Intervista a Andrea G. Pinketts
a cura di Silvia Pedretti e Anna Pegoretti

 

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I tuoi testi sembrano fortemente segnati dalla contaminazione a tutti i livelli: da quelli linguistico e formale (penso ai "prelievi" espliciti per es. dai fumetti), fino ai personaggi che mescolano gli aspetti più disparati della storia e del costume degli ultimi anni, o che assumono sembianze di animali, al limite della favola. È possibile ripercorrere da questo punto di vista la tua produzione?

Sangue di Yogurt è il mio libro di maggior contaminazione, nel senso che pesco personaggi da fumetti o cartoon, tant'è vero che ho fatto fare le tavole di Spara pure, è un papero ad Antonio Terenghi, autore di Pogo il Dritto e altri personaggi che hanno popolato l'immaginario dagli anni '50. Sono storie di orgogliosa emozione: il maccartismo che perseguita i paperi, la sonnolenta provincia francese che ha per protagonisti due giornalisti radiati dall'albo per scorrettezza e indisciplina, e quindi per un forte codice morale. La metafora del '68 emerge in E chi porta le cicogne? in cui un vecchiaccio, a distanza di 20 anni torna ad incendiare bambini, ormai trentenni irrisolti, quali sono i reduci del '68, tipo Franco Piperno (ex capo di Potere operaio). Ancora il mondo della tv visto attraverso il rapporto da cartoon tra una valletta, razza in via di moltiplicazione, e un riccio, animale in via di estinzione, come il panda, ma che essendo meno grazioso, a nessuno gliene frega niente. La dimensione che cerco di esplorare è ai limiti del fiabesco e del favolistico contemporaneamente, che non sono la stessa cosa. Umani e altri animali interagiscono, com'è avvenuto originariamente con Mary Poppins. In questo libro divento una sorta di Dr. Doolittle, non quello di Eddy Murphy, ma quello di Rex Herrison, che parla il linguaggio degli animali.


I tuoi romanzi sono difficilmente inscrivibili nei generi letterari tradizionali e si discostano dal panorama italiano del giallo e del noir. A chi guardi nella composizione dei tuoi libri?

Sicuramente a William Shakespeare per il senso del gioco e della costruzione verbale. Restando invece in un campo apparentemente più simile, a Fredrich Dar, che è uno scrittore francese che ha firmato una serie di sterminati, interminabili romanzi con lo pseudonimo di Saint Antonion, in cui riprendeva il concetto della lingua in modo addirittura dantesco, rabelaisiano e assolutamente divertito, spremendo la lingua come se fosse una sorta di limone, tirandone fuori ogni potenzialità e sfruttandola affinché, al di là della storia organizzata e schematizzata nel racconto, nascessero delle Storie e persino delle parole.


In che senso l'opera di Shakespeare è per te un punto di riferimento?

Pensi all'idea dell'autore popolare che scrive in realtà delle cose raffinatissime, che si esercita con la lingua, che fa sì che qualsiasi vecchio e frusto canovaccio, come quelli che sceglieva (le storie originali non sono necessariamente sue, anzi non lo sono mai state), diventino opere sue, perché le arricchisce, perché crea un companatico che è superiore al pane, perché la lingua diventa veramente una sorta di work in progress continuo.


Ti identifichi nel personaggio di Lazzaro Santandrea?

Io sono Lazzaro Santandrea, lui ha i miei ricordi, il mio passato, però è contemporaneamente un personaggio autobiografico e un alter ego. Andrea Pinketts e Lazzaro hanno la stessa opinione l'uno dell'altro e, essendo uguali, sono inevitabilmente costretti in qualche misura a scontrarsi.


Sulla copertina di L'assenza dell'assenzio, si legge: «Rimbaud smise di scrivere a diciannove anni, quando, lasciatosi alle spalle l'assenzio, la droga dei poeti maledetti, si mise a fare l'avventuriero. Lazzaro Santandrea, benché giunto ad un'età assai più matura, continua ad assumere assenzio senza smettere di fare l'avventuriero». Andrea G. Pinketts e Lazzaro Santandrea hanno qualcosa in comune con i poeti maledetti? E questo personaggio che, nonostante l'età, continua a comportarsi da adolescente, può esserne considerato una parodia?

