Stefano Zampieri
Maurice Blanchot in Italia

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Ammirato da filosofi come Sartre, Bataille, Levinas, Foucault, Derrida, o da poeti come René Char e Edmond Jabés. Adulato e imitato da una schiera di intellettuali non solo francofoni, per il suo stile involuto ed affascinante (mai però gratuitamente ermetico), per la sua capacità di aggirare i problemi ed affrontarli sempre da un nuovo punto di vista, estraniante, illuminante, Maurice Blanchot ha tuttavia sofferto un destino di silenziosa indifferenza da parte del grande pubblico. Nonostante la mole delle pubblicazioni sia saggistiche che narrative, le sue opere restano campo di studio per pochi fortunati. E la sua stessa scomparsa è avvenuta (il 20 febbraio 2003) senza sostanziale reazione da parte dei media.

Blanchot entra tardi nella cultura italiana ed in modo decisamente faticoso. Le primissime apparizioni avvengono su una rivista di profilo internazionale come «Botteghe Oscure», sulla quale vengono pubblicati Le compagnon de route (in «Botteghe Oscure», Quaderno X, 2° semestre 1952) e Le retour (in «Botteghe Oscure», Quaderno VII, 1951) e poi su «Letteratura» (Weil e la certezza, 1959, pp. 34-49). Ma è soltanto alla fine degli anni Sessanta che fa il suo ingresso vero e proprio, quando Einaudi pubblica Lo Spazio Letterario, (trad. it. G. Zanobetti, Torino, Einaudi, 1967; ed. orig. 1955) e Il Libro a venire, (trad. it. G. Ceronetti e G. Neri, Torino, Einaudi, 1969, ed. orig. 1959).
E a lungo la sola riflessione critica intorno alla sua opera, a parte una breve nota di Adelia Noferi (Blanchot, in «Paragone», Febbraio, 1950) sarà quella di Francesco Leonetti, La negazione in letteratura, (in «Il Menabò», 1963, n. 6, pp. 222-249) il quale però leggeva Blanchot alla luce di Lukacs e quindi lo poneva "sotto il segno della decadenza". Anche se da questo arbitrario punto di vista, tuttavia Leonetti valutava lucidamente alcuni elementi del suo pensiero, in modo particolare rispetto al tema dell'immaginazione, che attraverso la mediazione del surrealismo acquisterebbe il valore di una dimensione precedente la soglia della coscienza, vero e proprio luogo di negazione del reale. Interessante osservare che il saggio di Leonetti uscì su quella stessa rivista, «Il Menabò», diretta da Vittorini e Calvino che poi ospitò alcuni testi di Blanchot (La conquista dello spazio, Il nome Berlino, La parola in arcipelago, Il «quotidiano», in «Il Menabò», 1964, n. 7), originariamente destinati ad un Progetto di una rivista internazionale (in Italia noto come Progetto Gulliver, i referenti italiani del quale erano gli stessi Vittorini e Calvino) a cui il gruppo francese guidato appunto da Blanchot insieme a Dionys Mascolo, Luis René des Forêts, Roland Barthes ed altri, aveva attribuito grande importanza come esperienza di una vera e propria "scrittura collettiva" (come era già stata messa in atto dagli intellettuali francesi, per la stesura del cosiddetto "Manifesto dei 121" per il diritto alla insubordinazione nella guerra d'Algeria). È noto per altro che il fallimento del progetto fu attribuito, almeno in parte, alla resistenza degli intellettuali tedeschi di fronte a questa pratica innovativa che avrebbe messo in secondo piano l'individualità dei singoli artisti.
D'altra parte una sostanziale sottovalutazione dell'originalità del pensiero di Blanchot la si trova anche in Franco Fortini che tende a schiacciarne l'esperienza nell'ambito della deriva surrealista (si veda per esempio in 24 voci per un dizionario di lettere, Milano, Il Saggiatore, 1998, prima ed. 1968). Mentre Umberto Eco (ne La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, pp. 333-335) evidenziava nell'opera di Blanchot il primato della scrittura come espressione della pretesa di autonomia del testo al di là del lettore e dello scrittore, ma la inseriva (con una deformazione prospettica che oggi appare assai evidente) all'interno di una cultura dominata dalla figura di Lacan e dal cosiddetto "lacanismo".
Negli anni Settanta la pubblicazione di Lautréamont e Sade, (trad. it. M. Bianchi e R. Spinella con introduzione di T. Perlini, Bari, Dedalo Libri, 1974) e di Passi Falsi (trad. it. E. Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1976) contribuiscono ad assestare l'immagine di Blanchot come critico letterario. Significativa in questo senso la collocazione che ne compie Franco Rella nel volume dedicato alla Letteratura della Enciclopedia Feltrinelli-Fischer (Milano, Feltrinelli, 1976), il quale legge Blanchot come paladino di una "priorità ontologica" dell'opera rispetto al soggetto della scrittura e a quello della lettura, ma al contempo lo situa, in modo del tutto incongruo sia storicamente sia teoricamente, nell'ambito di quella che viene normalmente chiamata "nouvelle critique".

