Elena Gurrieri
Il viaggio della conoscenza secondo Claudio Magris: a proposito dell'«Infinito viaggiare» (2005)

 

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Nella Prefazione al più recente volume di Claudio Magris, L'infinito viaggiare,1 si avverte il respiro di un'esposizione di grande pregnanza, elaborata allo scopo di far capire al pubblico dei lettori come sia strutturato, con quali caratteri tematici e come sia modulato nel gusto ovvero nello stile personale, l'universo interiore e letterario, come pure il coté civile ed umano del grande scrittore triestino. Nella Prefazione infatti, suddivisa in undici brevi, ma assai densi paragrafi, è possibile reperire alcune chiavi di lettura imprescindibili, che serviranno al lettore attento da sicuro viatico durante la lettura del libro e gli saranno altresì di indispensabile ausilio per poter fin da subito stabilire un nitido piano di ascolto, quella necessaria sintonia fra lettura e testo che si richiede per la comprensione davvero profonda di ogni libro.
Vi è senz'altro un'analogia naturale tra la letteratura intesa come avventura della scrittura ed il viaggio stesso. E ancora, viaggiare vuol dire di per sé compiere un attraversamento delle cose che si trovano sul nostro cammino. Descrivere o meglio esprimere questo attraversamento della realtà, che fa sì che possiamo meglio conoscerla, contemporaneamente assolve anche alla funzione di far meglio conoscere chi siamo noi a noi stessi ed agli altri. Attraverso cioè l'esperienza del confronto con persone e luoghi e quindi con tradizioni storiche e culturali di altri paesi, viene naturale comunicare il nostro sentire, ciò che pensiamo, restituire insomma un feedback da cui cogliere meglio il nostro punto di vista e la nostra provenienza non solo geografica, fondamentalmente la nostra visione del mondo. Ed è proprio quello che accade a Claudio Magris in queste sue attente note di viaggio, stese in occasione dei suoi soggiorni in Spagna, in Germania, in Scandinavia, nella Mitteleuropa e nell'Europa dell'Est, in Cina, in Iran, in Vietnam e infine in Australia, dal 1981 al 2004.
Leggendo L'infinito viaggiare ho percepito quale particolare tipo di senso viene attribuito all'esperienza del viaggio magrisiano. Tale senso pare essere fondato per lo scrittore triestino sulla possibilità di dare, grazie all'avventura non solo intellettuale ma personale, intimamente assimilata del viaggio, un valore aggiunto di conoscenza alla propria consapevolezza maturata nel tempo per via di letture, libri e studi. Ed in effetti, secondo quanto suggerisce l'autore stesso, sentire mettendo in gioco le proprie intime emozioni e toccare con mano, nel presente, lo stato delle cose nell'attualità concreta di una città o di un intero Paese, tramite gli incontri con persone le cui vicende, da loro stessi o da altri narrate, accendono di un significato vivo e del tutto nuovo l'interesse che di per sé un luogo lontano può suscitare in chi lo visita, costituisce il vero scopo del viaggio e della sua moralità, e in fondo di questo stesso libro.
Ancora una volta, dunque, la conoscenza dei luoghi esperita incontrando le persone viene in primo piano; alla fine entriamo in contatto con ciò che siamo realmente, evitando di assumere anzitutto il ruolo egocentrico o narcisista dell'algido osservatore distaccato, che tutto vuol vedere, ma restando prudentemente legato ad uno sguardo che vede il mondo da fuori.
Così cogliamo Claudio Magris preso da un'intensa sensazione di «limite ultimo» quando raggiunge la Terra del Fuoco, oppure lo vediamo colpito dall'espressione di un volto che comunica un vero e irripetibile sentire, mentre il suo occhio sensibilissimo illumina il racconto dei contatti con i luoghi visitati e tutti più o meno ricchi di suggestioni letterarie ed umane, con la memoria personale degli affetti familiari. Lo scrittore ringrazia apertamente i suoi due figli Francesco e Paolo e dedica il libro alla moglie che non è più, la scrittrice Marisa Madieri (Fiume, 1938 - Trieste, 1996), autrice di importanti opere narrative quali La radura e Verde acqua, protagonista e testimone lei stessa, in Wassergrun, dell'esodo forzato da Fiume, in Istria, di trecentomila italiani alla fine della seconda guerra mondiale.
Tra le tante metafore che Claudio Magris segnala perché possiamo meglio comprendere il senso del suo viaggio, ancor più forse di quella del «trasloco» che segna secondo una dinamica vistosa ma in fondo abbastanza evidente tutta la letteratura moderna, prevale la metafora simbolica del viaggio come avventuroso approdo, utile a scandire il paesaggio dell'anima magrisiana nonché la sua propria, individuale Odissea. Nell'Odissea si narra infatti la storia del ritorno di Ulisse in patria, ad Itaca, dopo essere sopravvissuto a tutte le peregrinazioni successive alla guerra di Troia. Nessun mito antico pare rispecchiare come quello di Odisseo-Nessuno, in effetti, la perenne avventura dell'uomo diviso ancor oggi tra sete di conoscenza e inseguimento di sempre nuove mete da un lato, e bisogno, dall'altro, di ritrovare le proprie radici in un processo di assestamento sulle origini, a partire dal proprio background biografico.
C'è, tra coloro che più abbiamo amato e conosciuto a fondo, chi non è più tra noi poiché ha compiuto l'ultimo viaggio. Queste persone sono i «già arrivati», a cui Magris dedica con grande affetto il libro: non a caso sempre nella Prefazione uno dei temi-chiave che l'autore indica è il rapporto fra il viaggio e la morte (I viaggi, la morte di Carlo Emilio Gadda). Ai «già arrivati» Claudio Magris dedica la sua ultima fatica letteraria, che raccoglie ventitré anni di viaggi come percorsi di conoscenza, persuaso come noi - credo - che resta da fare la parte del viaggio destinata ad essere per tutti, oltre ogni iter dell'esperienza umana e terrena, il ritorno là dove ogni geografia fisica e dell'anima coinciderà con l'energia spirituale della luce che abita l'infinito.