L'unica cosa che non abbiamo in comune è che io non sono omosessuale come Rimbaud e Verlaine! Il concetto del poeta maledetto credo che appartenga a tutta l'autentica letteratura, che è sì un dono, ma al contempo anche una maledizione, perché fa i conti con tutto ciò che è senso di meraviglia, di stupore, ma anche soprattutto di indignazione e allora l'elemento comico combinato all'elemento tragico sono proprio il frutto di questo albero malato che è la letteratura.


Vi sono però nella letteratura altri grandi poeti, come può essere Leopardi, che hanno un atteggiamento del tutto opposto a quello di Rimbaud: la letteratura può quindi portare da un lato a una vita dissipata, dall'altro a chiudersi in se stessi; ti senti comunque più vicino a Baudelaire?

La cosa interessante è che si fa comunque la stessa fine! Io appartengo agli scrittori vitalisti e non a caso la maggior parte di questi sono morti suicidi proprio per un eccesso di vita, per una necessità di vita. Penso a Hemingway, ma penso anche a "suicidi meno suicidi": uno si può uccidere giorno per giorno, con l'alcool, con le droghe; penso al concetto della dissipazione.


Il genio porta quindi sempre all'estremo?

Non lo so. Pensiamo ad esempio ad un personaggio come Lovecraft, che scriveva queste storie orroristiche ed è il padre di Stephen King e di tutti gli scrittori del genere: lui ha avuto una vita assolutamente banale, apparentemente banale, nel senso che non ha mai compiuto un gesto eroico… ma pensiamo anche a Franz Kafka. Gli inferni non sono necessariamente presenti e manifesti, ma possono essere assolutamente interni: esiste una vita interiore che può essere altrettanto movimentata e tormentata di quella esteriore.


In un altro tuo libro, Il conto dell'ultima cena, invece, il protagonista è giunto all'età di trentatré anni «folgorato dalla constatazione che tutti i giusti, da Gesù Cristo a John Belushi, sono morti alla sua età»: il profano «lotta contro il sacro pur subendone il fascino» ed entrambi convivono nella figura e nella vita di Lazzaro.

La cosa che hanno in comune è che andavano in giro tutti e due a far casino, hanno avuto un certo successo ed entrambi hanno anche fatto una brutta fine…


Nei tuoi libri i valori ufficiali, come possono essere la religione, la fede politica, le grandi opere letterarie e i detti popolari convivono, si confrontano e si mescolano senza più barriere. La volontà è quella di scardinare i limiti fra ufficiale e non ufficiale, alto e basso, conveniente e sconveniente?

È quasi una necessità, una necessità nata dall'evidenza: io, ad esempio, sono agnostico, ma sono interessato ai fenomeni religiosi, perché mi stupisce che della gente ci creda, e quindi ne sono assolutamente affascinato. Ne Il conto dell'ultima cena, non a caso, Lazzaro è l'ultima persona al mondo a cui potrebbe apparire la Madonna, ma appare a lui e in questo senso c'è un illuminante testo di Carmelo Bene, recentemente scomparso, che si intitola appunto «Sono apparso alla Madonna». C'è l'umano, il troppo umano di Nietzsche, che si scontra poi con quello che Bertrand Russell chiamava «misticismo e logica».


Anche nella vita reale hai un intento provocatorio, la volontà di smascherare e sovvertire l'ordine della nostra società «dell'immagine»?

C'è una frase che devo aver detto in qualche trasmissione televisiva (ogni tanto mi invitano in questo calderone), e cioè che quando mi espongo in situazioni che non siano letterarie io sono un fenomeno da baraccone, però bisogna assolutamente scindere le due cose: io resto il fenomeno e voi siete il baraccone.


Credi a quello che scrivi?

Totalmente. Ho scritto un libro nel 1996 che si chiamava Io, non io, neanche lui e raccoglieva i resoconti dei racconti che ho scritto per la mia psicoterapeuta, quasi su commissione: mi diceva ad esempio di abbinare due parole, magari pesce e carta, e io creavo dei racconti. È un'estrema confessione. Ribadisco il concetto: c'è la necessità della confessione.


