza di sé e del mondo. Luigi Manfreda presenta due casi esemplari di scrittura novecentesca - Simone Weil e Georg Trakl - dove l'improprio, cioè lo smarrimento del soggetto, non è soltanto assunto dalla parola, ma è la parola stessa che si fa rivelazione di ciò che non è soggettivo.
Il rito all'origine della poesia, quale archetipo di una parola che si parla nel poeta e insieme proviene dal mistero stesso della sua incarnazione, è la chiave dell'opera di Cristina Campo, secondo Aldo Marroni che ne interpreta la scrittura come un percorso di «morte-rigenerazione», tensione alla perfezione e, in pari tempo, ritorno al suo passato originario.
Il silenzio, come significazione primaria capace di dare presenza a qualcosa solo producendone contemporaneamente l'assenza, è il modello di scrittura proposto da Andrea Gareffi.
Anselm Jappe considera il nesso parola-etica, parola-politica. È il caso di Céline, e del suo genio letterario, a fare da modello ideologico per una parola che si autonomizza dalle cose in vista di una seducente e violenta rapsodia di lettere, simile a una dittatura che si propaganda in «video».
Una "storia degli effetti" del mito di Orfeo, riscritture e reinterpretazioni dell'icona del poeta intransitivo che fa vedere il mistero delle cose. È la linea storiografica attraverso cui Simona Cigliana arriva a una lettura della crisi della parola poetica rilanciando, da Barthes e oltre Barthes, la vigilanza critica del linguaggio, la sua funzione militante di interprete non del segreto della condizione umana, ma del senso dell'esperienza letteraria.
La danza priva di logos è metafora di una poesia nuova in Stéphane Mallarmé e di una poetica delle azioni umane in Paul Valéry. È il nucleo del testo di Caterina Di Rienzo che giunge all'ipotesi di un linguaggio della danza prossimo alle categorie di una scrittura pura, di una scrittura senza soggetto.
Da ultimo, ma non per ultimo, la rivista comprende una sezione di scritti non tematici che in questo numero ospita i notevoli saggi di Francesco Marroni, L'ultima Soglia: Thomas Hardy e il volto del tempo; di Fabrizio Scrivano, La morte è finita! Strategie letterarie per eludere la fine dei corpi e di Pedro Sargento, Le sospensioni di un movimento. Che fine ha fatto il Futurismo? Le interessanti recensioni che concludono il numero sono di: Silvia Antosa a L'arte dei simulacri di Aldo Marroni; di Francesca Fazio Melisi a La distanza del cielo. Leopardi e lo spazio dell'ispirazione di Alessandro Carrera; di Enea Bianchi a Sette lezioni di vita: sopravvivere alla crisi di Jacques Attali; di Milosh Fascetti a La misura italiana dell'architettura di Franco Purini.

Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2012
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Giugno-dicembre 2012, n. 1-2
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