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Vorremmo a questo punto offrire al lettore un indice analitico ovvero ragionato dei trentanove brani dell'Infinito viaggiare, in modo da poter saggiare tutti i singoli argomenti accolti nel libro.
Sulla strada di don Chisciotte (2001), p. 1: da Tielmes, alle porte di Madrid, l'itinerario procede verso la Mancia per ripercorrere il cammino del Cavaliere dalla Triste Figura. Marionette a Madrid (1989), p. 8: a «lezione di malinconia» nel Parco del Retiro, dinanzi al teatrino di tre marionette che si esibiscono come trio per flauto, violino e pianoforte in una sonata settecentesca.Il bibliofago (1996), p. 13: alla Biblioteca Nazionale di Spagna, a Madrid, una storia davvero insolita che parla di un uomo nascostosi «tra i libri abbandonati nelle sale pericolanti, [...] per alcuni mesi» ai tempi della guerra civile spagnola. Al mentitoio (1998), p. 15: sempre a Madrid, una targa ricorda il Mentidero de representantes, in calle Léon, un luogo frequentato nell'Ottocento da commercianti, intellettuali, scrittori, giornalisti, politicanti e imprenditori per discutere di politica e arte, per combinare affari, ma anche per progettare riviste di letteratura. Un padre, un figlio (1996), p. 18: nella sala del monastero di Pedralbes, a Barcellona, l'autore rimane affascinato nell'osservare l'atteggiamento di amorosa guida di un uomo sulla settantina verso il figlio affetto dalla sindrome di Down, mentre insieme visitano la collezione Thyssen-Bornemisza, con quadri del Beato Angelico, di Tiziano e di Vel´zquez. Spoon River in Cantabria (1989), p. 20: come per le biografie rapide ed essenziali della Beata Coorte di santi, così l'autore coglie una medesima similitudine con la raccolta poetica di Spoon River in un libro capitatogli tra le mani per caso, una galleria di figure popolari spagnole vissute a Santander. Il primo volo di don Serafin (1990), p. 25: un anziano contadino di Las Palmas a Gran Canaria prende per la prima volta l'aereo e va a «Tenerife, l'isola vicina, per incontrare un paio di amici e vederli per l'ultima volta» dopo aver saputo che un male incurabile lo porterà presto a prendere congedo dalla vita. A Londra, sui banchi di scuola (1988), p. 31: l'autore frequenta un corso intensivo di lingua inglese. Le Isole Fortunate, (1989), p. 38: l'arcipelago delle Scilly, più di trecento isole nell'Oceano Atlantico, ventisei miglia a ovest dalla fine della Cornovaglia. La via prussiana alla pace (1981), p. 45: illustra l'utopia dello scrittore tedesco Günter Grass che afferma, in un dibattito a Berlino, la necessità di istituire una Fondazione Culturale comune alle due Germanie, per l'unità spirituale dei tedeschi oltre ogni unificazione politica. La vecchia Prussia dà spettacolo (1981), p. 49: carrellata sulle trenta mostre allestite a Berlino per far rivivere la molteplicità contraddittoria e tuttavia vitale della tradizione storica prussiana. Il Muro (1987), p. 56: ante la caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989, alcune riflessioni durante le celebrazioni del 750° anno di storia della città di Berlino. Sulla tomba di Lotte (1989), p. 62: ad Hannover, sulla tomba della donna che ha ispirato il personaggio femminile del Werther di Goethe. A Freiburgh la festa dell'unità tedesca è lontana (1990), p. 63: il 3 ottobre 1990, le celebrazioni quasi in sordina dell'unificazione tedesca nella provincia «tranquilla e inappariscente» della Germania. Il bosco che muore (1986), p. 67: nella Selva Nera il deterioramento del paesaggio «in terra di poeti e di filosofi». I castelli in aria di Ludwig (1986), p. 73: la ricorrenza del centenario della morte avvenuta il 13 giugno 1886 del re Ludwig Wittelsbach di Baviera [è memorabile il sontuoso film a lui dedicato a metà degli anni Settanta da Luchino Visconti], l'«architetto di sogni come castelli in aria», fatti davvero costruire durante il suo regno e caratterizzati da gusto kitsch e megalomane. Fra i sorbi di Lusazia (1994), p. 85: a partire da Dresda l'incontro, in Alta e Bassa Lusazia, con i sorbi, popolazione del gruppo slavo occidentale. Anonimo viennese (1998), p. 96: un anonimo fotografo, ma probabilmente un'allieva del germanista triestino rimasta in incognito, a Vienna, ritrae in aspetto insolito, che fa pensare a una misteriosa missione segreta, Magris insieme all'amico Alberto Cavallari. Il tavolo di Schoenberg (1989), p. 101: dal modo di lavorare si capisce la personalità di Arnold Schoenberg, il grande artista innovatore della musica del Novecento che si rivela essere, in buona sostanza, un uomo capace di calda umanità. Il ballo del rabbino (1982), p. 107: a Città del Messico, il ballo scatenato di un rabbino durante una gioiosa festa di matrimonio, suggerisce allo spettatore la presenza di un'invincibile forza e vitalità, insita nel carattere del popolo ebraico. Automi musicali a Zagabria (1987), p. 114: uno strano personaggio inattuale, il conte Ivan, e la sua collezione di strumenti musicali automatici, a Zagabria. Primavera istriana (1990), p. 120: ricorda l'esodo di massa (circa trecentomila persone) degli italiani dall'Istria, cioè da Fiume e dalla Dalmazia, fra il '44 e il '54. Dal 1987 è quindi sorta la «primavera istriana», rappresentata soprattutto dal Gruppo '88. Cici e ciribiri (1995), p. 126: sulle minoranze istriana (cici) e istroromena (ciribiri) della Valdarsa; si delinea un'identità in cui coesistono il legame con l'Italia e l'appartenenza alla Croazia. In Bisiacaria (1997), p. 134: dal nome «bisiaco» («bisiàc» dialettale) che significa esule, fuggiasco, deriva il bisiaco inteso come lingua o più precisamente come dialetto, che viene parlato lungo la costa dell'Adriatico da quasi sessantamila persone. Il viaggio in Bisiacaria diventa così un esercizio di percezione, alla ricerca delle sfumature più suggestive offerte dal paesaggio, come pure l'occasione di stendere un diario degli incontri avuti con alcuni poeti dialettali bisiaci. Un trattino fatale (1990), p. 144: durante un viaggio a Bratislava l'autore prende spunto dall'importanza politica e culturale che può rivestire la presenza del trattino o meno, nella dicitura di Repubblica Cecoslovacca - Ceco-Slovacchia oppure Repubblica Ceca e Slovacca? - per fotografare la situazione politica del Paese. Sul Ponte Carlo (1990), p. 150: a Praga, sul Ponte Carlo, l'autore osserva girare una scena del film Kafka di Steven Soderbergh dove, nell'atmosfera magica di un tempo stratificato che ricorda a tratti gli anni Cinquanta «nella loro atmosfera fervida e povera», si possono vedere ancora dal vivo lo spazzacamino che va al lavoro, i teatrini ambulanti, musicisti di strada e pittori estemporanei, ma anche inquietanti facce di "pescecani" ex funzionari di partito, arricchitisi illecitamente, e pronti ora a diventare i «nuovi capitalisti». Il Paese senza nome (1993), p. 157: in seguito alla separazione dalla Slovacchia, Praga è divenuta capitale della Repubblica Céca a cui manca però ancora la dicitura «da scrivere sulle carte geografiche e da usare nel linguaggio quotidiano»; ma «questa reticenza e questa inesprimibilità si addicono in fondo da sempre alla Mitteleuropea». L'autore poi, durante una serata letteraria