È evidente che ami giocare con le parole, lavorando sul senso come sul suono; molti proverbi e detti popolari vengono ridicolizzati e reinterpretati, ad esempio «Tornai alla mia panca, sotto cui qualche capra stava crepando» (L'assenza dell'assenzio) e accosti parole che, pur non avendo apparentemente un nesso logico, insieme diventano espressioni divertenti e significative, "bambinoni incorreggibili che di corretto ammettevano solo il caffè" (pag 124), oppure modifichi parti di opere celebri con l'intento di ridicolizzarle. Questo gioco sul linguaggio ha solo una funzione di straniamento per il lettore o ha anche una funzione conoscitiva?

Assolutamente si, tant'è vero che proprio la mia guerra, la mia battaglia da cui uscirò certamente sconfitto e vincitore (un po' come gli eroi di Fort Alamo, che erano 186 texani contro 7000 messicani, quindi inevitabilmente vieni massacrato, però hai vinto la battaglia morale); è quella contro le frasi fatte: sono contrario alle frasi fatte perché credo che ognuno le proprie frasi se le sa creare da sé.


Le frasi fatte, allora, proprio non ti vanno giù?

Dipende da chi le ha fatte! Alla fine della pubblicazione di Sangue di Yogurt, che era uscito su un giornale popolare, avevo scritto, dopo aver ricevuto molte lettere, parte delle quali da detenuti (il che significa che faccio letteratura d'evasione, come direbbe Silvio Pellico!): «finalmente Pinketts come Verga, Foscolo o Manzoni o chi vuoi tu, veniva letto a scuola, con la differenza che io venivo letto sotto il banco».


Il «senso della frase» che attribuisci a qualche personaggio, è solo il significato della frase o è qualche cosa di più profondo?

Vuol dire che ha il senso della frase, ha il significato della frase, ha il suono della frase, ha soprattutto in mano quella sorta di filo di Arianna che gli permette di uscire dal labirinto: è la frase giusta, la parola magica, non so, «supercalifragilistichespiralidoso» in Mary Poppins, «apriti sesamo»… è la vera chiave, l'unica possibile chiave. È usare la frase più appropriata, ma forse anche l'unica, l'unica pertinente che ti permetta di aprire questa porta.


L'emarginazione, la diversità, l'inadeguatezza sono caratteri che soprattutto nell'ultimo secolo sono entrati profondamente nella letteratura. Anche il tuo personaggio si scontra spesso con la società e le sue regole ed esprime un desiderio di scontro, di critica e di smascheramento di essa. Andrea Pinketts si sente "fuori", o vuole apparire tale per differenziarsi, per desiderio di opporsi e di distinguersi?

Io sono un osservatore, sono uno spettatore, ma non consenziente, sono uno che si rende conto, in quanto Lazzaro, che ci sono delle regole imposte che poi non è che siano così serie o così inattaccabili, al contrario: sono uno che appartiene a questo enorme gioco dell'oca che è la vita e la letteratura ma si rende conto che sta partecipando al gioco dell'oca. C'è la necessità di essere il giocatore di poker anziché il giocatore di scacchi, quindi c'è il concetto del bluff, dell'azzardo…


Quindi ti senti davvero fuori da questa società o hai solo voglia di distanziarti perché non la approvi? Lazzaro è dentro la società, ha degli amici, non è un emarginato.

Perché Lazzaro è un drop out di lusso! Io ho fortunatamente avuto il privilegio di poter frequentare ambienti diversissimi l'uno dall'altro, dai barboni alla Stazione Centrale ai tè della contessa Marzotto e mi sono trovato bene in entrambe le circostanze, incontrando comunque delle persone, in un luogo e nell'altro, nella Stazione Centrale o nel salotto "buono", assolutamente incompatibili con il mio modo di vedere. Non voglio fare il romanzo sociale: La leggenda del santo bevitore è un bellissimo testo, ma è assolutamente retorico. Ho fatto il barbone per «Esquire»: ho vissuto un mese alla Stazione Centrale nel 1990 per raccontare questa realtà, e lì mi sono reso conto che questa idea iconografica e romantica è assolutamente falsa. Non esisteva il vincolo solidaristico, ma esisteva la lotta per la sopravvivenza; era altrettanto interessante, però, notare il fatto che il barbone non era quello con la barba bianca e necessariamente saggio, ma era ad esempio un trentacinquenne la cui ditta falliva e improvvisamente decideva di cambiare vita.