Nonostante la disponibilità editoriale, tuttavia, l'attenzione della critica non va oltre la citazione, e non si sviluppa ancora un discorso coerente. In Italia penetra poco il Blanchot critico letterario anzi, meglio, lettore, nel senso più alto del termine. Restano poco utilizzate, infatti, le sue escursioni entro le opere di Mallarmé, di Rilke, di Musil e soprattutto di Kafka cui dedica pagine memorabili. Non penetrano perché il suo agire critico non è riconducibile ad alcuna scuola. Non rientra nel canone crociano, ma nemmeno in quello lukacsiano, non si confonde col modello sociologico della Scuola di Francoforte e non può essere riportato allo strutturalismo. Si percepisce bene che la sua attenzione ha fatto tesoro di quanto di meglio si è detto e pensato intorno alla letteratura nel Novecento ma senza sposare alcuna dottrina. La diffidenza verso quanto si presenta fuori dei modelli interpretativi riconosciuti, ne rende l'opera difficile da assimilare.

Si distinguono in questa fase embrionale i saggi di Tito Perlini (Maurice Blanchot: L'opera come presenza-assenza, in «Nuova Corrente», 1968, n. 45, pp. 3-58) ristampato ancora nel 1974 come introduzione al saggio di Blanchot, Lautréamont e Sade (Bari, Dedalo, 1974), il quale, emblematicamente usa Blanchot per una profonda critica allo scientismo strutturalista, e quelli di Mario Perniola (Maurice Blanchot e il masochismo delle lettere, in «Nuovi Argomenti», 1969, n. 25, pp. 268-83, e Blanchot e il problema della scrittura, in «Rivista di Estetica», 1971, n. 16, pp. 260-63).

Ma la svolta nell'opera di Blanchot è certamente segnata da L'infinito intrattenimento (l'originale è del 1969, in Italia esce da Einaudi nel 1977 splendidamente tradotto da Roberta Ferrara). Qui, infatti, il critico letterario, il lettore, getta definitivamente la maschera e mette in scena una parola critica che va oltre ogni genere, che si sposta dalla letteratura in quanto insieme di testi narrativi o poetici alla scrittura, in quanto pratica essenziale che definisce la natura stessa dell'umano, i suoi limiti e le sue contraddizioni.
Da questo momento in poi, l'attenzione di Blanchot si sposta dunque dai singoli autori all'esperienza generale della scrittura, questione che deborda verso il terreno filosofico e in particolare verso il problema del rapporto con l'altro. È proprio su questo terreno che Blanchot finalmente suscita un certo interesse nella cultura italiana.
Alla fine degli anni Settanta, ancora, con la traduzione de L'Attesa l'oblio (trad. it. M. De Angelis, Milano, Guanda, 1978) la cultura italiana viene a contatto per la prima volta con l'opera narrativa di Blanchot ma ciò non basta a far scattare il meccanismo dell'interesse del grande pubblico. Tanto che, di fatto, le maggiori opere narrative di Blanchot (Thomas l'Obscur del 1941, Aminadab del 1942, Le Trés-Haut del 1948, Au moment voulu, del 1951, Celui qui ne m'accompagnait pas del 1953 e Le dernier homme del 1957) risultano tuttora inedite in Italia.
Certo è vero che la lingua di Blanchot è molto particolare e quindi di non facile traduzione. L'uso dell'anafora, le sequenze aggettivali, l'utilizzo di alcune figure predilette, quali il chiasmo e l'ossimoro, la ricorrenza delle simmetrie misurate, tutto ciò fa sì che essa possieda una cadenza, un ritmo che determinano una fortissima capacità espressiva che rende il discorso trasparente a dispetto della complessità della costruzione discorsiva e dell'oscurità di certe pieghe della sua riflessione. Una trasparenza che risulta purtroppo in certa misura perduta nelle pur ottime traduzioni italiane.