su Danubio, incontra Edward Goldstucker, il grande studioso di Kafka perseguitato dal fascismo e senza ragionevole motivo dal regime staliniano, infine esule dopo la repressione sovietica del '68. La tragedia e l'incubo (1981), p. 163: all'Università di Varsavia e Cracovia in Polonia, l'autore partecipa a un convegno sulla letteratura austriaca mentre fuori, per strada, si agita una tragica tensione politica, economica e sociale; scopre così che nel popolo resta, in verità miracolosamente più forte di ogni difficoltà contingente, il coraggio dell'«amore per la consuetudine e per l'armonia di ogni giorno». Si confronta anche questa sana vitalità, che si misura costruttivamente con i drammi umani, con la vita spesso drogata, in Occidente, da un «impotente infantilismo, che produce fallimenti pubblici e privati». Polonia che volta pagina (1989), p. 168: alcune considerazioni di un intellettuale sensibile alla difesa dell'indipendenza, ma non dei particolarismi etnici, che guarda alla Polonia come ad un paese simbolo della possibile rinascita, dopo il fallimento delle egemonie tedesca e sovietica, dell'Europa Centrale vista come civiltà in qualche misura unitaria pur nell'oggettiva differenziazione. Sul pianerottolo di Raskol'nikov, (1988), p. 174: in visita a Leningrado, alla casa di Dostoevskij che trasmette buone sensazioni dal profondo di un vissuto fatto di cose normali e di sane abitudini. Il fischietto di betulla (1990), p. 179: il gesto di un piccolo ma assai gradito dono all'autore, fatto per mano di un anziano contadino finlandese: un fischietto intarsiato in legno di betulla, offertogli alla fine di un'accesa discussione sull'autonomia o piuttosto sulla preferibile integrazione europea di questa parte dell'Europa dell'Est che non è danubiana, ma russo-baltico-scandinava. Un ippopotamo a Lund (1990), p. 182: a Lund, in Svezia, nel museo di storia culturale, fa visita «in una stanza poco appariscente» ad «un dimesso e incantevole mondo di giocattoli semplicemente raccolti insieme», al fine di testimoniare «cent'anni d'infanzia» dalla seconda metà dell'Ottocento all'incirca fino al 1950. «L'ippopotamo di stoffa del museo di Lund vale l'asino che il principe Myskin, l'idiota di Dostoevskij, vede brucare sul prato svizzero e non riesce più a dimenticare» (p. 185). Il cimitero nella Foresta, (1998), p. 188: sosta al Cimitero nella Foresta di Stoccolma, in uno scenario ben diverso da quello italiano. Qui, nel bosco che delinea un'ambientazione accogliente tanto per i defunti quanto per i vivi che vi si recano in visita, l'autore riflette sui valori imperituri e su quelli più banalmente, ma inevitabilmente caduchi, della vita e della morte. Sul fiordo (1991), p. 192: il paesaggio dei fiordi, in Norvegia, è caratterizzato dai colori dell'acqua d'alto mare che sfumano in «gradazioni e trapassi di grigio, verde, blu, avorio, piombo, argento, accanto alle strisce di luce bianca e abbagliante che ogni tanto tagliano l'acqua come sciabole, l'oro bruno di un riverbero che si inabissa in un minimo vortice...»; tutto ciò, insieme alla luce e alla trasparenza dell'aria, produce una grande intensità percettiva sul visitatore al cui sguardo attento gli spazi perlopiù vuoti «diventano spesso, nella letteratura norvegese, paesaggi dell'anima, dei suoi silenzi e delle sue risonanze», che sono poi quelle «di un'aspra e intensa passione». Parrocchia del Nord (1995), p. 196: a Nesset, sulla costa occidentale norvegese, l'autore visita la casa parrocchiale del pastore Peder Bjornson, padre dello scrittore scandinavo, futuro premio Nobel, Bjornstierne Bjornson la cui