Orsetta Innocenti
L'ipertesto del Lager. Su alcuni racconti di Primo Levi

 

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Sommario
I.
II.
Documento e narrazione
Costruire l'ipertesto



 

Mi rivolgo a tutti gli uomini di buona volontà, a tutti coloro il cui cuore è aperto alla poesia e alla compassione. Lasciate le vostre occupazioni. Fermatevi e osservate assieme a me un minuto di silenzio per ciò che è inesprimibile.

V. Erofeev, Mosca-Petuski

 

§ II. Costruire l'ipertesto

I. Documento e narrazione

«Non che l'esperienza vissuta sia indicibile. È caso mai invivibile, che è tutt'altra cosa, e si capisce. È qualcosa che non riguarda la forma di un racconto possibile, ma la sua sostanza. Non tanto la sua articolazione quanto la sua densità. Soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico, uno spazio di creazione, o di ricreazione, riusciranno a raggiungere questa sostanza, questa densità trasparente. Soltanto l'artificio di un racconto abilmente condotto riuscirà a trasmettere in parte la verità della testimonianza».1
Queste parole - enunciate da Jorge Semprun nel suo libro di memoria La scrittura o la vita (1994) - introducono con straordinaria efficacia una delle questioni da sempre cruciale per chi voglia studiare la letteratura della Shoah. Il difficile rapporto tra testimonianza e narrazione - tra la consapevolezza di avere vissuto un'esperienza dalla quale indietro non si torna da una parte, e la necessità impellente di depositare il «ricordo opprimente per il singolo [...] nel serbatoio della memoria collettiva»2 dall'altra - si propone infatti come uno dei nodi più intensamente problematici, intorno al quale si costruisce (in maniera più o meno consapevole) ogni testo sul Lager. In particolare, a essere chiamato in causa è il concetto stesso di veridicità, che imprigiona il superstite di Auschwitz in un paradosso insieme etico e logico. Perché mentre da un lato scegliere di raccontare l'annientamento con gli occhi consapevoli del superstite significa accettare fino in fondo un ruolo scomodo e necessario (solo chi c'è stato può portare con la sua stessa persona la testimonianza di ciò che è inesprimibile), dall'altro - come ha sottolineato acutamente Agamben (nel suo Quel che resta di Auschwitz) - «la testimonianza contiene, però, una lacuna»:

«Il testimone testimonia di solito per la verità e per la giustizia e da queste la sua parola trae consistenza e pienezza. Ma qui la testimonianza vale essenzialmente per ciò che in essa manca; contiene, al suo centro, un intestimoniabile, che destituisce l'autorità dei superstiti».

«I "veri" testimoni, i "testimoni integrali" sono coloro che "hanno toccato il fondo", i musulmani, i sommersi».3 In altre parole, come aveva già acutamente (e drammaticamente) notato Primo Levi ne I sommersi e i salvati (sulle cui pagine, del resto, il discorso di Agamben esplicitamente poggia):

«Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi appunto; ma è stato un racconto "per conto terzi", il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l'opera compiuta, non l'ha raccontata nessuno, così come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte».4

A essere messa in discussione, quindi - e (ciò che è ancora più interessante) nella prospettiva degli stessi protagonisti - non è tanto (non solo) la costante necessità di un impegno della memoria da parte delle voci dei singoli superstiti, quanto soprattutto la possibilità di poter raccontare la Shoah anche in una forma diversa da quella della testimonianza pura. Da questo punto di vista, le parole di Semprun (parole, dunque, di un testimone) portano alle estreme conseguenze (etiche e logiche) una consapevolezza già implicita nelle osservazioni di Levi. Proprio perché il testimone ritorna nel mondo dei vivi come un privilegiato (addirittura, con il fardello di un senso di colpa ineludibile, come paradossale falsificatore della storia - «Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione davanti agli occhi miei e degli altri»5) è suo esplicito dovere usare - per far conoscere, per non far dimenticare - ogni mezzo (retorico) a sua disposizione. O, ancora, nelle formulazione di Alberto Casadei, «perché qualcosa resti, è essenziale che, di fronte ad Auschwitz, sia posta in crisi ogni forma di etica individualistica, in virtù di un'autocoscienza che deve spingersi ad affermare compiutamente che quell'evento è irriducibile».6
Nel contesto di queste osservazioni sullo statuto paradossale della testimonianza sul campo, l'invito di Semprun all'«artificio di un racconto abilmente condotto» come unica via a una rappresentazione veritiera si rivela di una straordinaria lucidità prima di tutto storica. In un mondo in cui i superstiti (i testimoni diretti) vanno lentamente scomparendo, affermare la necessità dell'invenzione significa, di fatto, comprendere quanto sia importante «che l'Olocausto venga reinterpretato e capito da parte di chi non l'ha vissuto», dal momento che «la voce dei testimoni sembra non bastare più a ricordarlo, confusa tra altre voci (magari "revisioniste"), e sempre più debole a causa del passare del tempo».7
Questa dialettica tra vero e verosimile, affidabilità referenziale ed invenzione 'poetica', documento e monumento, accompagna del resto da sempre le riflessioni degli studi storici, così come quelle di teoria letteraria; ma è vero che, nel caso della Shoah, si scontra con un nodo di questioni particolarmente complesso e inestricabile. Non è un caso se, in un libro recente (dal titolo significativo La passione e la ragione), Giovanni De Luna sceglie proprio La Vita è bella come concreto esempio di uso di «nuove fonti» anche da un punto di vista storiografico.

