Remo Ceserani
Ricordanze. Riflessioni sulla riforma universitaria

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
Introduzione
L'università: indicazioni di comportamento
L'ateneo bolognese: alcuni ammonimenti
Critica letteraria e letterature comparate



§ II. L'università: indicazioni di comportamento

I. Introduzione

La mia esperienza si è svolta in tre ambiti ed è a essi che si riferiscono queste mie ricordanze.
Un primo ambito è quello dell'università nel senso più ampio, come comunità di ricerca e insegnamento. Come studente, assistente e professore ho operato in istituzioni molto diverse, ho assistito a grandi cambiamenti, da ultimo nell'Italia dei nostri tempi ho assistito alla faticosa e controversa attuazione di una riforma del sistema universitario organica, ma purtroppo assai confusa e pasticciata. Da tutte queste realtà ho ricavato occasioni di riflessione, analisi, ammonimenti: ricordanze, appunto. Il mio ruolino di marcia recita: Milano 1953-56, Yale 1957-58, Berkeley 1959-1961, Milano 1962-1965, Pisa Scuola normale e Università 1966-1986, Genova 1987-1989, di nuovo Pisa 1990-1995, Bologna dal 1996 a oggi. Visiting professor a Brown nel 1975, 1984 e 2001, a Melbourne nel 1977 e 1990, a Berkeley nel 1983 e nel 1997, a Harvard nel 1992, a Bloomington nel 1994; Gastprofessor a Essen nel 1991 e a Tübingen nel 2001. Ho insegnato letteratura italiana, storia della critica letteraria, teoria della letteratura, letterature comparate.
Un secondo ambito è quello dell'università nel senso del mio luogo di lavoro e ricerca, e cioè dei dipartimenti o centri interdipartimentali in cui ho operato, a contatto con una comunità di colleghi e ricercatori, in Italia e all'estero, e di giovani allievi da avviare agli studi (per quanto riguarda questo ambito, mi soffermerò soprattutto sull'ultima esperienza, quella bolognese).
Un terzo ambito è quello del gruppo disciplinare che ho collaborato a costruire, tra non poche difficoltà e persistenti contraddizioni, negli ultimi quindici anni, e che ora si intitola "Critica letteraria e letterature comparate" e comprende, nel linguaggio del ministero, «gli studi che affrontano a livello teorico ed ermeneutico il problema generale della letteratura, dei generi, della produzione, diffusione e valutazione dei testi, e quello del confronto fra testi appartenenti a diverse letterature e culture, anche ai fini della loro resa letteraria in una lingua diversa da quella in cui sono stati elaborati». Esso comprende, infatti, discipline assai differenziate come: teoria della letteratura, letterature comparate, ermeneutica e retorica, metodologia e storia della critica letteraria, semiotica del testo, sociologia della letteratura, storia della critica e della storiografia letteraria, teoria e storia dei generi letterari, storia della retorica.

 

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II. L'università: indicazioni di comportamento