opera letteraria rimane inevitabilmente segnata dall'ambiente puritano del suo background paterno. L'acqua e il deserto (2004), p. 202: un viaggio in Iran è l'occasione per tracciare alcune riflessioni sulla guerra in Iraq e sui rapporti di ordine socio-politico tra Iran, Iraq e Stati Uniti e più in generale tra mondo islamico e mondo occidentale. L'analisi procede nei modi consueti, con vivace e attenta curiosità intellettuale, alla ricerca delle numerose contraddizioni sociali e religiose da cui la storia iraniana del secondo Novecento è sottilmente permeata, dal governo imperiale dello Scià di Persia attraverso il regime khomeinista, sino alla recente (e certo più virtuosa) situazione di governo del presidente della repubblica Khatami. La Cina è vicina? (2003), p. 218: in visita all'Università di Xi'an e poi di Pechino, per discutere la traduzione cinese dei suoi Microcosmi, l'autore rimane assai positivamente colpito dalla presenza di studenti cinesi che dimostrano con domande centrate, competenti e acute, di essere tanto preparati nella conoscenza della lingua italiana, quanto appassionati nello studio della nostra letteratura moderna e contemporanea. Ciò contribuisce a creare di fatto un clima di familiarità e di affinità umana e culturale con una civiltà così lontana e diversa per molti aspetti, come accadeva al poeta di Grado Biagio Marin, che del suo traduttore Lu Tongliu, oggi docente di grande vivacità intellettuale e presidente degli italianisti cinesi, ebbe a dire a Magris poco prima di morire, nell'estate del 1984: «quel lontano cinese non mi è estraneo, contiene la mia stessa umanità». Le frontiere del Vietnam (2003), p. 227: l'autore viene informato di essere il primo scrittore italiano giunto in Vietnam dopo la fine della guerra: all'Università, docenti e studenti di un corso d'italiano istituito da un anno soltanto, accolgono l'ospite con una festosa cerimonia di benvenuto che ricorda ormai tempi remoti. Il corpo docente è composto perlopiù da donne, le quali conoscono bene l'università italiana e sanno perciò suscitare un vivo entusiasmo per l'Italia anche tra i loro allievi. La prima versione vietnamita della Divina Commedia dantesca è uscita (incompleta) nel 1979 in diecimila copie, tante davvero per un Paese fiaccato dalla guerra. L'autore si accorge della gradevole sensazione di trovarsi in un luogo e tra persone con cui non è affatto difficile familiarizzare ed è perfino possibile raggiungere una certa intensità di dialogo letterario. Al momento di descrivere il paesaggio vietnamita Magris si concentra sul colore dell'elemento che da sempre sente come a sé più congeniale, l'acqua: è verde-giada denso, ma non torbido. Siamo del resto al tropico ed è del tutto naturale in questi lontani luoghi «affondare in strati profondi del reale, in un limo vitale, dolce» e fangoso che richiama alla mente, ben più che il Vietnam attuale, le atmosfere dei romanzi di Marguerite Duras. È giunto il momento di tornare a casa e non sembra affatto aver pesato il lungo viaggio: «ci si stanca invece a casa, nella propria città e nel proprio mondo, stritolati da assilli e doveri, trafitti da mille frecce quotidiane banalmente velenose, oppressi dagli idoli della propria tribù», «inoltre... il viaggio, anche il più appassionato, è sempre pausa, fuga, irresponsabilità, riposo da ogni vero rischio» (p. 235). Il grande Sud (1998), p. 237: ultima tappa del viaggio magrisiano è Sydney in Australia; qui l'autore partecipa al Festival degli scrittori e per la prima volta avverte un senso di lontananza, quasi di straniamento e forse la nostalgia di casa.