Questo tuo desiderio di differenziarti non può in un certo senso essere interpretato come "snobbismo", come sentimento di superiorità nei confronti degli altri?

Si, esiste una sorta di snobbismo in tutto ciò, non lo nego, però secondo me ci sono due forme di snobbismo (sai che snob viene da sine nobilitate, senza nobiltà): c'è lo "stronzo" e c'è invece l'autentico snob; io ho incontrato degli autentici snob recentemente a Torino in un altro salotto "buono", dove ci sono persone che hanno cinque cognomi e non hanno più una lira perché hanno dilapidato il patrimonio di famiglia, ma magari un loro avo era alle crociate e loro quando parlano di Agnelli lo definiscono «il carrozziere» perché, pur essendo forse il re d'Italia (insieme all'altro), è comunque un meccanico, un carrozziere. L'aristocrazia del denaro non è apprezzata dall'aristocrazia dei titoli. Agnelli è sicuramente un gentiluomo, nel senso inglese del termine, ma nonostante ciò non ha quei quarti di lunghi di nobiltà necessari.


Il linguaggio nei tuoi libri ha dunque un ruolo molto importante: un elemento ricorrente è l'accostamento di registri alti e bassi e in alcuni casi c'è un fenomeno di ibridazione della lingua, come ad esempio il linguaggio di Assenzio Due, che mischia inglese, italiano e dialetto napoletano. La scelta ha un significato preciso, oltre alla voglia, magari, di far sorridere il lettore?

Se devo essere sincero, far sorridere il lettore è l'ultimo dei miei pensieri: mi interessa rendere un personaggio credibile e un personaggio credibile è uno che magari non parla italiano bene e si rivolge ai suoi interlocutori in questo linguaggio approssimativo e inventato per farsi capire più o meno da tutti. Gioco con le parole, ma per tornare a John Belushi, «quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare».


Anche la scelta dei nomi non sembra casuale: in Lazzaro sembra quasi esserci un'opposizione tra il carattere del personaggio e il suo nome e anche questo potrebbe essere letto come un tentativo di confondere, superare ogni limite e confine. L'alto e il basso si mescolano per eliminare tutte le distanze o per mostrare distanze dove vige l'omologazione?

In realtà, Lazzaro Santandrea secondo me è un nome epico e io scrivo delle storie epiche in cui l'alto e il basso si mischiano continuamente. Il mio primo romanzo si intitola Lazzaro vieni fuori, che è la versione meno nota dell'altro evangelista, San Giovanni, rispetto a quello che è «alzati e cammina»: mi piaceva il nome Lazzaro perché sapeva un po' del primo zombi della storia e poi per la varia assonanza con "lazzarone", quale il mio protagonista è; per quanto riguarda il cognome, io mi chiamo Andrea di nome e c'era quasi una necessità, forse hai ragione tu, di nobilitare il ragazzaccio. Lazzaro, dunque, ha un nome che dal punto di vista cattolico è assolutamente impegnativo, e si scontra continuamente con la divinità, nella quale non crede, ma di cui non esclude l'esistenza e forse anche l'autentica indagine.


Infatti, nel tuo libro Il conto dell'ultima cena, Lazzaro crede che Pepita, la fidanzata, sia stata uccisa dalla Madonna…

Lui non crede all'esistenza della Madonna: lo stupisce che sia apparsa ad una pastorella ignorante, però non esclude che possa apparire a lui. Pensa: «se proprio la Madonna esiste doveva apparire a me». Non crede nelle gerarchie ecclesiastiche, non crede nelle mitologie, però se ne lascia affascinare.