Anzitutto il primo ambito, quello dell'università in senso ampio.
Faccio alcune premesse. Mi sembra che sia da respingere e da considerare obsoleta, nella nuova università, sia negli Stati Uniti sia in Europa, la distinzione netta fra aree delle scienze naturali e aree delle scienze umane. In tutte le università del mondo a capitalismo avanzato la dialettica più forte è tra aree scientifiche e di ricerca, che comprendono anche le scienze umane, e aree più legate alle attività esecutive, tecniche e manageriali. C'era, un tempo, in molti paesi, una distinzione fra da una parte le università che avevano come compiti la ricerca e la formazione culturale delle classi dirigenti, e dall'altra le scuole a livello avanzato tecniche e professionalizzanti: i politecnici, le Hochschulen, le scuole di medicina, le strutture speciali per la preparazione degli insegnanti delle scuole primarie e secondarie, le accademie, i conservatori. La distinzione a volte riguardava istituzioni diverse, altre volte si riferiva a settori diversi dentro la stessa istituzione, ma era comunque sempre molto netta e aveva un suo valore gerarchico: altra cosa era la ricerca di base nella chimica, nella fisica, nella biologia, nella fisiologia, altra cosa erano i corsi professionalizzanti per ingegneri, medici, architetti; diverso era lo studio della filosofia o della storia del diritto o dell'economia, diverso l'addestramento alla pratica legale o alle professioni commerciali. Gradualmente, sulla spinta degli sviluppi e delle esigenze della moderna società industriale, le scuole professionalizzanti hanno preso un posto sempre più di rilievo dentro l'università, hanno assorbito energie e attirato finanziamenti, hanno cambiato gli equilibri e trasformato compiti e organizzazione dell'intera istituzione. Le grandi università americane, come Harvard e Yale, la cui caratteristica principale è stata tradizionalmente quella di essere dei college dedicati all'educazione degli undergraduates nelle scienze di base e nelle arti liberali e al tempo stesso dei luoghi avanzati della ricerca primaria (research Universities) hanno a lungo resistito prima di ammettere sui propri campus le scuole professionalizzanti (accanto alla Law school per la formazione di magistrati e avvocati e alla Faculty of Theology per la formazione dei pastori delle chiese protestanti, che avevano già una lunga tradizione). Alla fine, dopo parecchie incertezze, cedendo alle convenienze e alle esigenze del mercato, hanno progressivamente allargato le maglie e sono giunte ad ammettere anche la scuola di Management, che è forse la più lontana dal modello dell'università di educazione liberale e di ricerca, ma è quella che porta più quattrini. Processi analoghi si sono avuti nelle università europee. In Germania le Hochschulen sono state trasformate in università. Da noi il tutto è avvenuto in modo confuso, con la frequente inserzione di istituzioni private nel processo di frammentazione e ristrutturazione.
Questa trasformazione può non piacerci e spingerci a rievocare nostalgicamente tradizioni nobili e modelli diversi di università del passato, e però credo che si tratti di un processo irreversibile, condizionato dallo sviluppo storico delle nostre società, al quale è velleitario pensare di opporsi in modo pregiudiziale e rigido, e che tuttavia credo che si possa e si debba governare, con interventi di riequilibrio, con battaglie per correggere le disuguaglianze tra aree di ricerca e aree professionalizzanti, per far valere le esigenze di crescita culturale complessiva dei nostri paesi rispetto alle esigenze immediate e transeunti di questo o quel settore, per mantenere i finanziamenti statali alla ricerca di base a un livello consistente e lungimirante, nettamente privilegiato rispetto ai finanziamenti settoriali, spesso legati alle esigenze delle istituzioni militari e a quelle delle industrie private.
Una distinzione forte, che è al centro delle tensioni più potenti nell'università in trasformazione, è quella fra da una parte l'università come luogo di formazione culturale, dialogica, civile (addirittura, negli ideali ottocenteschi, nazionale), e come luogo di ricerca libera, collettiva, comunitaria, nei più diversi campi del sapere, investita anzi del compito di conservare e revisionare a ogni generazione l'intero assetto dei saperi, in una continua dialettica fra conservazione e innovazione e dall'altra parte l'università come scuola superiore (Hochschule), addestratrice di funzionari delle amministrazioni dello Stato o del management delle grandi corporations, di professionisti nei più diversi campi dell'attività industriale o in quelli delle attività sociali (medici, liberi professionisti, insegnanti, psicologi, ecc.).
Le grandi università della moderna tradizione europea (Sorbona, Cambridge, Oxford, Tübingen, Heidelberg, Salamanca, Bologna, Padova, ecc.) e anche quelle americane hanno cercato di mantenere un equilibrio e anzi uno scambio continuo di energie fra le due attività: ricerca e insegnamento, formazione culturale e scientifica (saperi, pensiero e linguaggi, metodi della ricerca) e formazione tecnica, esecutiva, professionale. Questo equilibrio, per poter essere mantenuto, richiede finanziamenti ampi e non rigidamente finalizzati a profitti e risultati immediati, sostegno e coordinamento delle istituzioni statali, una rete organica e coordinata di centri di ricerca in connessione e in nobile gara fra loro, forme corrette, disinteressate e trasparenti di selezione e cooptazione a tutti i livelli, dall'ammissione degli studenti al reclutamento dei ricercatori e dei professori. Lo sviluppo tumultuoso delle università nella seconda metà del Novecento ha reso quel modello e quell'equilibrio difficilissimi da mantenere. Nel frattempo la pressione di enormi masse di studenti ha scardinato tutto il sistema, intasando le grandi università tradizionali, stimolando gli enti più diversi a fondarne di nuove. Nuove università sono sorte come funghi in luoghi e territori spesso privi di strutture adeguate, appoggiati a una insufficiente tradizione di ricerca, quasi sempre squilibrati a favore della formazione puramente professionale o di quella culturale di basso livello.
Ecco, sulla base di queste premesse, alcune indicazioni di comportamento:

