Massimo Fusillo
Una letteratura europea pluralista e «politeistica»

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Giusto dieci anni fa sono apparsi due contributi sulla nozione di letteratura europea che giungevano a risultati assai differenti: Lo studio della letteratura europea di Guido Padano, pubblicato sull'«Asino d'oro»,1 e il capitolo della Storia d'Europa di Einaudi, firmato da Franco Moretti.2 Partendo da una conversazione radiofonica di Eliot, L'unità della letteratura europea,3 che mette in parallelo la propria poesia con quella di Rilke e di Yeats, sottolineandone la comune ascendenza da Baudelaire e da Valery (e da Poe), Paduano enfatizza la continuità con la tradizione classica, che è uno dei fattori primari dell'unitarietà di cui parla Eliot. Di fondo sono gli stessi presupposti alla base della grande opera di Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino: l'idea che la letteratura europea sia un campo omogeneo, una nozione storica più che geografica, frutto di una spiccata continuità di temi e di topoi (soprattutto se si allarga l'analisi anche ai «testi cugini», che non hanno fra di loro un rapporto di dipendenza diretto). Per Moretti, invece, la letteratura europea raggiunge la sua grandezza massima proprio nel momento in cui si libera dal peso della tradizione classica: basta pensare al classico europeo per eccellenza, Shakespeare, che sapeva poco latino e pochissimo greco, e proveniva da una nazione allora marginale. O comunque a tutti i momenti in cui l'Europa ha prodotto le maggiori innovazioni: la tragedia barocca, il romanzo, il modernismo. Mentre, per quanto riguarda il presente, questa carica innovativa sembra (definitivamente?) spenta. Molti ricorderanno la bella battuta con cui si chiude il saggio: un continente che si innamora di Milan Kundera faccia pure la fine di Atlantide.

In realtà la contrapposizione fra le due proposte critiche è meno netta di quanto si possa credere a prima vista. Soprattutto se si guarda al modello di tradizione classica che ha in mente Paduano: molto inquieto e problematico, e per nulla classicistico. E se si pensa che la rottura edipica spesso non è che una forma di legame ancora più forte che la mimesi ammirativa. C'è un punto, però, del saggio di Moretti che oggi va particolarmente valorizzato, e che è invece poco trattato da Paduano (forse a causa dell'occasione celebrativa e ufficiale che ha generato il suo saggio, nato come prolusione all'inaugurazione del 650° anno dell'Università di Pisa): la visione pluralistica dell'Europa, o, come scrive talvolta Moretti, «politeistica» (sull'uso allargato di questo termine si legga il saggio di Marc Augé, Genio del paganesimo, da poco riproposto in Italia da Bollati Boringhieri), contrapposta all'idea di un'Europa monoliticamente cristiana celebrata da Novalis (un'idea che il famigerato preambolo della Costituzione europea, di cui si è tanto discusso in questi ultimi mesi, voleva più o meno riproporre).
Come ogni forma di identità, l'identità europea non è un'essenza, un'entità definibile in maniera rigida, ma è un processo performativo, per prendere a prestito un concetto nato nell'ambito del teatro e delle arti visive, ma che sta ricevendo di recente un'applicazione sempre più ad ampio raggio, incluso il campo dell'identità sessuale (la queer theory). Pensare l'identità in termini performativi significa pensarla come un ruolo che si gioca in parallelo ad altri ruoli, alle singole identità nazionali in questo caso, che a loro volta convivono con le identità locali. È un insieme complesso fatto di confini, di margini e di egemonie sempre mutevoli e provvisorie: basta pensare al rapporto dell'Europa con la Russia, con la Turchia, con i paesi dell'Est o con l'estremo Nord. La mappa della letteratura europea è infatti un concetto estremamente problematico, soprattutto in età postcoloniale. Se è vero, come sostiene Paduano, che il termine «occidentale» è poco preciso oltre ad essere abusato (come si dovrebbe considerare la letteratura australiana?), è anche vero che usare il termine «europeo» per tutte le letterature scritte in lingue europee, come è stato fatto nella monumentale e controversa Histoire de la littérature européenne di qualche anno fa, può risultare forzoso ed eurocentrico (non si possono annettere alla letteratura inglese Soyinka o Walcott, tralasciando la loro innegabile specificità culturale). Bisogna quindi tracciare una mappa inevitabilmente aperta, che rifiuti la nozione di centro e che faccia della propria provvisorietà e della propria fluidità un punto di forza e non una semplice necessità.

Nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione dei due interventi di Moretti e Paduano da cui siamo partiti si è insistito sempre di più sul tema della globalizzazione. Senza addentrarci nella discussione di un concetto fin troppo di attualità, ci limiteremo ad alcune considerazioni sulla letteratura (e sull'identità) europea oggi. Come osserva Moretti, nel mondo contemporaneo la produzione artistica si sviluppa soprattutto nelle grandi metropoli, accomunate dalla circolazione di temi e immagini simili. Berlino è molto più vicina a Manhattan di quanto lo sia a Lubecca. Nella letteratura (soprattutto nella narrativa) postmoderna esiste ormai una koiné che va dal Giappone alle capitali europee e all'America, e che si contamina con le situazioni locali (il cosiddetto glocal). A differenza di quanto preconizzava Pasolini, la modernizzazione degli anni Sessanta non ha portato allo sterminio delle culture locali, ma ad una loro ibridazione, che è poi da sempre una dinamica base dello sviluppo antropologico, in sé né positiva né negativa. Non è facile, perciò, nella letteratura contemporanea individuare un'identità europea precisamente definita, un qualcosa che accomuni fra di loro gli scrittori spagnoli, tedeschi, inglesi ecc., più di quanto li accomuna agli scrittori americani o sudamericani. La letteratura europea sta diventando sempre più una tradizione come quella classica, una memoria comune da preservare e da vivificare tramite il confronto con le altre produzioni letterarie e artistiche. Preservare non deve significare, infatti, imbalsamare: di fronte alla rapidità con cui si trasforma il mondo contemporaneo non ha senso rifugiarsi nella retorica umanistica, nella difesa apocalittica e oltranzistica di una specie in estinzione. Meglio, al contrario, accettare le sfide, e mettere in relazione e in reazione la letteratura europea con la molteplicità delle altre forme espressive e comunicative che si praticano oggi.

Questo genere di riflessioni investe inevitabilmente anche il piano della didattica. Trovandomi a presiedere un corso di laurea triennale in Letterature europee presso la Facoltà di Lettere dell'Aquila, sono stato costretto a constatare lo scarso successo di questa formula, pur in un contesto di grande espansione delle nuove lauree (all'Aquila la riforma ha visto un aumento di più dell'80% di iscrizioni a Lettere). A parte le ragioni di carattere strettamente locale (la competizione con il Corso di Studio di Lingue e Culture Moderne, all'interno di ben 10 nuovi corsi), la motivazione di fondo, su cui occorre riflettere, sta nella risposta limitata che sia la nozione di letteratura (sempre più incalzata da quella più ampia di cultura), sia la nozione di Europa trovano nella attuale popolazione studentesca, e in generale nella nostra società. Sarebbe troppo lungo anche solo tentare qui una analisi della crisi di entrambi i concetti; credo, però, che in parte essa derivi da un'identificazione tendenziale della letteratura europea con la tradizione, con tutte le connotazioni negative di immobilismo e conservazione che questo concetto spesso comporta; identificazione frutto talvolta di un eccesso di orgogliosa separatezza che ha da sempre caratterizzato gli studi letterari: di un chiudersi nella purezza e nella specificità del proprio linguaggio.
Eppure, nella scuola secondaria, da tempo si sta abbandonando lo studio della letteratura solo su base nazionale, e si sta praticando sempre più il confronto con le altre letterature e gli altri linguaggi artistici, spesso su base tematica. Ci si avvicina quindi alla meta, credo auspicabile, di uno studio della letteratura tout court, privilegiando ovviamente quella nazionale che si può leggere in originale, ma abbandonando le situazioni paradossali di un tempo, quando si passavano mesi su Foscolo e non si leggeva nemmeno un rigo di Cervantes. Mi sembra perciò importante che si producano anche nuovi strumenti di analisi. È una notizia positiva che alcune case editrici stiano pensando alla pubblicazione di Storie della letteratura europea. Sulla base di quanto detto sinora, è chiaro che un'impresa simile non può configurarsi come la semplice addizione di tutte le singole letterature nazionali; al contrario, deve saper intrecciare la sintesi storica con l'analisi di tutti gli elementi trasversali che ricorrono in diverse epoche e in diverse culture: movimenti, generi letterari, grandi temi, testi canonici che si trasformano in miti autonomi. E, soprattutto, deve praticare il confronto fra la letteratura, gli altri saperi (scienza, filosofia, diritto) e le altre forme di comunicazione artistica (arti visive, musica, spettacolo, cinema, televisione), seguendo la pratica della comparazione interartistica che rappresenta oggi, nel panorama internazionale, una delle prospettive più feconde della comparatistica. Questo non perché si voglia appiattire la letteratura in categorie ampie e generiche come il discorso sociale (cosa che accade talvolta in alcuni metodi della critica contemporanea, ad esempio in certo neostoricismo), ma perché le sue peculiarità (non definibili in astratto, ma certo percepibili di volta in volta e di contesto in contesto) ricevono una illuminazione particolare dal confronto con l'alterità di forme espressive diverse (soprattutto se si abbandona ogni idea di superiorità e di purezza della scrittura letteraria): di tutte le innumerevoli forme di cui si alimenta oggi l'immaginario umano.

 

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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2003

Giugno 2003, n. 1