È negli anni Ottanta, comunque, all'interno di un nuovo clima culturale, di una nuova sensibilità per quanto proviene dalle esperienze più avanzate della cultura europea, che l'opera di Blanchot sembra vivere la sua stagione più feconda e più ricca. In primo luogo da un punto di vista editoriale, vengono infatti pubblicati il saggio Foucault come io l'immagino (trad. it. V. Conti, Genova, Costa & Nolan, 1980) e la raccolta di saggi Da Kafka a Kafka (trad. it. R. Ferrara, D. Grange Fiori, G. Patrizi, L. Prato Caruso, G. Urso, G. Zanobetti, Milano, Feltrinelli, 1983); si pubblicano anche alcuni testi di carattere narrativo, in particolare il breve racconto La follia del giorno appare in una fortunata edizione (trad. it. G. Patrizi e G. Urso, Reggio Emilia, Elitropia, 1982) arricchita da un commento di Derrida, La follia del titolo, da uno di Levinas, Esercizi su "La follia del giorno", e da un vecchio importantissimo testo di Blanchot stesso, La letteratura e il diritto alla morte, che era apparso nel 1949 nella raccolta La part du feu, tuttora inedita in Italia. Questa pubblicazione ha contribuito sicuramente a far comprendere che il testo narrativo di Blanchot non può essere in alcun modo separato da quello saggistico, anzi, è certamente questo tentativo di superare la distinzione del genere, come ci insegna Derrida con le sue analisi, uno dei contributi più importanti di Blanchot.
Ciò appare con grande chiarezza nel romanzo (ma a questo punto il termine appare molto improprio) La sentenza di morte (trad. it. G. Pavanello e R. Rossi, Milano, SE, 1989), sul quale si veda il mio Morte, estremo rapporto (in «L'Indice», a. VI, 1989, n. 5), ma ancor più nel volume Il passo al di là (trad. it. Lino Gabellone, Genova, Marietti, 1989), ove la parola narrativa e quella saggistica appaiono disordinatamente inseguirsi in uno spazio nel quale domina oramai la forma del frammento, emblema di un disastro della parola e del discorso da cui non è più possibile uscire (su questo testo si veda il mio Blanchot: Il passo al di là, in «Belfagor», a. XLV, marzo 1990, n. 2).
Ma su questo passaggio è necessario soffermarsi. Con L'Amitié (Paris, Gallimard, 1971, mai tradotto) si chiude la stagione del Blanchot saggista ed ha inizio l'ultima fase della sua produzione, caratterizzata da un linguaggio del tutto diverso, di natura frammentaria, appunto, liberato da ogni dipendenza da una legge di genere. A partire da Il passo al di là il testo di Blanchot si coagula intorno a schegge di narrazioni che si mescolano ad aforismi, a riflessioni dal tono poetico che si alternano con pagine di discussione serrata con Levinas, Nietzsche, Heidegger ecc.