  1. È inutile combattere contro la professionalizzazione precoce, che viene inserita nel sistema su richiesta pressante delle aziende, del mondo economico, delle autorità politiche e che ha una sua logica funzionale anche se non formativa. Si può contrapporvi, tuttavia, una serie di richieste, che vanno fatte in tutte le occasioni e a tutti i livelli: una richiesta continua di formazione più ampia e non-funzionale, con corsi fatti fuori dalle aree professionalizzanti (corsi di filosofia a ingegneria, di storia a medicina, di letteratura a economia), momenti di discussione su significato e portata delle singole professioni, del loro posto nella società e dei valori etici che esse comportano, richieste di scorrimento senza impedimenti da un'area all'altra, da un livello di laurea all'altro, da una professione all'altra, da un master professionalizzante a corsi e seminari formativi, in nome se non altro di una delle parole ideologiche correnti: la flessibilità.

  2. Credo che sia anche inutile opporsi al sistema dei crediti, nonostante il loro carattere negoziale e quasi bancario. Essi sono, oltretutto, richiesti dall'uniformazione europea, anche se sono radicate e persistenti, e forse necessarie, le differenze fra i sistemi di valutazione dei diversi paesi e atenei. Si può, tuttavia, complicarne la logica burocratica e puramente contabile rifiutando di fare corrispondere unità di credito a numeri di pagine lette e preparate per un esame, rovesciando il vecchio sistema degli esami a fine corso con prove e valutazioni in itinere, promovendo il più possibile corsi di tipo seminariale con lavoro individualizzato e di tipo dialogico nel senso in cui ne parlano Bachtin e Readings, allacciando rapporti con università straniere in modo integrato e privilegiando quelle che non usano sistemi automatici di crediti, ma che sono disposte a un lavoro comune più profondo, confrontando le proprie debolezze e i propri punti di forza. Qui possono servire, le esperienze che abbiamo fatto con la scuola estiva Synapsis, con la scuola superiore di Eco SSSUB e con i seminari che abbiamo organizzato in comune con Tübingen in Germania, e Cambridge e Oxford in Gran Bretagna.

  3. Credo che vada invece rifiutata in partenza la logica centralizzata che stabilisce tempi uniformi per i vari corsi: tre anni per la prima laurea, due anni per quella specialistica, tre anni per il dottorato. La scelta che è stata fatta da chi ha impostato la riforma è assurda e non è vero che sia suggerita da esigenze di uniformità europea, perché molti paesi europei hanno sistemi diversi e comunque più flessibili. È a tutti evidente che non si possono uniformare i tempi di studio nelle diverse aree e discipline: alcune richiedono tempi molto più lunghi di altre, alcune possono appoggiarsi su una preparazione nella scuola superiore altre no; studiare il cinese o la teoria dei sistemi richiede sicuramente tempi più lunghi che studiare lo spagnolo o il motore a scoppio. Per combattere l'assurda logica uniformatrice del sistema introdotto dalla riforma si può fare leva su una delle parole d'ordine del nuovo corso, quella dell'autonomia: che autonomia è quella che deve adattarsi a regole e scansioni rigide imposte dal centro? Dove vanno a finire le diversità fra le realtà locali, fra i percorsi di studio, fra le capacità individuali? Ancora più decisamente va respinta la logica che introduce misure fisse nei tempi di svolgimento dei corsi, uniformità e rigidità nel loro svolgimento. È capitato che nei questionari sottoposti agli studenti compaia la domanda: "il professore si è attenuto nelle lezioni al programma enunciato all'inizio e pubblicato nelle bacheche delle facoltà?": una domanda che sottintende un giudizio negativo su quei professori che non si attengono al programma e se ne allontanano più o meno ampiamente. Mi pare invece che un professore che cambia il programma in itinere, dopo aver conosciuto i suoi studenti e misurato le loro capacità e ritmi di apprendimento, dimostri di avere una genuina vocazione pedagogica e vada semmai lodato per la sua attenzione ai bisogni dei suoi allievi.