Riconosci nei tuoi romanzi la componente del carnevale inteso come abolizione di tutte le gerarchie, eliminazione di ogni vincolo, dove tutto viene mischiato?

Si, ma nei miei libri comunque ci sono talmente tanti elementi che posso ritrovare qualsiasi cosa…


I personaggi dei tuoi romanzi sono persone reali?

Si, la madre di Lazzaro è davvero come mia madre e la nonna è venuta a mancare mentre scrivevo L'assenza dell'assenzio. Anche gli amici di Lazzaro esistono tutti: Pogo il Dritto, Antonello Caroli…


Nella prefazione a L'assenza dell'assenzio scrivi: «Fatti, luoghi e personaggi di questo romanzo sono reali. Ogni riferimento all'immaginazione è puramente casuale»; e gli assassini?

No, anzi: gli assassini sono le uniche cose che esistono! In questi casi c'è un'enorme dicotomia tra la trama di un libro e la realtà, nel senso che se io scrivessi delle storie assolutamente reali o realistiche sarebbero incredibili: la finzione romanzesca, invece, aiuta a rendere più credibili delle storie improbabili.


Puoi parlarci della tua posizione nell'ambito della letteratura pulp?

Sono partecipe del movimento che si chiamava, non a caso, «gioventù cannibale», nato nel '96 con un libro di Einaudi in cui c'erano Aldo Nove, Pinketts, Ammaniti e altri ancora. Scarpa non era nella antologia, però è stato accomunato al movimento, ma anche Montanari fa parte dello stesso gruppo, pur non avendo partecipato all' antologia. La nostra è una visione di quasi coetanei nei confronti del mondo dettata dalla contaminazione: noi forse abbiamo visto gli stessi film e letto gli stessi libri, ci siamo tutti quanti masturbati vedendo Raffaella Carrà nel '70…soprattutto rivedendo Raffaella Carrà adesso…


Come definiresti i tuoi romanzi?

O patafisici, pensando a Janry de Bouruand, oppure addirittura maigrettiani. La patafisica, tra l'altro, è una delle "culture dell'assenzio": è un movimento sia letterario che pittorico e, oltre ad essere letterario e pittorico, è anche pittoresco, nel senso che il concetto di realtà veniva assolutamente scardinato e nello stesso tempo esasperato.


La scelta della copertina del libro L'assenza dell'assenzio sembra già anticipare i temi del romanzo: vi sono infatti rappresentati due teschi, uno interpretabile come simbolo del mistero e del giallo e l'altro come parodia e presa in giro del primo…

Ecco. Questo è molto patafisico… In qualsiasi periodo della tua vita, se capisci veramente come essa è, i casi sono due: o ti tiri un colpo, o ti fai una grandissima risata! Non è mia, è di Mark Twain.


Hai scelto di ridere della vita? Il riso ha quindi anche una funzione catartica, liberatoria?

Assolutamente si. Diciamo che ho scelto di ridere e di angosciarmi contemporaneamente, perché ci sono delle fasi, non esiste l'eterna risata e non esiste l'eterna angoscia…


I tuoi libri possono avere una funzione rivelatrice, nel senso che danno la possibilità al lettore di scoprire qualcosa che non conosce e gli fanno prendere coscienza del fatto che la realtà non è come la si vede ma ha sempre qualcosa di comico?

Si, però nello stesso tempo cerco di mostrare che anche la comicità ha qualche cosa di tragico!


Quando scrivi hai un fine, uno scopo?

Uso un sistema che si chiama «guido nella nebbia», che ho brevettato: so da dove parto e so dove voglio arrivare, ma non ho la più pallida idea di come ci arriverò. Tutto ciò che capita nel frattempo non è un'autostrada, ma sono percorsi sotterranei, a volte addirittura vicoli ciechi, a volte strade statali, per cui mi perdo duemila volte, ma è giusto che sia così. In questo sono pochissimo un giallista: per me la storia è irrilevante rispetto alle emozioni che il protagonista vive nel corso di essa.


Scrivi per comunicare un messaggio, o semplicemente per te stesso?