Una particolare attenzione rispetto al Blanchot più filosofico, e anche più oscuro, fautore della parola frammentaria, proviene da alcune importanti riviste di ricerca, in primo luogo «Nuova Corrente» che gli dedica un fondamentale numero monografico («Nuova Corrente», 1985, n. 94, contiene: A. Castoldi, La rivoluzione ineffabile. Politica ed ideologia in Blanchot negli anni '30, pp. 5-42; W. Tommasi, Per un'esperienza non dialettica della parola. La presenza di Hegel nel primo Blanchot, pp.43-76; R. Ronchi, La realtà e la sua ombra, pp. 77-104; S. Mele, Nichilismo, esigenza frammentaria, passione dell'impossibile. Riflessioni sul rapporto Blanchot-Nietzsche, pp. 105-122; A. Ponzio, Il linguaggio in Blanchot. Il dialogo di intrattenimento, pp. 123-142; R. Stillers, Il palinsesto infinito. Frammentazione e continuità nell'opera narrativa di M. Blanchot, pp. 143-168; U. Jacomuzzi, M. Blanchot: la lettura, l'ascolto, pp. 169-186; G. Patrizi, La funzione Kafka, pp. 187-202).
In secondo luogo va segnalato il lavoro di «Aut aut» che dopo aver pubblicato un testo importante di Blanchot su Benjamin (Sulla traduzione, in «Aut aut», 1982, n. 189-190, pp. 98-101) avvia un fecondo confronto con Levinas, e contribuisce così a collocare Blanchot su di un versante diverso rispetto alla critica letteraria in senso stretto. Appaiono così nello stesso fascicolo (in «Aut aut», 1985, n. 209-210) l'importante saggio di Emmanuel Levinas, Blanchot: Lo sguardo del poeta, e quello di Blanchot, Discorso sulla pazienza (in margine ai libri di Emmanuel Levinas), commentati da Rocco Ronchi, L'interpretazione come salvezza. Nota sul 'Blanchot' di Levinas, e da Federica Sossi, L'esperienza-limite dell'evasione. Nota su Levinas e Blanchot. Il saggio di Levinas verrà successivamente ristampato nella sua collocazione originale all'inizio del volume Su Maurice Blanchot (ed. orig. 1975, trad. it. Edizioni Palomar, 1994).
Da questi saggi si ricava forse la più acuta interpretazione di Blanchot, il suo rapporto profondo, all'inizio, con il pensiero heideggeriano (che lo stesso Levinas aveva contribuito a rendergli noto fin dagli anni venti, cioè dal comune sodalizio presso l'Università di Strasburgo), ma anche e soprattutto la distanza che si produce poi nelle opere più mature, una distanza che Levinas esprime molto bene ma che non è forse ben compresa dalla cultura italiana che tende invece, talvolta, a schiacciare Blanchot su Heidegger.
Successivamente è il caso di segnalare almeno il saggio di Antonio Prete, Del confine e delle sue trasparenze. Margini per Blanchot, Jabès e Char (in «Aut aut», 1986, n. 211-212, pp. 13-27), e la pubblicazione del saggio (del 1946) di Blanchot La parola "sacra" di Hölderlin (in «Aut aut», 1989, n. 234, pp. 21-35) seguito dal commento di Federica Sossi, La passione dell'eccesso. Nota a Blanchot (pp. 36-45).

Alla metà degli anni Ottanta appare in italiano La comunità inconfessabile (trad. it. M. Antonelli, Milano, Feltrinelli, 1984), un testo che potrebbe aprire una nuova via d'analisi, quella relativa al Blanchot politico, anche sulla scia delle polemiche e dei dibattiti che nel frattempo si stanno sviluppando oltralpe. Ma evidentemente l'innesco non funziona oppure l'attenzione è distratta da altri fenomeni culturali. E del Blanchot politico, nel duplice senso dei suoi rapporti giovanili con la destra francese e poi del suo silenzioso ma stretto legame con una certa sinistra libertaria e radicale, in Italia si parla poco. Si veda a questo proposito il saggio di Alberto Castoldi già citato (La rivoluzione ineffabile. Politica e ideologia in Blanchot negli anni '30, in «Nuova Corrente», 1985, n. 95, pp. 5-41), e si completi la riflessione con le pagine di Blanchot dal titolo Il marxismo contro la rivoluzione, pubblicate da Roberto Esposito nel volume collettivo Oltre la politica. Antologia del pensiero "impolitico" (Milano, Bruno Mondadori, 1996, pp. 50-62, il testo è tradotto da Simona Fina).

In questa fase, comunque, caratterizzata da una certa fortuna critica, si segnalano numerosi saggi monografici di rilievo, da quello di Luisa Bonesio, Lo stile della filosofia: estetica e scrittura da Nietzsche a Blanchot (Milano, F. Angeli, 1983), a quelli di Wanda Tommasi, Maurice Blanchot, La parola errante (Verona, Bertani, 1984) in cui si sviluppa un serrato confronto con Hegel, e Rocco Ronchi, Bataille, Levinas, Blanchot: un sapere passionale (Milano, Spirali, 1985), oppure quello di Giorgio Marcon, Cerchi di sabbia: sui passi di Maurice Blanchot (Bologna, L'Inchiostroblu, 1985) cui fa seguito il successivo, Tra le rive del testo: Gli enigmi di Thomas l'obscur (in «Il Lettore di Provincia», 1989, n. 21, pp. 87-92).
A livello di brevi saggi segnaliamo anche quello di Piero Bigongiari, Blanchot, da Apollo a Hermes (in L'Evento immobile, Milano, Jaca Book, 1987).
In generale la riflessione italiana in questa fase evidenzia soprattutto il Blanchot più maturo, quello che progressivamente ha spostato la sua attenzione dai testi letterari, focalizzandola intorno ad una serie di termini che vorrebbero in qualche modo far risuonare la lingua di un umanesimo al di là del soggetto, ovvero di quella condizione di neutralità che è propria della scrittura. Ecco allora la centralità di termini quali l'attesa, l'assenza, l'oblio, l'interruzione, il silenzio, la pazienza, la passività, l'ascolto, ecc., che tentano di introdurci nell'ambito di un discorso senza soggetto. Ma che, nelle rielaborazioni italiane, talvolta finiscono per dare vita ad un linguaggio inutilmente esoterico, molto suggestivo ma poco espressivo.