  4. Va respinta nettamente l'idea, purtroppo diffusissima e ripetuta a ogni piè sospinto da autorità accademiche, uomini politici, amministratori, giornalisti, che l'università sia un'azienda e debba essere governata con le stesse regole con cui si governa un'azienda. Per quanto le modifiche degli ultimi decenni abbiano trasformato profondamente e irreversibilmente l'università, il nostro compito è di preservarne la natura più genuina e originaria, humboldiana, di comunità scientifica e didattica basata sulla crescita collettiva, sul lavoro e la sperimentazione comuni e solidali, sul dialogo, e non sulla competizione esasperata come avviene in un'azienda. Certo il germe della competizione e lo spirito aziendale sono ormai molto forti nelle nostre università: ne dà prova la forte litigiosità dei gruppi di ricerca e dei membri dei vari dipartimenti, che esibiscono una conflittualità, spesso molto personale e caratteriale, che è in netta contraddizione con lo spirito tradizionale della universitas, come luogo di collaborazione scientifica e formazione condivisa.

  5. Va evitato il più possibile l'uso del termine eccellenza e va respinta la logica a cui esso si richiama e che viene spesso evocata al momento di fondazione di scuole di eccellenza, collegi di eccellenza, ecc. L'idea dell'eccellenza, che arriva all'università dal mondo delle aziende e dei mercati, è strettamente collegata con pratiche di competizione esasperata ed è in netta contraddizione con l'ideale forte e antico dell'università come luogo di ricerca e formazione collettive.

  6. Vanno rifiutate con decisione, e comunque non affidate alle scelte degli uffici amministrativi, tutte le pratiche di valutazione quantitativa, le tabelle di corrispondenze, i quiz a risposta chiusa, le graduatorie di merito del lavoro di professori e studenti basate semplicemente su misure quantitative, non accompagnate da accertamenti individuali e collettivi, affidati a commissioni responsabili e trasparenti, attraverso un pubblico confronto (e magari anche uno scontro) di idee e opinioni.

  7. Va sostenuta con forza una richiesta di finanziamenti statali adeguati delle strutture universitarie, considerate un bene di investimento primario per l'intera società e non un'azienda che si fonda soltanto sul principio individualistico del rapporto di scambio fra tasse di iscrizione e frequenza da parti degli studenti e servizi a essi in proporzione erogati. L'università europea, ora che gli investimenti statali per ricerche finalizzate (anche di tipo militare) sono in netta diminuzione, non può evitare di ricorrere anche a finanziamenti a contratto di aziende private, enti locali, regionali, nazionali e sopranazionali. E però non deve, per principio, perdere il suo carattere di impresa collettiva. È interesse della società in generale che nascano al suo interno non solo i luoghi della formazione funzionalizzata e finalizzata, ma anche quelli della difesa e apprendimento delle diverse culture che la compongono, dalla costituzione del consenso e anche di quello che è stato definito il non-consenso (in altri tempi si parlava di pensiero critico e antagonistico).

  8. Va combattuta, almeno nella situazione italiana, la tendenza a espandere il numero delle università private. Molte di esse puntano proprio sui corsi professionalizzanti (dalla medicina al management alle attività di servizio) e quindi contribuiscono allo squilibrio generale del sistema, con l'inevitabile impoverimento delle risorse che i governi mettono a disposizione delle università pubbliche.

  9. Vanno rifiutate deleghe sostanziose del governo universitario, soprattutto per quanto riguarda ammissioni, valutazioni, istituzioni di dipartimenti e aree di ricerca, organizzazioni dei corsi, a organi amministrativi dotati di autonomia decisionale e funzionale. La tradizione, molto forte, nelle università europee, di essere governate da organi costituiti in prevalenza da membri del corpo accademico e da studenti, ha subìto negli anni un forte indebolimento, con il passaggio di poteri dai senati accademici ai consigli di amministrazione. Il problema è divenuto quello della composizione dei consigli di amministrazione, dell'equilibrio tra le forze universitarie e sociali che vi sono rappresentate, dell'autonomia e automaticità delle sue decisioni. È questo uno dei punti decisivi della sopravvivenza. A essa devono lavorare i rappresentanti delle diverse forze universitarie, culturali, economiche, sociali, forniti di responsabilità, di impegno etico e di una sufficiente consapevolezza della trasformazione in atto e delle ragioni di resistenza contro gli interessi e le ideologie diffusi e coalizzati che la governano.

