Silvio Ramat, I passi della poesia. Argomenti da un secolo finito, Novara, Interlinea, 2002, pp. 247, € 20
di Laura Toppan

 

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Testimonianza della finezza e dell'originalità d'analisi critica e testuale di Silvio Ramat sono i diciannove saggi raccolti in questo libro che, attraversando tutto il XX secolo, si presentano sotto forma di esplorazione della "pienezza" della poesia moderna e contemporanea fra tradizione ed innovazione. Articolato in sei sezioni, il volume si apre con un incunabolo di Soffici giovanissimo, Dai campi (1896), che Ramat considera «prova modestissima» dal punto di vista poetico, ma dove gli sembra che le sue capacità pittoriche stiano già prendendo quota («rosseggiar dei campi», «ciel sereno d'amatista e d'oro»). E la sezione successiva, intitolata Negli anni della «Voce», muove i passi verso il poeta-musico-pittore Dino Campana cercando di risolvere la tanto dibattuta dicotomia «visionario»/«visivo» optando per il primo aggettivo. Un esempio ne è La Chimera, che inaugura i Notturni dei Canti Orfici e dove Dino racconta come gli accadde di «vedere» la Poesia: fu un sogno «d'arte». Il verso 10, «il tuo ignoto poema», è di difficile interpretazione e mentre la Ceragioli lo legge come il poema «non ancor scritto», Ramat propone «poeticità, poetico spirante dall'immagine», quindi con un senso più ampio e da qui s'interroga sulla data di composizione che è forse precedente rispetto al resto del libro. Trasportato dalle "visioni" del poeta di Marradi, il critico suggerisce una pista interessante da sondare: anagrammando «chimera» si scopre l'America, il nuovo continente della Poesia e quindi dietro si celerebbe un paesaggio dall'«altro Mondo». Questa capacità di leggere "dietro" le parole porta Ramat ad individuare nello "stile" il nòcciolo del dissenso tra Boine e Croce pubblicato in un numero della «Voce» nel 1912. Ne L'estetica dell'ignoto il primo rivendica la «fosforescenza vitale» che garantisce l'autenticità dell'opera d'arte e il secondo controbatte in Amori con le nuvole sottolineando il dovere di «far luce»: ma si tratta di un litigio tra sordi poiché dove il poeta mantiene il dialogo su livelli passionali, il critico lo sposta sul piano della certezza filosofica, quindi anche il verbo «giudicare» (un'opera) è interpretato partendo da due livelli diversi e quindi impossibili da conciliare. Sempre con documenti alla mano, dai quali far partire la riflessione, nel saggio successivo dedicato a La poesia di Rebora nel giudizio dei suoi primi lettori, Ramat mette l'accento sulla stabilità/continuità rilevata dai primi recensori dei Frammenti lirici, anche se esprime una preferenza piuttosto per le sue instabilità e i suoi eccessi, per il suo tratto di opera non finita e «lanciata» al pubblico come un «patema». E l'introspezione realizzata attraverso l'analisi stilistica, porta Ramat a esprimere un giudizio meno severo sul romanzo di Jahier Con me e con gli alpini rispetto a certi monografi e a qualificarlo come un'impresa "oltre" la letteratura, esperienza religiosa (con una certa simbologia numerica) e auto-pedagogica in una fase di «vita assoluta».

Il titolo della terza sezione I luoghi, le trame, le ore coglie «la sostanza poetica» riassumendola in una sola parola: così «i luoghi» sono le città del poeta-pittore Valeri, «incline alla lirica bozzetto»; «le trame» quelle dei Mottetti montaliani, «un romanzetto in equilibrio tra fantasia e realtà, visione e disinganno», la cui protagonista è la Poesia e la sua ispiratrice una donna con la sua forza e la sua fragilità; «le ore» quelle di Betocchi, che aspira ad un «puro linguismo», cònsono al naturale e popolare sentire e a cui dedica «l'atto quotidiano del parlar materno».

Nella quarta sezione, dedicata alla Terza generazione, Ramat, esperto conoscitore dell'ermetismo, ritorna sul saggio di Bo del '38 Letteratura come vita captando una «politicità virtuale» in luogo dell'abituale definizione di «resistenza passiva», di «assenza». Lettura che rende giustizia a tutto un gruppo di poeti (da Luzi a Macrì, da Bigongiari a Gatto) che ribadiscono «l'urgenza di non-compromissione al fascismo» e «l'impazienza di aver di fronte uno spettacolo non più tollerabile». Tutto si accentua nel «testo», il cui valore dipende dal grado di «vita», nel senso che «la letteratura accetta la vita in un grado di maggior purezza o come simbolo svelato...». Facendo il punto sull' ultimo Luzi, quello del "grande codice", Ramat è di parere opposto ai molti critici che hanno visto nella raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti un punto di rottura rispetto alle precedenti: per lui si tratta invece dell'aggregarsi di un patrimonio lessicale elaborato in tempi molto lunghi e del recupero di una nomenclatura tipicamente luziana che nasce già a partire da Un brindisi e Quaderno gotico. Si tratta inoltre di un «monologo senza risposta» influenzato dalla scrittura teatrale (di Rosales) e non certo di un tic, ma «dell'esigenza di fissare il punto di mira, di attualizzarlo». E questo vocabolario legato agli «elementari» del codice naturale (sotto il cui segno matura Luzi) racchiude «il pensiero che pensa tutti». E «figlio naturale» viene definito Caproni (primo recensore di Luzi), i cui versi sono «nati in simbiosi col vento». Secondo Ramat alla raccolta Il seme del piangere dovrebbe essere data una più giusta attenzione, dato che la critica si è concentrata sul "rivoluzionario" Muro della terra. Il «poeta del fil di voce» non ambisce certo al ruolo di profeta-filosofo, ma forse nessuno più di lui ha «stuzzicato e disturbato le categorie e le certezze dei nostri pensieri».

I saggi racchiusi nella quinta sezione, Addenda e promemoria, sono tutti sotto il segno del «sentire dall'interno»: la raccolta di Cattafi Qualcosa di preciso è, per Ramat, tutt'altro che precisa e caratterizzata piuttosto da un'assoluta indeterminatezza dell'evento; le Fantasie d'avvicinamento di Zanzotto azzerano invece le distanze e le incompatibilità fra antichi e moderni; I versi della vita di Giudici sono tutt'altro che intimistici e, partendo dall'interno, fuoriescono in superficie, mentre le poesie di Bandini hanno tre radici da cui nascere - l'italiano, il dialetto, il latino - e sono circoscritte alle «cose della terra», quindi hanno struttura di microcosmo lievitante in spazi mobilissimi.

Con movimento circolare il volume si chiude - come si era aperto - con una sezione che contiene un unico saggio: è dedicato al XXXV canto di Leopardi, Imitazione di una favola di Arnault intitolata La feuille. Con un'analisi raffinata, Ramat riconosce il «respiro più largo di Leopardi grazie alla soluzione metrica adottata» e «l'infinita pieghevolezza e versatilità della lingua italiana». La scelta di Leopardi testimonia l'omaggio a uno dei padri maggiori della lingua della Poesia del '900, alla sua volontà di fondere l'antico e il moderno.

 

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Dicembre 2003, n. 2