«Per lo storico, come i fatti, anche le sue fonti scaturiscono direttamente dalle domande e dalle inquietudini del suo tempo, sollecitandone la responsabilità soggettiva non solo nella loro scelta, ma - come vedremo adesso - direttamente nella loro creazione epistemologica».8

Sulla scorta di un'analisi sottile ed efficace, De Luna mostra allora come il film di Benigni possa (e debba) essere considerato innanzi tutto «un documento sulla trasmissione della memoria»9, per concludere, molto opportunamente, proprio con una citazione da Semprun:

«Se vogliamo guardare questo film pensando di trarne qualcosa sulla verità dei campi, c'è da spaccare le poltrone. Ma a me interessa sapere cosa può un giovane ricavare come presa di coscienza da quello che fu la Shoah».10

Ancora una volta, dunque, l'interrogativo più importante torna a toccare la questione della rappresentabilità, «sulla possibilità stessa di raccontare l'Olocausto»; e in questa direzione anche una scelta esplicitamente romanzesca come quella di Benigni (ma anche - con un intento poi non troppo diverso - di Radu Mihaileanu, e del suo narratore inattendibile in Train del vie, o di Giona che visse nella balena di Faenza) diventa «un efficace strumento per raccontare un passato altrimenti muto, all'interno di un difficilissimo passaggio della memoria tra le generazioni».11

Queste stesse questioni si pongono, sostanzialmente, anche per quanto riguarda i racconti dedicati da Levi al ricordo del Lager: narrare la Shoah è - lo abbiamo visto - da sempre una necessità ineludibile, ma, insieme, il passare del tempo rende altrettanto necessario un progressivo cambiamento nello statuto della narrazione. «In un dialogo ideale con le opere degli altri testimoni e superstiti, l'attenzione di Levi passa così dalla specifica testimonianza di Se questo è un uomo, condotta attraverso una serie di descrizioni, dense di dettagli topografici e ambientali che sottolineano la sistematica negazione dell'identità che ha luogo ad Auschwitz, a un atteggiamento progressivamente sempre più narrativo e di finzione (nei racconti sul campo del Sistema periodico e nella sezione Passato prossimo di Lilìt) che sfocia infine nel riepilogo saggistico, fondatore di una nuova identità paradossale e problematica, ne I sommersi e i salvati».12

 

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II. Costruire l'ipertesto

La ricerca letteraria di Levi esplicitamente dedicata alla Shoah si configura allora come un «termitaio»13, una sorta di ipertesto del Lager che ha un suo preciso punto di partenza (Se questo è un uomo) e di arrivo (I sommersi e i salvati) - entrambi caratterizzati dalla scelta di una forma ibrida, come quella della testimonianza e/o del saggio - ma che si costruisce e si completa attraverso i piccoli indizi (lasciati cadere nel corso della sua intera carriera di scrittore), nella filigrana dei singoli microtesti dei racconti. D'altra parte, la vocazione di Levi come «scrittore di racconti» è già stata sottolineata molte volte come uno dei tratti distintivi del suo approccio alla scrittura; valgano, per tutte, le osservazioni di Belpoliti:

«La scrittura dei racconti costituisce il vero laboratorio all'interno del processo generale di scrittura di Levi, l'espressione più diretta della ricerca di un'identità narrativa nello spazio già così definito dai primi due libri sul Lager».14