  10. Va con urgenza cambiato il sistema di reclutamento dei professori. L'attuale sistema dei concorsi è nato da un compromesso politico al ribasso fra un parlamento troppo incline a lasciarsi condizionare dalle pressioni corporative e un ministro che troppo presto ha abbandonato un progetto decente che lui stesso aveva presentato ed era in linea con le università europee (idoneità nazionali, concorsi locali con intervento di esperti stranieri, obbligo dei giovani reclutati di andare a radicarsi, magari anche temporaneamente, fuori dal loro ateneo di origine). Il sistema che ne è risultato è forse uno dei peggiori al mondo. Qualcuno lo ha giustificato come una ope legis mascherata che rimediava alle lungaggini e alle storture del sistema precedente. Va però detto che in questi tre-quattro anni di applicazione il sistema, oltre ad aver sanato situazioni incresciose, ha combinato guasti molto gravi, le cui conseguenze si avvertiranno per molti anni. In ogni caso l'università italiana ha bisogno di un sistema nuovo, trasparente, equilibrato, che faccia finalmente spazio alle forze giovani, che scelga solo e soltanto sulla base della qualità e dell'impegno nella ricerca e nell'insegnamento, senza subire condizionamenti di generazione, di località e ateneo, di scuola, di tendenza ideologica.

 

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III. L'ateneo bolognese: alcuni ammonimenti

Quanto al secondo ambito, che è quello dei luoghi specifici in cui ho operato, mi soffermerò soltanto sull'Università di Bologna e le facoltà, il dipartimento, il centro interdipartimentale, la scuola di dottorato, la scuola superiore con cui ho collaborato negli ultimi otto anni. Può sembrare ingeneroso che, a una comunità universitaria così antica e prestigiosa, che mi ha accolto con tanto calore e simpatia, io rivolga ammonimenti e raccomandazioni. Approfitto, tuttavia, di questa posizione di docente al termine della carriera, ormai vicino all'addio, e della congiuntura di crisi e trasformazione in cui ci troviamo tutti a operare, per formulare qualche ammonimento.

  1. Uno dei pericoli che corre una università di antica tradizione e strutture di ricerca e insegnamento ben radicate e funzionali come Bologna è quello di faticare ad adattarsi alle novità, qualsiasi esse siano, buone o cattive. Non è un caso che in altri paesi, ma anche da noi, tutte le forme di sperimentazione nell'inventare nuove aggregazioni scientifiche, nuove gerarchie disciplinari, nuovi corsi di studio hanno avuto spesso come veicolo le università piccole, nuove e periferiche. È vero che Bologna può vantare il caso particolare del DAMS, una interessante e intelligente combinazione fra una spinta innovativa verso la preparazione alle professioni collegate con il mondo dei media e dello spettacolo e un impianto disciplinare forte e marcato, con al centro l'estetica e la semiotica. Ma di casi come il DAMS non se ne sono avuti molti. Credo che ci sia bisogno di un po' di spregiudicatezza e di molta immaginazione, soprattutto quando saremo chiamati a delineare definitivamente i corsi delle lauree specialistiche. Credo che la costruzione di percorsi nuovi e formativi per gli studenti e di buon auspicio per i settori di ricerca dipenderà dalla capacità dei corpi docenti di superare le barriere che dividono un dipartimento dall'altro, una facoltà dall'altra. Solo andando a raccogliere le risorse là dove si trovano, anche in facoltà diverse, si potranno fare progetti davvero innovativi.

  2. Venendo da Pisa, una delle differenze più forti che ho avvertito a Bologna è che, mentre a Pisa la presenza della Scuola normale e la misura ridotta della città e del bacino d'utenza dell'ateneo hanno operato un continuo rimescolamento del personale universitario, con frequenti immissioni di persone provenienti da ogni parte d'Italia, a Bologna, nonostante la provenienza estremamente varia della popolazione studentesca, attirata qui da ogni parte d'Italia e da molti paesi stranieri, c'è, nel corpo docente, un nucleo consistente di famiglie e scuole locali (e anche qualche organizzazione occulta), che sono fortemente radicate e dominanti nell'ateneo, e tendono a trasmettere dinasticamente i bastoni del comando, agendo come elemento di conservazione. Credo che una politica di reclutamento più coraggiosa, aperta ai giovani e senza filtri e steccati, gioverebbe grandemente alla vita del nostro ateneo.