Negli anni Novanta assistiamo al lento consumarsi della fortuna guadagnata nel decennio precedente, nonostante la traduzione dell'ultimo grande testo di Blanchot, La scrittura del disastro, vero punto d'arrivo della sua esperienza (edizione originale del 1980, trad. it. Federica Sossi, Milano, SE, 1990; contiene anche una interessante postfazione della traduttrice, Il mito della fragilità, pp. 169-172). Ad esso fa seguito un breve saggio, L'ultimo a parlare (trad. it. C. Angelino, Genova, Il Melangolo, 1990), dedicato all'opera di Paul Celan, un poeta particolarmente congeniale a Blanchot non solo per il suo stile ermetico ma soprattutto perché mette profondamente in questione il rapporto con l'altro, la relazione umana, un tema che diviene sempre più essenziale nell'ultima fase del suo pensiero.
Ma oramai la parabola discendente è chiara. L'attenzione tende a diradarsi. Si segnala soltanto qualche rapida recensione, fra le quali vale la pena di ricordare quella di R. De Benedetti, M. Blanchot, La scrittura del disastro (in «Aut aut», 1990, n. 237-238, pp.153-156). A segnare il confine è l'ultima monografia apparsa, quella di Francesco Garritano, Sul Neutro. Saggio su Maurice Blanchot (Firenze, Ponte alle Grazie, 1992) il quale mette in discussione il rapporto tra soggettività e scrittura, cercando di sottrarre l'opera di Blanchot a qualsiasi interpretazione mistica.
Vanno infine segnalate la prefazione di Francesco Fistetti a E. Levinas, Su Blanchot, (Bari, 1994), Levinas Blanchot, un dialogo ininterrotto, e le riflessioni di Gabriele Piana, La questione della morte nell'opera di Maurice Blanchot (in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 1995, n. 87/4, pp. 596-622), e Maurice Blanchot, lettore di Merleau-Ponty (in «Aut aut», 1996, n. 273-274, pp. 74-84). E naturalmente il mio saggio dedicato al rapporto tra Blanchot, Heidegger e l'estetica, dal titolo L'arte, l'opera, l'origine. M. Blanchot, (in «Verifiche», a. XXIV, 1995, n. 1-2, pp. 198-210).
Qualche spunto interessante si può trovare anche nel volume di Carmelo Colangelo, Limite e melanconia: Kant, Heidegger, Blanchot (Napoli, Loffredo, 1998).

In questa fase al confronto con Levinas sembra piuttosto sovrapporsi quello con Derrida, del quale vengono tradotte due opere essenziali interamente dedicate a Blanchot, Paraggi. Studi su Maurice Blanchot (edito da Jaca Book, 2000) e Dimora Maurice Blanchot (edito da Palomar, 2001).

Il nuovo millennio si è aperto dunque in modo strano: certamente oramai all'opera di Blanchot è stato assegnato il posto che merita, non soltanto nell'ambito della critica letteraria ma anche in quello della riflessione filosofica, per i suoi contributi intorno alle questioni di teoria letteraria ma anche e forse soprattutto in merito ad alcune questioni essenziali per le quali viene oramai collocato al fianco di Bataille, Levinas, Derrida…
D'altra parte, tuttavia, a questo generale riconoscimento non corrisponde una vera e propria attenzione critica. Non c'è un dibattito, non c'è una sensibilità specifica, non si è ancora giunti ad una pubblicazione integrale delle opere. Ed anzi, dopo la fortuna che abbiamo segnalato negli anni Ottanta con le sue ultime propaggini negli anni Novanta ecco che nel nuovo secolo pare che il nome di Blanchot vada affievolendosi e scomparendo.
Si possono segnalare soltanto un paio di titoli, un nuovo articolo di Riccardo De Benedetti, La politica di Blanchot: «partenaire [quasi] invisibile» (in «Tellus. Rivista italiana di geofilosofia», 2000, n. 22, pp. 139-146) e la rielaborazione di una tesi di laurea Maurice Blanchot. La scrittura come esperienza del neutro di Monica Martelli (Troilo, 2000).