Oppure, rovesciando la prospettiva, la memoria del Lager costituisce un filo rosso a tratti impercettibile, ma costante, attraverso una struttura (quella dai caratteri paratestuali spesso così marcati come sono le raccolte di racconti di Levi) che trascende e completa il loro significato. Se è vero, insomma, che, presi singolarmente, spesso i pezzi sul Lager riflettono un'attitudine narrativa in qualche modo limitata dall'intento memoriale (secondo il celebre giudizio di Calvino: «sono frammenti di Se questo è un uomo che, staccati da una narrazione più ampia, hanno i limiti del bozzetto»15), nello stesso tempo il loro statuto di racconti viene confermato (e ribadito una volta per tutte) da quello - insieme rigido e comprensivo - della raccolta.
Ecco allora Il sistema periodico (1974) e Lilìt (1981) - con il loro ordine rassicurante, come lo può essere solo una cornice deduttiva (quale la tavola degli elementi o la flessione dei tempi verbali) - a racchiudere in un corpus logico anche le tessere apparentemente fuori schema, i segnali di un ordine alternativo e perverso che rievoca 'quell'altro mondo' del Lager. Del resto, in entrambi i casi, sono molti i segnali che confermano in Levi la scelta di rifugiarsi sotto il confortevole ombrello di un solido paratesto.
Cominciamo dal Sistema periodico. Qui la struttura è modellata esplicitamente sull'altro mestiere di Levi, quella chimica sempre tenuta come momento di imprescindibile contatto col reale (e che gli aveva già nel Lager, pur fortunosamente, salvato la vita). Come è noto, la raccolta ripete infatti il modello organizzativo della Tavola Periodica degli Elementi, dai quali prendono il titolo i singoli racconti.16 In questo contesto si collocano anche i tre pezzi legati alla memoria del campo: Cerio, Cromo e Vanadio. In particolare, dei tre è soprattutto Cerio a scegliere la prospettiva del ricordo: si raccontano fatti avvenuti ad Auschwitz, nel novembre del 1944. Il narratore si rivolge, fin dall'esordio, a una comunità di lettori che già sanno, e rievoca vicende note, inserite in una sorta di «macrotesto del Lager»:17 in qualche modo, dunque, all'ordinata cornice chimica che racchiude la raccolta si sovrappone anche l'ulteriore sistema di legami, ipertestuale, sul motivo del campo.
Non è un caso allora se l'esplicita ambientazione ad Auschwitz caratterizza il primo (nell'ordine della raccolta) dei racconti sul Lager, che diventa il catalizzatore di una memoria collettiva, insieme di narratore e lettori (ascoltatori). I racconti successivi, invece, procedono per accenni, e mantengono un più stretto legame con il tempo della narrazione. E non mancano momenti di acuta consapevolezza metaletteraria, se è proprio in Cromo che la figura dell'Ancient Mariner di Coleridge fa la sua prima comparsa come alter ego del narratore testimone: «Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi».18 Diversa ancora l'attitudine in Vanadio, che narra le circostanze singolari che hanno portato Levi a rincontrare - nel corso di una corrispondenza con la Germania connessa al suo lavoro di chimico - un personaggio, il dottor Müller, legato a una sua «incarnazione precedente».19 Si tratta di uno di quei casi di «ritorno» (di fatti, persone, circostanze appartenenti all'altro mondo di Auschwitz, e all'altro uomo che era Levi allora) narrati poi con maggiore ampiezza nella sezione Passato prossimo di Lilìt o approfonditi nell'Appendice di Se questo è un uomo.
Comune a tutti, resta comunque il filo conduttore di un'esibita metaletterarietà del campo, che finisce per coinvolgere anche altri racconti, attraverso esibite strategie intertestuali (che creano ulteriori legami - e microsezioni - all'interno della raccolta). Un esempio per tutti: il racconto Oro, con la narrazione dell'esperienza partigiana di Levi (durante la quale viene catturato - come del resto già sa il lettore di Se questo è un uomo), precede direttamente proprio Cerio, e contribuisce quindi a creare una sorta di cerniera tra il ricordo del passato (di Se questo è un uomo) e l'aspettativa del futuro (la seguente narrazione, per la prima volta, di nuovo, direttamente legata ad eventi del Lager).
È vero, insomma, che, questa struttura chiusa e pseudoscientifica (razionalmente controllata) - sempre ricercata da «uno scrittore di racconti e insieme un memorialista di tipo particolare [...] attento alla composizione delle sue storie e soprattutto alla "cornice" entro cui inserirle» - diventa insieme l'occasione per una «storia esemplare di chi, partendo dalla concretezza del mestiere di chimico, si autoeduca a capire le cose e gli uomini, a prendere posizione, a misurarsi, con una ironia e una autoironia che non escludono la fermezza».20 E, del resto, possiamo leggere la conferma nelle parole dello stesso Levi, affidate all'ultimo racconto del Sistema periodico, Carbonio - e collocate dunque in una posizione di particolare rilievo nell'architettura complessiva della raccolta. Il racconto si apre con un riferimento diretto al lettore (chiamato in causa nell'incipit), e prosegue con una riflessione sul reale statuto della raccolta:

«Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica [...]. Non è neppure un'autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un'autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure».21

Comincia così la narrazione dell'ultimo elemento della tavola periodica, «la storia di un atomo di carbonio»22, della quale Levi racconta evoluzioni, spostamenti e metamorfosi fino all'ultima, decisiva, trasformazione (che chiude - guarda caso - il racconto stesso):

«Uno [frammento di carbonio], quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene a un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l'atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto».

Il passaggio dalla chimica alla scrittura (dall'osservazione del presente alla testimonianza del passato) è così compiuto; i due elementi si fondono nella persona di Levi-narratore - chimico e testimone - e della sua consapevolezza dell'atto di scrittura. Non è un caso, allora, se le righe finali del racconto (e dell'intero Sistema periodico) rimandano, nella descrizione artigianale (e metaletteraria) dell'atto di scrittura, al finale di un romanzo di un autore che Levi aveva ben presente, come lezione e modello insieme di leggerezza e lucidità: Italo Calvino.

«È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due livelli di energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo».23

sono le parole del centauro Levi (chimico e scrittore, scienziato e testimone); che riecheggiano il finale del Barone rampante, e delle avventure di quel personaggio insieme razionale e aereo, rigoroso e romanzesco, che è Cosimo Piovasco di Rondò:

«Ombrosa non c'è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c'era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d'inchiostro, come l'ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s'intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarci, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito».24