  3. Una cosa buona, con notevoli potenzialità, è costituita dalla SSSUB. Essendomi capitato di fare da advisor esterno alla corrispondente scuola superiore napoletana, ho potuto confrontare le due realtà e apprezzare il modo in cui Umberto Eco ha impostato le attività della Scuola bolognese, puntando a un giusto equilibro fra lezioni magistrali e attività di lavoro seminariale e di ricerca in comune fra tutti i dottorati di scienze umane, mettendo le fondamenta di una possibile Graduate school bolognese. Questa esperienza, seppur breve, può servire da modello ed essere di grande aiuto per dare un'organizzazione coerente e non frammentaria ai fin troppo numerosi dottorati specifici, a volte addirittura doppioni di dottorati, gestiti da singoli settori. Mi permetto di segnalare l'esperienza della scuola estiva interdisciplinare Synapsis, che viene organizzata ogni anno dal nostro Centro interdipartimentale di Bologna in collaborazione con l'Università di Siena e numerose università europee, ed è assai più che una scuola estiva: un vero modello di lavoro collettivo interdisciplinare.

 

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IV. Critica letteraria e letterature comparate

Quanto al terzo ambito, che è quello del Gruppo disciplinare "Critica letteraria e letterature comparate", dopo le esperienze fatte nelle riunioni dell'associazione italiana di Teoria e storia comparata della letteratura, in quelle dell'associazione internazionale AILC-ICLA, nelle riunioni ministeriali di consulenza del CUN, nelle commissioni di concorso, mi permetto di ricordare che fra le ragioni di fondo delle difficoltà incontrate dalla riforma ci sono state da una parte la decisione deleteria di fissare i piani di studio dei corsi di laurea, a tutti i livelli, in modo centralizzato, autoritario e burocratico, e dall'altra parte l'attività intensa di lobbying compiuta dai gruppi disciplinari, in particolare da quelli più forti, per avere una presenza garantita e consistente in quei piani, con il risultato che alla fine le autorità centrali, per soddisfare le esigenze dei gruppi più forti e dare un contentino a tutti, hanno imposto presenze spesso non necessarie al profilo fondamentale dei corsi e sminuzzato i percorsi didattici, riducendoli a una sommatoria delle più diverse discipline, senza nessun piano d'assieme coerente e caratterizzante. Io, che insegno una disciplina come letterature comparate, che dovrebbe fare da ponte fra le varie letterature nazionali e avere un ruolo di riflessione e confronto meditato e consapevole tra alcuni insegnamenti settoriali, mi trovo a fare per il triennio dei corsi che valgono tre crediti e consistono in una visitina ai grandi temi della letteratura mondiale.
Noi come associazione, e io personalmente, ci siamo adoperati per unire insieme due gruppi disciplinari: quello di teoria della letteratura e letterature comparate e quello di critica letteraria e storia della critica. Credo che questa mossa strategica fosse giusta e inevitabile, anche se ha prodotto un gruppo disciplinare abbastanza disomogeneo, che crea non pochi problemi (questo non tanto per responsabilità nostra, quanto perché è stata tradizione in passato, quando alcune delle discipline dell'attuale raggruppamento facevano parte di altri raggruppamenti, come letteratura italiana o letteratura italiana contemporanea, sistemare su questi insegnamenti, per ragioni di comodo, persone che non avevano il profilo specifico della disciplina ma che era necessario collocare in qualche modo). Da una situazione così complessa discendono alcune precise regole di comportamento:

  1. È necessario rafforzare l'associazione, tenendo conto del suo carattere duplice: essa è al tempo stesso un'associazione professionale, che raccoglie tutti i docenti che insegnano le discipline del gruppo, e un'associazione culturale, che ha fra i suoi membri molti docenti che appartengono ad altri gruppi disciplinari ma hanno un interesse per la teoria letteraria e i rapporti fra le varie letterature. Tenendo conto di questo carattere della nostra associazione, che la differenzia da altre associazioni rigidamente disciplinari, va portata avanti una duplice politica: a) operare sul piano universitario per ottenere una maggiore omogeneità fra tutti gli appartenenti al gruppo disciplinare di riferimento; b) operare sul piano culturale per attirare nuove forze, stimolare la discussione teorica, fornire momenti e strumenti di incontro. Vanno rafforzati i rapporti con le associazioni affini, che operano nell'ambito di studio delle letterature nazionali o degli studi interdisciplinari. Nel contempo vanno rafforzati i legami internazionali. Già l'Italia è presente, grazie alla collega Mildonian, nel bureau dell'AILC-ICLA con incarichi di responsabilità. E l'attuale presidente Mario Domenichelli ha partecipato a incontri per la costituzione di un'associazione europea e si è assunto l'incarico di coordinatore.