Secondo me uno, a meno che proprio non scriva per denaro, scrive soprattutto per sé stesso, per liberarsi, e poi per una sorta di interlocutore privilegiato, che è quello che capirà ciò che tu hai scritto: ovviamente la speranza è che l'interlocutore privilegiato non sia uno, ma siano centinaia di migliaia di lettori, però la scrittura è un monologo destinato a diventare dialogo, ad essere raccolto.


«Bollettino '900» dedica questo numero al racconto: dal punto di vista dello scrittore, qual è secondo te la differenza tra questo genere e quello del romanzo?

La tenuta del racconto rispetto a quella del romanzo implica una tensione maggiore, perché non ha il tempo fisico di essere stemperata, e una volontà-necessità di sintesi che ingravida le parole senza lasciare nove mesi di tempo per scodellare il neonato.


Sembri preferire la forma del racconto lungo o addirittura del ciclo con uno stesso protagonista (elemento, questo, che condividi con altri celebri scrittori di gialli), rispetto al racconto breve. C'è una ragione in questa scelta? Mi viene in mente Agatha Christie…

No, io non ho niente a che vedere con Agatha Christie: quando scrive le storie di Poirot è seriale, io, invece, cerco di creare una sorta di Chanson de geste, per cui i miei personaggi cambiano, invecchiano, crescono, assistono a lutti che determinano dei cambiamenti nella loro mente; a me piace avere questo alter ego in modo onesto, cosa che non faceva per dirti Hemingway. Hemingway era un grandissimo scrittore, che ha rivoluzionato non solo la scrittura, ma addirittura il giornalismo, però in tutte le sue storie c'è sempre Hemingway: in un romanzo si chiama Nick Adams, nell'altro ha un altro nome, ma è sempre Hemingway in diverse fasi della propria vita. Qui ha lo stesso nome, però la vita cambia: se tu leggi, non so, Il vizio dell'agnello, rispetto all'Assenza dell'assenzio, sono passati dieci anni, è cambiato il protagonista perché è cresciuto, cioè ci sono involuzioni ed evoluzioni, è cambiata anche la città, è cambiata la società, è cambiato il mondo accanto a lui.


Anche Lazzaro invecchierà, quindi.

Non so, forse non ne scriverò più…


Ci sono scrittori della tua generazione a cui ti senti in qualche modo affine, oppure ti senti unico, un caso a parte, non paragonabile a nessuno?

Mi sento un caso non paragonabile a nessuno, assolutamente unico, però mi sento molto legato agli scrittori della mia generazione, Lucarelli, Montanari, Aldo Nove: in realtà siamo diversissimi e per questo tra noi non esistono, almeno da parte mia, ma neanche loro, invidie, gelosie, cosa rara sul lavoro, ma, ripeto, il punto comune è che abbiamo visto gli stessi film e letto gli stessi libri.


C'è un film in particolare che ha influenzato il tuo modo di vivere?

Ce n'è più di uno, ad esempio Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah.


E fra i libri, quali citeresti?

Tom Sawyer di Mark Twain e John Kennedy Toole, che è uno scrittore quasi ignoto, sconosciuto per lo meno, che ha pubblicato Una banda di idioti che è un libro straordinario sulla difficoltà di integrazione del genio e il cui titolo nasce da una frase di Jonathan Swift che dice: «Al mondo, quando nasce un vero genio, lo si riconosce dal fatto che gli idioti fanno banda contro di lui».


Quindi tu saresti il genio, e chi ti dà contro, gli idioti?

Io mi scontro quotidianamente con una banda di idioti, però per fortuna sono una vecchia pellaccia per cui so come trattarli…


Un ultima domanda: alla luce dei più recenti sviluppi dell'editoria elettronica, come vedi il futuro del libro tradizionale? Come cambierà il rapporto dei lettori con i tuoi libri?

I miei libri sono estremamente animati come dei cartoni, il fatto è che il libro ha una sua fisicità, a volte perfino grottesca, che gli permette di coesistere con il lettore. Credo che i libri non moriranno mai nonostante il tentativo farsesco degli e-book. La conclusione è questa: un libro è un oggetto che ti puoi portare a letto. A volte anche il suo autore.

 

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Giugno-dicembre 2002, n. 1-2