Questa stessa rigorosa (e laicissima) fiducia nella struttura come momento fondante di autoconsapevolezza narrativa si ritrova, del resto, anche nell'altra raccolta di racconti in cui Levi torna a occuparsi del Lager: Lilìt. Non più la chimica, ma la grammatica: però, di nuovo, anche questa raccolta si organizza intorno a una struttura forte (divisa nelle tre sezioni Passato prossimo, Futuro anteriore e Presente indicativo), all'interno della quale i racconti del Lager occupano da subito un posto ben preciso (quello dell'intera prima parte). Si tratta - come ha giustamente notato Belpoliti - non «di testimonianze, ma di storie di singole persone, racconti di momenti di tregua, di riposo e respiro dentro la cruda vita del campo» che in quanto tali si discostano dall'attitudine del puro testimone. Ancora Belpoliti: «Questa salvazione della memoria è segnata da un diverso tono narrativo, da un piacere del racconto, da una minor "durezza" che Levi riconosce come propria in quel momento della sua vita di uomo di scrittore».25
Un piacere del racconto che passa comunque sempre attraverso l'individuazione di una struttura, un modello formale che aiuti a mettere ordine nell'intricata materia della memoria (e della testimonianza), secondo una linea che vuole inserirsi nel consueto rapporto con i lettori/ascoltatori per aggiungere qualche nuovo tassello alla costruzione dell'ipertesto del Lager. Ecco allora la scelta di rappresentare soprattutto «figure strane e bizzarre, personaggi ed episodi che [...] chiedono, più o meno imperiosamente, [...] di lasciare, in qualche misura, una traccia sulla pagina».26 Lo si nota anche solo con un rapido sguardo all'indice della sezione, dove i titoli dei singoli racconti rimandano a due principali categorie. Da una parte, l'attitudine al bozzetto, alla storia significativa, che mira a inquadrare nel giro di una narrazione breve la memoria straordinaria (è il caso, per esempio, di Capaneo, che apre la raccolta, o dello stesso Lilìt); dall'altra un'attitudine per così dire più metaletteraria, che riannoda consapevolmente il racconto al filo delle parole già dette sul Lager (pensiamo per esempio ai due, simmetrici, Il ritorno di Cesare e Il ritorno di Lorenzo, dove «l'ambiguità del titolo [...] sembra riferirsi contemporaneamente sia alla narrazione del ritorno a casa dei due personaggi, sia al loro ritorno sulla scena metanarrativa»27).
Ovviamente, le categorie individuate non sono sempre così distinte, e molto spesso i due registri si fondono, a sottolineare l'intento di un Levi narratore impegnato contemporaneamente nel difficile compito di raccontare nuove storie di inserire questi stessi pezzi nel serbatoio di una memoria già comune (questo duplice aspetto traspare chiaramente, per esempio, nel Nostro sigillo e, ancora, nel Ritorno di Lorenzo, dove si torna a parlare del nano Elias, sicuramente personaggio singolare, e insieme già noto ai lettori fin dal tempo di Se questo è un uomo - come del resto Levi non manca di sottolineare nel momento in cui Elias torna a occupare la scena narrativa).
In ogni caso, l'esperimento è complessivamente riuscito e in questa prospettiva Lilìt si configura come un punto di arrivo, un momento nel quale Levi arriva a costruire con una certa armonia il difficile reticolo - insieme memoriale e narrativo - dell'ipertesto del Lager. O, in altre parole, «la cruda verità del Lager gli sembra, almeno in quel momento, alle spalle, salvo poi ripresentarsi, come sappiamo, sotto forma di bilancio della testimonianza nell'ultimo libro».28 Appartengono invece già a quest'area gli ultimi racconti pubblicati da Levi sul tema del campo, proprio per questo non più inquadrati nella struttura di una solida raccolta, (ma che definiscono comunque le ultime tessere del progetto ipertestuale) e nei quali «la componente riflessiva prevale su quella narrativa»:29 Auschwitz, città tranquilla, Un «giallo» del Lager, Pipetta da guerra, L'ultimo Natale di guerra (e, in parte, anche Il mitra sotto il letto). Il progetto, insomma, è molto più vicino all'area problematica dell'ultimo saggio-paradosso su Auschwitz - «come se la scrittura dei Sommersi e i salvati avesse smosso una serie di ricordi»30 - che non alla ricerca più compiutamente narrativa del Sistema periodico e di Lilìt.
Ma anche così persiste l'importanza del «macrotesto del Lager», come se l'intero corpus di narrazioni brevi dovesse essere considerato un'unica raccolta sulla testimonianza, dove scrittura e vita si fondono nell'unica figura del reduce-narratore-testimone - secondo il modello implicitamente disegnato al termine del Sistema periodico - nel tentativo di dare conto della complessità del reale. È il segno di un'idea rigorosa e illuminista (etica) della pratica letteraria stessa, lungo la linea - come ha notato Federico Bertoni - di una «fede nella razionalità e nella ricerca dell'ordine», che diventano «gli unici strumenti con cui è possibile, attraverso la scrittura, scandagliare davvero il disordine, misurarsi ad armi pari con il caos, l'impurità, l'imperfezione, ed esorcizzare i più spaventosi fantasmi del sé e del mondo».31 Questa, in fondo, la sfida di Levi - chimico e scrittore, testimone e narratore - una sfida che, non a caso, condivide con uno dei massimi narratori della complessità come Italo Calvino, con la sua idea ironicamente, problematicamente, insieme razionale e romanzesca di letteratura.
«Abitare il disordine con l'occhio rapito da un miraggio d'ordine, "sfidare il labirinto" senza cedere alle opposte tentazioni di perdersi o di astrarne una mappa semplificata»: ecco (ancora con Bertoni) i caratteri salienti dell'idea di letteratura per Calvino (e, possiamo aggiungere, dello stesso Levi). «Solo così lo scrittore può dire di aver raccolto, se non proprio vinto la sfida della letteratura: per esplorare il non detto; per rendere dicibile (e dunque pensabile) ciò che non ha voce; per tradurre la fluidità caotica e indifferenziata del "mondo non scritto" nel reticolo discontinuo, organizzato e leggibile del "mondo scritto"».32 Ma si tratta, come è noto, di una scommessa pericolosa, se alla base di tutto si pone, e resta, l'«anus mundi» del campo: perché assumere sulla propria singola persona insieme l'identità del narratore e testimone - quella del razionale descrittore del reale e di chi sceglie consapevolmente di portare su di sé il peso di un insanabile paradosso - significa, nei fatti, aprire un "vizio di forma" non sempre risolvibile, scegliere una volta di più di tornare, quotidianamente, a interrogarsi - e interrogare il mondo - su «quel che resta di Auschwitz».

 

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Giugno-dicembre 2005, n. 1-2