  2. Forse, anziché scoraggiarsi per le troppe disparità di interessi e profili di studio degli attuali docenti del raggruppamento e membri dell'associazione, sarebbe opportuno accettare la scommessa e puntare alla costituzione di una grande associazione di letterature moderne, simile alla MLA americana, la quale ha poi due sottosezioni, una dedicata alla letteratura inglese e americana, l'altra a tutte le altre letterature. I risultati sarebbero, a mio parere, molto importanti sul piano culturale: la letteratura italiana è stata fin dalle sue origini immersa dentro un insieme di altre letterature, non solo romanze. Le differenziazioni interne fra le varie tradizioni presenti nella letteratura italiana sono numerose, così come numerose sono state le lingue in cui nei secoli si sono espressi i letterati italiani (latino, provenzale, francese, spagnolo, inglese, ecc.). La critica letteraria che viene oggi prodotta nel mondo in lingue diverse e avente per oggetto temi della letteratura italiana ha raggiunto proporzioni massicce. In molti paesi la vicinanza fra i dipartimenti dedicati alla lingua nazionale, quelli dedicati alle lingue straniere, quelli dedicati agli studi teorici (semiotica, studi etnici, studi culturali, ecc.) ha avuto effetti molto positivi e arricchito la produzione critica sulla letteratura nazionale. In Italia, date le nostre condizioni storiche, gli effetti sarebbero probabilmente ancor più positivi.

  3. Sarebbe molto importante, inoltre, secondo me, impegnarsi sul piano normativo e ottenere dal legislatore universitario la revisione dell'attuale norma che impedisce il cosiddetto double appointment. Se consentito anche in Italia, esso permetterebbe di avere un numero di professori che prestano la loro opera in parte nell'ambito del nostro raggruppamento, in parte in altri raggruppamenti (letterature classiche, letteratura italiana, altre letterature, storia dell'arte, storia della musica, storia del cinema, estetica, ecc.). A mio avviso il nostro raggruppamento non ha bisogno di moltissimi professori titolari (anche perché non sono così numerosi quelli che hanno la preparazione e gli interessi così fortemente concentrati sulle nostre discipline), mentre può essere molto ampio il numero di coloro che possono essere interessati a tenere corsi, organizzare seminari e gruppi di ricerca, impegnandosi solo part-time in un eventuale dipartimento o centro interdipartimentale di teoria e storia comparata della letteratura.

  4. Sarebbe, intanto, molto utile portare avanti, nelle varie realtà in cui operiamo (dipartimenti, facoltà, centri interdipartimentali) una collaborazione stretta con gli altri insegnamenti letterari, in particolare con quelli che si occupano della letteratura nazionale. Un rapporto dialettico fra letteratura nazionale, teoria della letteratura e letteratura comparata si è manifestato in molte realtà, e in molte si sono avuti tentativi egemonici e di gestione autonoma da parte degli insegnamenti della letteratura nazionale (con lettura di testi in traduzione). Questi tentativi, là dove sono stati attuati, sono stati quasi sempre poco interessanti e produttivi, tendenzialmente asfittici. Una collaborazione aperta e senza invidie e sospetti credo che sarebbe molto più proficua, e positiva per gli atenei che decidessero di incoraggiarla. L'augurio è che quello di Bologna si metta finalmente su questa strada, superando le remore tradizionali.

  5. È vitale e necessario per la nostra disciplina, ancor più forse che per le altre, fare una politica di reclutamento e incoraggiamento dei giovani. Con il loro aiuto si possono organizzare gruppi di ricerca interdipartimentali e interuniversitari, con collaborazioni sia in Italia che all'estero (possono servire da modello i corsi che abbiamo organizzato negli anni scorsi in collaborazione con l'Università di Tübingen e il seminario che abbiamo avviato l'anno scorso e ripeteremo quest'anno con Oxford e Cambridge).

Se si vuole portare avanti questo tipo di politica di reclutamento e rafforzamento del nostro gruppo disciplinare, è indispensabile rifiutarsi, in questa fase, di organizzare concorsi per professore ordinario, e puntare invece su quelli per professore associato, e soprattutto su quelli per ricercatore.

 

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Dicembre 2003, n. 2