Ciò che però ha lasciato davvero sgomenti è stata la totale assenza di riscontri, in Italia, nel momento della morte. A fronte invece di una vivace reazione da parte di tutta la cultura francese.
Allora, senza alcun commento ulteriore, vale la pena di tornare un po' indietro e di riconoscere ancora una volta la sensibilità di una rivista come «Aut aut» che ha il merito di aver tradotto (a cura di Patrizia Valduga) e pubblicato (in «Aut aut», 1995, n. 267-268, pp. 32-37) quello che resterà non solo come l'ultimo contributo di Blanchot, ma anche come una sorta di suo estremo congedo dall'esistenza, un testo intitolato L'instant de ma mort, una narrazione di natura autobiografica, che racconta per la prima volta una vicenda drammatica vissuta da Blanchot durante la guerra quando sfuggì per poco alla fucilazione da parte delle truppe tedesche. Il commento di Jacques Derrida (pp. 38-56) restituisce a queste pagine tutto il loro spessore di riflessione filosofica. La scomparsa dell'autore attribuisce ad esse una qualità di confessione finale che dà senso e valore all'esistenza stessa dell'uomo Blanchot.
Ed è giusto che sia stato proprio Derrida a presentarle e commentarle, per via del lungo rapporto personale di amicizia e di scambio intellettuale che lo legava a Blanchot. Non a caso gli è stata affidata l'orazione funebre il giorno delle esequie (pubblicata da «Libération» il 25 febbraio 2003 con il titolo: Un témoin de toujours).
Certo con Blanchot si chiude un vero e proprio ciclo storico, che ha segnato in modo definitivo la cultura del Novecento non soltanto in Francia. Una generazione intellettuale che si è imposta attraverso i nomi di Sartre, Bataille, Leiris, Antelme, Duras, Levinas, Barthes, Foucault, Jabés e quelli di tanti altri. Una generazione, una cultura, che scompaiono. Lasciando però un'eredità ricca e complessa ancora in buona parte da scoprire e da utilizzare. Dell'ultimo Blanchot in modo particolare resta impensato, soprattutto in Italia, il legame intenso, profondo, inscindibile tra letteratura, vita e politica che, attraverso le figure fondamentali dell'amicizia e della comunità, egli instaura in modo impegnativo per il pensiero.

Postilla
Fra gli strumenti di cui lo studioso si può servire utilmente vanno segnalati due punti di riferimento essenziali.
In primo luogo il sito, in inglese, Maurice Blanchot curato fin dal 1997 da Reginald Lilly docente di filosofia presso lo Skidmore College di Saratoga Spring (NY). Importante innanzi tutto per la ricca bibliografia che rende conto della traduzione delle opere di Blanchot non soltanto in inglese, ma anche in spagnolo, tedesco, italiano (ma vi sono riferimenti in danese, finlandese, portoghese, greco, giapponese, ecc.). Anche la bibliografia secondaria è assai ricca, in qualche caso è possibile accedere anche agli abstract se non addirittura ai testi stessi. Collegata al sito è una Lista di Discussione piuttosto attiva.
L'indirizzo è: http://lists.village.virginia.edu/~spoons/blanchot/blanchot_mainpage.htm. In secondo luogo all'indirizzo http://www.mauriceblanchot.net/ si trova il Site Maurice Blanchot, in francese, curato da Eric Hoppenot (appassionato studioso di Blanchot), il quale già dal maggio 2000 animava una Lista di Discussione molto vivace, e che nel luglio del 2003 ha fondato questo sito interamente dedicato all'opera del francese. Contiene numerosi e aggiornati riferimenti al dibattito che si svolge in Francia, del quale riporta saggi e testi; presenta e discute le opere critiche pubblicate di recente e dà conto delle numerose iniziative pubbliche che prendono vita in quel paese.
Non si può fare a meno di segnalare, infine, il testo di Christophe Bident, Maurice Blanchot, partenaire invisibile (Champ Vallon, 1998), prima biografia davvero ricca, completa e documentata anche in merito alle oscure vicende degli anni Trenta-Quaranta. Ma anche attendibile ricostruzione del pensiero di Blanchot, studiato nel suo evolversi, nel suo svilupparsi, a contatto con la realtà mutevole della storia del Novecento.

 

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