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La caratura del modulo espressivo su cui la scrittura letteraria fa perno nell'Infinito viaggiare ha avuto dall'autore stesso una definizione insuperabile e ben precisa quando è stata qualificata come «diurna» nella parte conclusiva della lucida Prefazione al libro, di cui abbiamo detto all'inizio. Mi preme soltanto aggiungere che a questa scrittura, elaborata durante il giorno, alla luce del sole e per toni sempre riflessivi come quelli che si addicono al viaggiatore colto, a questa scrittura sorvegliata, attenta agli accadimenti anche minimi ed agli aspetti del reale in genere, sia che si tratti di un certo colore del mare, oppure del tipo di dialogo che può nascere tra lo scrittore e gli interlocutori i più diversi (dagli studenti ai giornalisti, dai rappresentanti del mondo della cultura internazionale fino alla gente comune, che Claudio Magris incontra con pari interesse sotto il profilo umano, sociale e culturale), non manca di certo, per quanto alto sia il tasso del controllo razionale, anche un largo respiro e l'ampiezza necessari ad una posizione comoda, come di chi tiene la guida sicura del proprio dire e descrivere. In questo ambito di comportamento ed in questo tratto di stile, il piacere di scrivere credo coincida, alla fine, con il gusto di vivere; un habitus che ha origine certo da una forma mentis per sua natura propensa al contatto proficuo con quanto dalla realtà chiede la nostra attenzione fattiva, oblativa e sensibile.
C'è un pensiero ricorrente all'interno dell'Infinito viaggiare, una sorta di messaggio che a me sembra di vitale importanza: è il comunicare al proprio lettore l'idea che la letteratura come regno dell'invenzione e dunque della piena libertà espressiva è, o meglio può diventare (se solo lo vogliamo), una palestra per imparare a stare al mondo, a vivere con piena dignità. Essere vivo, è questo credo il messaggio principale, semplice ma essenziale dell'Infinito viaggiare. Inutile dire che in area triestina ogni pur minimo alito esistenziale d'impronta letteraria non può che ricondurre alla matrice della «calda vita» esplorata nel maggior Canzoniere lirico del Novecento italiano, quello di Umberto Saba. Si tratta dell'adesione ad un mondo di percezioni e di idealità che antepongono l'essere umano con il suo bisogno di esprimersi e d'interagire, a ogni altro interesse. Il verbo spesso ricorrente nel volume e in cui s'incarna la «calda vita» sabiana è l'"andare a spasso", il vagabondare e nei trentanove brani è in effetti ricorrente l'atto del puro avventurarsi, nel corso del quale il viaggiatore non cade mai nello smarrimento o nella perdita di senso: anzi, lo stesso lasciarsi andare coincide costantemente con la scoperta, inaspettata e forse inimmaginabile, di qualcosa d'importante per l'esistenza del narratore, che procede serenissimo sul cammino aperto al futuro, disegnato per lui dalle tappe esperienziali della propria avventura itinerante. Avveduto com'è, l'autore è pronto, di stazione in stazione, a fare prezioso ma non geloso tesoro delle sue scoperte e delle illuminazioni del viaggio. Terminata la lettura, pare davvero che qualcosa d'impalpabile, un'eco sottile del trovarsi cambiati e perfino rigenerati una volta di ritorno a casa, abbia contagiato anche noi che, a libro chiuso, non possiamo non sentirne già viva nostalgia.

 

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Giugno-dicembre 2007, n. 1-2


 

 

 

 

 

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